close

NUOVO LIVELLO

COMPLIMENTI !

nuovo livello

Hai raggiunto il livello:

livello

#CineFacts. Curiosità, recensioni, news sul cinema e serie tv

#articoli

Strade perdute - Spiegazione: il nastro di David Lynch

Quando il surrealismo si fa geometrico

Quando il surrealismo si fa geometrico, ecco Strade perdute di David Lynch. 

 

Nel 1858, il matematico tedesco August Ferdinand Möbius scoprì quello che verrà poi ribattezzato come “Nastro di Möbius”. Di cosa si tratta, in estrema sintesi?

 

Il nastro di Möbius è una superficie non orientabile dotata di un’unica faccia, per la quale viene a mancare il principio secondo cui esisterebbe sempre un lato superiore/interno e uno inferiore/esterno su qualsivoglia superficie. 

Come conseguenza di ciò, sarebbe quindi possibile ritrovarsi al punto di partenza del nastro di Möbius solo dopo averlo percorso due volte; senza bisogno di fare deviazioni lungo il tragitto, ma semplicemente continuando a camminare in avanti.

 

E così all’infinito.

 

 

 

 

Immaginiamo un esempio concreto.

 

Se, stabilito un punto di partenza X e due versi direzionali (avanti e indietro), ponessimo due formiche identiche tra loro una sotto l’altra rispetto al bordo e le facessimo partire in contemporanea, mantenendo la stessa velocità, esse sarebbero matematicamente destinate a non incontrarsi mai, pur facendo lo stesso percorso e pur essendo entrambe posizionate sull’unica faccia disponibile per muoversi. 

 

Per quale motivo ho fatto tale premessa? 

Perché, di fatto, Strade perdute non è altro che la messa in atto cinematografica del principio matematico di Möbius.

 

In Strade perdute tutto si ripete due volte, ma senza che venga stabilito un inizio e una fine.

 

Attenzione: non si tratta di un racconto stilisticamente circolare (come Arrival, per intendersi); e non è nemmeno un film che se visto al contrario risulterebbe lo stesso, perché non essendoci banalmente un punto di inizio, automaticamente non potrebbe esserci un punto terminale.

 

 

 

 

La narrazione troverebbe dunque la sua ragion d’essere solo se analizzata e considerata nella prospettiva paradossale del nastro di Möbius sopra descritta, con un inizio narrativo che è anche la fine, e una fine narrativa che è anche l’inizio.

 

In Strade perdute le coordinate temporali si confondono tra loro fino inevitabilmente a mischiarsi; anche lo spettatore più attento e predisposto, oltre che abituato al Cinema di David Lynch, rischierebbe di perdersi nell’intreccio. 

 

Ma il punto è proprio questo.

L’opera di Lynch, come d’altronde tutta la sua filmografia, non necessita di essere necessariamente compresa, in quanto non agisce sul nostro canale razionale quanto piuttosto su quello inconscio ed emotivo.

Non dobbiamo pretendere che ogni dubbio sia alla fine chiarito e che ogni cosa venga spiegata; sia perché perderebbe di fascino (e questo vale per tantissimi altri titoli della Storia del Cinema), sia perché non coinciderebbe comunque con l’intento autoriale del regista.

 

Lynch ci catapulta in un mondo in cui realtà e finzione viaggiano sugli stessi binari, in cui la componente onirica è parte attiva della narrazione e una tetra e anarchica Los Angeles costituisce lo sfondo perfetto per ambientare storie al limite del fantastico.   

 

L’incipit del film, un’azzeccatissima commistione tra immagini e musica moderna, è tra i più famosi e riconoscibili degli anni ‘90; la strada, che ricorre spesso e con diversi significati lungo tutta la filmografia del regista (Cuore selvaggio, Mulholland Drive, Una storia vera), è per definizione metafora della vita.

 

Sotto le splendide note di “I’m Deranged” di David Bowie, vediamo scorrere i titoli di testa. 

