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Resident Evil: Welcome to Raccoon City - Recensione: fan-made as a service

Da grande fan della saga ho colto l'occasione per guardare l'ennesima trasposizione della saga Capcom, sarà andata bene?

Ho atteso Resident Evil: Welcome to Raccoon City con febbrile trepidazione e se seguite le mie avventure testuali su CineFacts.it sapete benissimo quanto le motivazioni fossero le più sbagliate e distorte possibili, nonostante la speranza sia l’ultima a morire.   

 

Il film scritto e diretto da Johannes Roberts è stato girato con un budget di 25 milioni di dollari, una cifra piuttosto buona se si pensa che il primo A Quiet Place è stato realizzato con circa 17 milioni, 28 giorni dopo (2002) di milioni ne ha richiesti 8 e il primo Resident Evil (2002) ne ha spesi circa 33.   

 

Alcuni con poco creano diamanti, mentre Paul W.S. Anderson con la scusa del Cinema contribuisce a ingigantire il problema dello smaltimento dei rifiuti. 

I nostri figli e nipoti ci odieranno con forza.  

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City durante la produzione mandava vibrazioni importanti e prometteva di guidare il pubblico di fan tra le mura della gotica e mortale Villa Spencer, come nell’ampollosa centrale di polizia di Raccoon City, aderendo agli eventi e alle premesse della saga videoludica. 

Tuttavia la realtà ci dice che il film ha incassato male in patria, raccogliendo solo 17 milioni nel mercato nordamericano e ben 21,6 nel resto del mondo, riuscendo a stento ad andare in pari con il budget di produzione e generando meno rumore di uno spillo che cade in un prato nel mezzo del nulla.   

 

La domanda che vi starete ponendo è: com’è questo Resident Evil: Welcome to Raccoon City?  

 

 

 

Fedeltà o morte!  

 

La discussione al centro di questa porzione di recensione è stata affrontata così tante volte che dovrebbe essere ormai tatuata nella mente di ogni spettatore, anche il più sbadato.   

 

La fedeltà al materiale originale di una trasposizione da un medium X verso il Cinema comporta indubbiamente specifici aggiustamenti che ne muteranno l’aderenza a sensazioni e situazioni rispetto all’opera originale.   

 

L’idea migliore è quella di rimanere fedele quanto più possibile al materiale originale, piuttosto che snaturare completamente gli eventi, i personaggi e gli umori del racconto per andare in direzioni che potevano essere esplorate da qualsiasi altro film senza il peso di una Intellectual Property importante nel titolo.

Quando si parla di operazioni similari il pubblico va al cinema per l'IP e non inseguendo l’idea pazzerella del regista di turno.

 

Nel caso del videogame la cosa si fa molto complessa per una serie di ragioni che riassumerò, ma che hanno delle complessità che non appartengono a questa recensione.  

 

 

[Avremmo potuto evitarci Super Mario Bros.? Con del buonsenso sì, ma il mondo sarebbe ancora quel posto pieno di magia e mistero? Probabilmente no e vivere sarebbe noiosissimo]

 

Venendo a Resident Evil, posso semplicemente dire che il titolo appartiene a un momento storico talmente lontano dallo sviluppo odierno dei plot da funzionare più che altro grazie alla costruzione della lore e a quel tipo di racconto indiretto tipico del mezzo, che passa per il ritrovamento di documenti, lettere, foto e via discorrendo.   

 

Presi Resident Evil e Resident Evil 2 e tolto il gameplay, di trama non c’è davvero molto e l’esperienza passa principalmente per quello che si prova pad alla mano, per il racconto indiretto e in generale per il linguaggio tipico del medium che al cinema va tradotto altrimenti.   

 

Nella stesura della sceneggiatura di Resident Evil: Welcome to Raccoon City, il regista e sceneggiatore Johannes Roberts sembra rendersi conto di tale problematica e nella sua scrematura degli eventi decide di unire in un unico film gli eventi dei primi due capitoli del franchise, originariamente separati da un gap temporale di un paio di mesi.

L’idea potrebbe non sembrare tanto male, se non fosse che tale scelta ha alle sue spalle delle logiche ben precise. 

 

Resident Evil 2 esiste come conseguenza indiretta del primo, introduce nuovi personaggi e allarga la lore e le trame dietro la Umbrella Corporation e il suo virus.

Decisione che dà a chi gioca l’idea di vivere in un contesto narrativo più ampio, dinamico e in evoluzione, gettando ulteriori fondamenta per la costruzione solida di un franchise. 


I due capitoli della saga, inoltre, non sono stati resi contemporanei per una precisa scelta che rende possibile e plausibile il setting del secondo.

La scelta è dunque utile non solo a dare coerenza e continuità al racconto - considerando anche come il finale del primo aveva quel tocco scanzonato di tarallucci e sakè in linea con la vena surreale della saga - ma anche per impostare uno specifico umore della storia al fine di servirsi di tutti quegli strumenti di storytelling utili per evolvere gli stilemi della saga nel sequel.

 

Più grande, più spaventoso, più rifinito.  