Le parole della canzone sono già sintomatiche: I’m deranged, letteralmente “sono squilibrato”; un pezzo che anticipa il tono allucinato che percorrerà l’intera pellicola e che si sposa alla perfezione con la modulazione liturgica della colonna sonora di Angelo Badalamenti, fisso collaboratore del regista dai tempi di Velluto Blu

 

 

 

Strade perdute inizia anzitutto come un giallo. 

 

Il sassofonista Fred Madison si trova nella sua abitazione quando sente suonare il citofono; dall’altra parte, una voce misteriosa e sinistra recita Dick Laurent è morto”.

 

La reazione del personaggio è la stessa dello spettatore: chi è Dick Laurent, e a chi appartiene la voce? 

Si odono le sirene della polizia fuori dalla casa, ma in strada non c’è nessuno. 

 

Ben presto, Fred si renderà conto come questo episodio singolare non sia destinato a restare un caso isolato. 

Nei giorni a seguire, infatti, iniziano ad arrivare misteriose buste contenenti nastri di registrazione, che mostrano gli interni ed esterni dell’abitazione dei Madison, filmati a loro insaputa. 

Qualcuno li sta spiando. 

 

Dai vari scambi di battute con la moglie Renée, si intuisce come Fred sia un uomo insoddisfatto della propria vita matrimoniale; appare apatico, incapace di attirare l’attenzione della compagna (che sembra continuamente sfuggirgli) e, come se non bastasse, soffre di disfunzione erettile. 

I loro dialoghi sono vuoti, spenti, come sospesi nel vuoto, come se non stessero davvero avvenendo in momenti e spazi definiti.

 

Sin dall’inizio di Strade perdute Lynch ci vuole comunicare la personalità dei personaggi in gioco e la distanza tra i loro cuori; i caratteri sono accennati, ma tanto basta per capire quanto la coppia sia sull’orlo di una rottura.

Lo spettatore ancora non lo può sapere, ma anche quelle informazioni che sembrano apparentemente più futili avranno rilevanza ai fini del completamento del complesso mosaico narrativo che Lynch sta per mettere in atto.

 

Un paio di indizi ci vengono direttamente offerti per bocca di Fred: il primo è quando racconta a Renée dell’incubo che aveva avuto la notte precedente, nel quale non riusciva più a riconoscere la moglie

“Sembravi tu, ma non eri tu” 

 

Il secondo è quando, durante un confronto con gli agenti di polizia chiamati per indagare sulle videocassette, Fred sostiene di preferire ricordare le cose come le ricorda lui, e non necessariamente come sono avvenute.

Questa seconda frase in particolare assume una doppia valenza, in quanto da una parte mette in luce l’insicurezza del personaggio (quasi il voler nascondere a se stesso la verità, se dolorosa), dall’altra stigmatizza il pensiero di Lynch sul significato di veridicità e sulla caducità del reale.

 

Cos’è reale?

Ciò che è accaduto davvero o ciò che io ricordo?

 

Il regista sta suggerendo che in Strade perdute non esiste un’unica realtà, e lo spettatore ne avrà conferma con il passare dei minuti…

 

 

 

 

Dopo il primo incontro e dialogo, teso quanto surreale, tra Fred e l’inquietante uomo in nero, uno dei personaggi più enigmatici di tutta la filmografia lynchiana, si giunge al punto di svolta di Strade perdute.

 

Un terzo nastro che viene recapitato ai Madison incastrerebbe Fred come omicida della moglie (spettatore e protagonista scoprono la morte di Renée nello stesso momento). 

 

Pur non ricordando niente di tutto ciò, l’uomo viene incarcerato e condannato alla sedia elettrica.

Sedia elettrica che non raggiungerà mai perché mentre è in cella, in un acceso e innaturale bagliore di luce, Fred subisce una sorta di metamorfosi fisica, fino a diventare un nuovo personaggio.

 

In quel preciso istante, ritorna la soggettiva della strada percorsa ad alta velocità, questa volta senza musica di sottofondo (in quanto non è né all’inizio, né alla fine).

Nella logica del nastro di Möbius, questo evento si traduce con il compimento del primo giro completo e rivela quindi l’inizio della seconda parte. 

 

Lynch, com’è nel suo stile, non spiega naturalmente nulla; non è dato sapere come e perché sia avvenuta la sostituzione tra i due uomini. Sta di fatto che Fred non esiste più: al suo posto, nella stessa cella, c’è ora Pete Dayton

Ed è come se iniziasse un nuovo film, con un nuovo protagonista. 

 

Un altro Strade perdute. 

 

 


 

Il meccanico Pete sembra molto diverso dal musicista Fred: più giovane, più affascinante, più sicuro di sé, ma ugualmente confuso.

 

Non solo: in una conversazione successiva si scoprirà come a Pete provochi fastidio il suono del sassofono, cosa che sta a indicare quindi il netto contrasto che Lynch vuole evidenziare tra i due uomini, agli antipodi in tutto e per tutto.

 

Privo di una qualsiasi spiegazione razionale, il direttore del carcere è costretto dunque a rilasciare l’uomo (innocente), che può tornare alla vita di tutti i giorni.

 

Cliente dell’officina presso cui lavora Pete come meccanico è il sig. Eddy, un boss della malavita locale.

La sua entrata in scena è fondamentale, soprattutto perché permette l’incontro tra la sua amante, una sensualissima bionda di nome Alice e il giovane Pete. 

 

Nell’istante in cui Alice compare in Strade perdute per la prima volta, lo spettatore nota subito come abbia lo stesso identico aspetto di Renée, la moglie assassinata di Fred. 

Si può dire sia una donna diversa: più disinibita, più affascinante, più sexy; sembra proprio che lo stesso fenomeno di trasfigurazione Fred/Pete abbia toccato anche la protagonista femminile. 

 

La sintonia e la tensione sessuale tra i due nuovi personaggi è palpabile, più di quanto fosse riscontrabile tra Fred e Renée.

Lynch mette particolarmente in luce la differenza tra le due coppie nelle due scene di sesso del film: altamente erotica e riuscita la seconda, tra Pete e Alice, quanto incompiuta e impacciata la prima a inizio film, tra i coniugi Madison

 

Se Alice è quindi Renée, solo con una personalità diversa, allo stesso modo Pete rappresenta tutto quello che Fred avrebbe voluto essere, ma che non era.

Non si tratta semplicemente di un doppio e non è neppure una questione di alter-ego, quanto piuttosto di personalità multiple, di inconscio che sprigiona dal corpo fino a prendere vita e diventare qualcos’altro.

 

Ogni personaggio si ripete due volte, ma in modo diverso.

Concettualmente astruso da comprendere, ma narrativamente affascinante.

 

Naturalmente, la metamorfosi di Fred potrà trovare una ragion d’essere solo se anche i personaggi attorno a lui saranno soggetti al medesimo fenomeno.

È per questo che Renée viene sostituita nelle dinamiche della storia da Alice, che è esteticamente identica alla prima, ma diversa caratterialmente.

 

Uguale ma diverso, è questo il leitmotiv di Strade Perdute, in cui ogni personaggio in gioco è una parte del suo insieme, come fosse metà della stessa mela.

 

Il compimento del primo giro sul nastro di Möbius trova come suo corrispettivo nella narrazione la trasformazione del protagonista (che avviene appunto verso metà pellicola, compiuto il primo giro sul nastro); da quel momento in avanti il percorso che mancherà alla fine, cioè al ritorno, cioè al punto di partenza (il citofono che suona), sarà anch’esso uguale al primo, ma anche diverso dal primo. 

 

Uguale perché i personaggi sono fisicamente gli stessi, e diverso perché il loro relazionarsi con la realtà e la storia, dato dalla loro diversa personalità, si distingue da quelli che popolavano la prima metà del film, che di conseguenza seguiranno sul nastro un percorso speculare a quello precedente.

 

Speculare, non uguale; cioè uguale ma diverso.

 

 



Strade perdute si divide dunque simbolicamente in due parti distinte, che corrispondono ai due rispettivi giri sul nastro necessari per poter tornare al punto originario senza digressioni.

 

Decisi a scappare insieme, per sfuggire alla sicura ira del sig. Eddy, Alice e Pete fanno affidamento a Andy, il loro salvacondotto.

Lynch continua a giocare con lo spettatore: quell’Andy è lo stesso che aveva dato la festa di inizio film durante la quale Fred aveva conosciuto l’uomo in nero; quello stesso Andy di cui Renée non ricordava nulla.

 

Qui opera il subconscio in maniera palese: Renée non ricordava dove avesse conosciuto Andy, perché in verità fu Alice a esserci entrata in contatto; quindi lei sa, sente in cuor suo di averlo incontrato in precedenza (quasi come succede con i déjà-vu) ma non ricorda giustamente il luogo esatto.

 

Nell’appartamento di Andy, comunque, viene pronunciata la frase più importante di Strade perdute.

Guardando una foto che ritrae la vecchia Renée fare coppia con Eddie, e l’attuale Alice insieme ad Andy, Pete diventa lui stesso spettatore dell’inganno messo in piedi da Lynch e rivolgendosi ad Alice esclama:

“Ma questa sei tu? Ma sei tutte e due!”.

 

E in effetti è proprio così: il personaggio interpretato da Patricia Arquette è tutte e due le donne allo stesso tempo; Renée e Alice non esistono, sono solo il riflesso di due differenti modi di vivere, pensare e relazionarsi agli occhi del protagonista, Fred prima, Pete poi.

Ed ecco perché era necessario che, con la trasformazione di Fred Madison in Pete Dayton, la bionda Alice sostituisse la rossa Renée; perchè ogni figura esiste solo in funzione del suo corrispettivo.

 

Le due coppie sono distinte, ma legate tra loro da un rapporto di interdipendenza. L’una trova la propria ragion d’essere in funzione dell’altra, il suo specchio capovolto. 

Si sta sempre precorrendo il nastro di Möbius, ma in punti diversi rispetto a quelli già percorsi in precedenza; anche qui per la precisione uguali (perché conducono allo stesso punto) ma diversi (perché speculari).

 

Appare chiaro come la storia che stanno vivendo i personaggi sia più grande di loro; essi appaiono piuttosto come mere pedine teatrali, finalizzate unicamente a dare una giustificazione all’intricata struttura narrativa, dove i significati di realtà e verità vengono svuotati del loro senso letterale. 

 

 



In seguito a una colluttazione con Pete, Andy perde la vita. 

 

I due amanti saranno costretti a una fuga nel deserto, fino ad arrivare nei pressi di una casa di legno, che era già apparsa in sogno a Fred nella prima parte del film.

 

Qui i due faranno nuovamente l’amore, fino a quando un nuovo evento spariglierà le carte, per l’ultima volta.

 

“Tu non mi avrai mai”.

Con questa battuta, pronunciata improvvisamente da Alice e indirizzata a Pete, ci si avvia verso l’epilogo di Strade perdute.

Perché è così rilevante questa frase, così lontana dai toni amorevoli a cui Alice ci aveva abituato (e a cui era abituato lo stesso Pete, fino a quel momento)?

 

Perché sancisce il ritorno dei personaggi ai loro ruoli originari: è Alice che parla da Renée e, parlando da Renée, non può che accadere l’impensabile, una nuova trasfigurazione. Pete che ritorna a essere Fred.

 

La Renée che ci è stata presentata nella prima parte del film era una donna che non nutriva alcuna considerazione nei confronti del marito; si può dire che non l’abbia mai amato fino in fondo.

Fred lo sapeva bene e per questo ne soffriva, perché consapevole di non poterla avere, di non poter trovare spazio nel suo cuore.

Ecco che allora quella frase, pronunciata a sorpresa (nostra come di Pete) fa tornare a galla le tensioni della relazione tra i coniugi, provocando così una contro-trasformazione.

 

Perché se Alice lascia il posto a Renée, allora necessariamente Pete dovrà (ri)lasciare posto a Fred.

E infatti, alla domanda di un redivivo e confuso Fred (“Dov’è Alice?”), l’uomo in nero, che ritorna in scena immutato per la terza volta non può che rispondere

“Chi è Alice? Lei si chiama Renée”.

 

Alice non esiste più, così come non esiste più Pete.

 

L’uomo in nero è l’unico a non essere cambiato, né nell’aspetto, né nella persona; ripete addirittura anche le stesse frasi e con il medesimo taglio

“Ci siamo già visti a casa tua”

 

Non viene ovviamente spiegato il motivo della sua esistenza, ma il sospetto è che sia una sorta di demone o essere sovrannaturale che muova gli interi fili dell’intreccio e che rappresenti la peggior versione possibile di Fred su se stesso (perchè violenta e assassina, probabile responsabile della morte di Renée), esattamente come quella di Pete equivaleva alla sua proiezione migliore, cioè all’ideale dell’Io (ciò che Fred non era, ma che avrebbe voluto essere).

 

 

 

 

Il motel “Strade perdute” è la destinazione finale del viaggio allucinato di Fred. 

 

Qui ritrova sua moglie, che come suggeriva una foto già mostrata in precedenza nell’appartamento di Alice, è amante di Dick Laurent.

 

Che aspetto ha Dick Laurent?

Lo stesso di Eddy, ovviamente; anche il suo personaggio è partecipe del gioco del doppio.

Il sig. Eddy, amante di Alice, è il corrispettivo di Dick Laurent, quest’ultimo amante di Renée, la quale è la corrispettiva di Alice, amante di Pete, il quale è il corrispettivo di Fred, marito di Renée, che è amante di Dick Laurent.

 

Tutto torna.

 

È interessante ricordarsi come alla famosa festa di inizio film, alla domanda di Fred su chi fosse quell’inquietante uomo in nero con cui aveva appena avuto un surreale faccia a faccia, Andy gli avesse spiegato che era amico di Dick Laurent; quando Fred rispose che pensava fosse morto, giunse in quel momento Renée, che alla domanda

Chi è che è morto?”, si sentì rispondere da Fred

“Nessuno”.

 

Fa tutto parte del piano profilmico di Lynch: Dick Laurent non può essere citato in presenza della donna, essendo loro due amanti. 

Se Fred ne avesse parlato in quello specifico contesto, davanti a Renée, il paradosso narrativo non avrebbe potuto essere risolto a fine pellicola e tutti i pezzi del mosaico sarebbero andati sparsi ancor prima di poter iniziare a metterli insieme.

 

Le carte sarebbero state rivelate prima del previsto, originando così una reazione a catena che avrebbe portato a un brusco deragliamento dal percorso predefinito sul nastro di Strade perdute. 

 

Gli unici personaggi ad aver riconosciuto Dick Laurent dietro le sembianze di Eddy prima di tutti gli altri, come se fossero in qualche modo partecipativi di entrambi gli universi narrativi, sono gli agenti di polizia, i quali si erano resi conto dell’identità dell’uomo nel mentre che pedinavano Pete, appena rilasciato dalla prigione.

 

Si può pensare che i poliziotti sapessero già tutto perché estranei al gioco di Lynch; non stanno percorrendo il nastro di Möbius, sono al di fuori di esso. In effetti, la loro presenza all’interno della storia è totalmente inutile e non ha alcun impatto sulla vita dei protagonisti.

 

Credo che il punto di forza di Strade perdute risieda proprio in questa esasperata attenzione per ogni singolo particolare, frase o dialogo che sia; lo immagino come uno di quei grandi puzzle da mille pezzi, il cui completamento richiede tempo e pazienza, ma che una volta ultimato, con ogni tassello al posto giusto, possiede un indubbio fascino visivo.

 

 

 

 

Si diceva comunque del motel, al cui interno si consuma la resa di conti: Fred vs Dick Laurent.

 

Lo spettatore sa già come finirà la sfida, gli è stato già comunicato in precedenza.

Quando?

Alla primissima scena: “Dick Laurent è morto”.

 

A ucciderlo è stato l’uomo in nero, ma Fred ancora non lo sa; non è un dato importante, perché tutto quello che conta è che il percorso sul nastro è ora completato, il paradosso è risolto, e la storia dell’inconsapevole Fred, colui che ascolta la voce al citofono, può ricominciare da capo. 

 

Le due storie che vengono a intrecciarsi lungo Strade perdute non sono facce della stessa medaglia, bensì un’unica faccia del nastro di Möbius, che per tornare al punto di partenza ha bisogno di diventare altro a un certo punto del tragitto (da qui la trasfigurazione del protagonista). 

 

La scena finale, quando il personaggio di Bill Pullman torna a casa sua per lasciare il messaggio al citofono, rappresenta allo stesso tempo incipit e conclusione a seconda del punto di vista (che vuol dire anche a seconda del giro compiuto sul nastro di Möbius). 

 

Quel particolare attimo è il compimento del secondo giro sul nastro, che identifica il ritorno al punto di partenza, che non è uguale a se stesso (cioè all’incipit) perché viene dopo un primo giro era già stato completato.

Non è il ritorno dell’uguale a sé, ma il ritorno dell’uguale diverso da sé.

Da quel momento in poi sarebbe iniziato un nuovo giro sul nastro, con il messaggio nel citofono che avrebbe ridato nuova linfa alla narrazione. E così via, in un loop apparentemente infinito.

 

E il Fred che ha comunicato il messaggio che fine farà? Ha adempiuto alla sua funzione, il suo ruolo all’interno della storia cessa di essere decisivo ed ecco quindi che può riprendere la sua corsa nel deserto californiano, lontano da tutti.

 

L’iter sul nastro di Lynch può dirsi allora ultimato; e in attesa della nuova trasfigurazione, la pellicola non può che terminare.

E in che modo termina?

Sulle note di I’m Deranged.

 

Ecco che in Strade perdute ritorna ancora il pezzo di Bowie ad accompagnare i titoli di coda, proprio come successo con i titoli di testa, ma con una differenza sostanziale: quest’ultima versione risulta leggermente diversa dalla prima, appare meno frenetica, meno invasiva. 

La canzone di Bowie è come se fosse stata a sua volta trasfigurata, proprio come il personaggio di Fred, per diventare altro: è sempre la stessa canzone, con le stesse parole, ma è anche contemporaneamente diversa, dotata di una personalità nuova, perchè adeguatasi al gioco degli specchi.

 

Anche nella scelta musicale che chiude il film si sostanzia quindi il carattere coerente della struttura narrativa messa in piedi da Lynch, nella quale tutto ha una propria variazione; che questa abbia poi un impatto sul corpo dei personaggi o sul pentagramma musicale, non fa alcuna differenza.

 

 

 

 

Strade perdute gioca sull’ambiguo rapporto tra realtà e sogno, topic già messo in atto nel precedente Velluto Blu e che troverà poi la sua più massima esplicitazione in Mulholland Drive, vera summa dell’estetica lynchiana.

 

La dimensione onirica e inquietante della storia viene dunque ancor più enfatizzata dalla voluta e consapevole messa in crisi del soggetto narrativo, metafora della complessità della psiche umana, i cui profondi meandri (da sempre oggetto di predilezione nella carriera del regista) vengono indagati con uno stile allucinato e visionario, che conferisce alla pellicola le sembianze di un kafkiano incubo a occhi aperti.

 

L’unica cosa che si può fare è lasciarsi trasportare dal surrealismo delle immagini e dalla soundtrack ossessionante. 

È proprio per questo che il cinema di Lynch può essere a buon diritto considerato come il più grande esempio di cinema d’autore postmoderno, perché costringe lo spettatore a schierarsi. 

 

Prendere o lasciare: l’indifferenza non è contemplata. 

 

Become a Patron!

 

Ti è piaciuto questo articolo? Sappi che è il risultato di tanto impegno, profuso nel portare ai lettori contenuti verificati e approfonditi con attenzione.

Se vuoi supportare il nostro lavoro perché non provi a far parte de Gli Amici di CineFacts.it?

Chi lo ha scritto

TI POTREBBERO INTERESSARE ANCHE

Articoli

Articoli

Articoli

Lascia un commento



1 commento

Pierluca Parise

5 anni fa

Concordo su tutto

Rispondi

Segnala


close

LIVELLO

NOME LIVELLO

livello
  • Ecco cosa puoi fare:
  • levelCommentare gli articoli
  • levelScegliere un'immagine per il tuo profilo
  • levelMettere "like" alle recensioni