 

Scegliere di appiattire tutto su una sola linea temporale denota una forte disattenzione verso i temi e l’incedere della storia e verso la sua credibilità nell’essere messa in scena.  

 

 

 


Sia chiaro: i due Resident Evil avrebbero potuto essere schiacciati in un film solo, ma la gestione delle due linee temporali - distaccate nel tempo o meno - è un elemento utile per giocare con lo spettatore e con la tensione e doveva essere gestito con più raffinatezza, mentre in Resident Evil: Welcome to Raccoon City è tutto piatto, stupidamente lineare e laconico nella costruzione dell’intreccio.


Alcune cose accadono "perché sì" e senza una conoscenza pregressa del brand non si capirebbe la logica di alcuni eventi.   

 

Saper trasporre significa anche capire l’impronta e la natura di un’opera; il Cinema di genere vive molto spesso di trame talmente semplici da trovare respiro nello sviluppo di un ottimo linguaggio per immagini utile a plasmare una poetica orrorifica adatta alla storia.

 

Per quanto basato sul mostro caro a George A. Romero, Resident Evil: Welcome to Raccoon City non conserva granché della critica sociale del regista, se non la descrizione dell’Umbrella come colosso farmaceutico così intoccabile da poter giocare a fare Dio.

Si nutre più che altro dell’amore tutto nipponico per le trasformazioni mostruose sopra le righe, per gli abominii creati dall’evoluzione del virus che muta gli uomini in zombie e per tutte le esagerazioni volutamente trash che si possono esplorare nel filone.

 

Resident Evil è anche un titolo particolarmente pregno di macabro, gotico e nei suoi primi due capitoli videoludici esprime moltissimo di questa poetica classica del Cinema horror fusa con gli stilemi giapponesi.   

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City cerca invece di mordere la carne dei fan ricreando alcuni dei luoghi, dei personaggi e dei segmenti più iconici dei primi due capitoli proponendoci il primo spaventoso sguardo a Villa Spencer, la stazione di Raccoon City quasi identica, l’orfanotrofio, la scena d’apertura di Resident Evil 2 con il camionista e molto altro; quest’ultima scena è inoltre rovinata per messa in scena e costruzione della tensione, esattamente come altre di cui discuterò più avanti.

Resident Evil: Welcome to Raccoon City è sostanzialmente un fan service così sgraziato da ricordare la pesca con le granate, rendendo il concetto di sparare ai pesci in un barile un trattato di astrofisica incomprensibile per il buon Roberts.    

 

Offrendoci però un inaspettato colpo di scena, l’unico nel film ma per nostra sfortuna esterno agli eventi raccontati, il regista ricorda anche di dover fare del Cinema e proprio in questo tranello inciampa prima goffamente e poi sempre più rovinosamente, come se cascasse da una collina di carne zombi putrida. 

 

 

[Resident Evil: Welcome to Raccoon City è stracolmo di riproduzioni molto fedeli, ma...]

 


Uncanny valley produttiva 

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City riesce a creare il primo fenomeno della Storia del Cinema di Uncanny valley produttiva.

 

Con Uncanny valley - in italiano "Valle Perturbante" - si definisce quella sensazione che si prova quando si guarda qualcosa in CGI che attiva una parte istintiva del nostro cervello che ci fa dire “Ehi, questa cosa non è reale!”.

Il nostro cervello registra una serie di meccanismi a livello totalmente inconscio: movimenti degli occhi, pattern dei fluidi, meccanismi delle microespressioni, rifrazione delle luci, reazioni fisiche di oggetti e corpi e via discorrendo.


Quando un VFX artist o un animatore CGI riproduce qualcosa, ma dimentica di simulare certi aspetti spesso per uno studio superficiale delle situazioni o per limiti tecnologici, si innesca questo meccanismo istintivo.

La CGI non è brutta formalmente parlando, ma qualcosa non torna e il nostro cervello inizia a gridare come una scimmia in preda a un attacco di panico.  

 

Con Resident Evil: Welcome to Raccoon City abbiamo qualcosa di simile, perché il film attiva una istintiva reazione per la quale quella cosa così simile a Resident Evil è terribilmente diversa da Resident Evil.

Ricordate la collina e quanto anticipato riguardo la scena del camionista?

Parte tutto molto blando e poi c’è un tracollo.

 

Un esempio: l’orfanotrofio di Raccoon City è identico a quello del videogioco, come lo è la stazione di polizia nei pochi ambienti mostrati o l’ingresso di Villa Spencer.   

Johannes Roberts inizia mettendo in scena il film con una perizia interessante e quello che ci viene raccontato per immagini è un posto da incubo grondante pioggia, decadente e molte piccole scene dicono "Resident Evil" a gran voce.   

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City ha anche il merito di evitare l’effetto “cosplay in scena” e la selezione del cast di protagonisti fa un bel lavoro nel caratterizzare visivamente i vari Leon, Claire, Chris, Jill e Wesker.

 

Tuttavia, già guardando allo sviluppo dei principali interpreti, iniziamo a intuire il disegno: tutto è come dovrebbe essere, ma non lo è davvero. 

 

 

[In Resident Evil: Welcome to Raccoon City almeno non vediamo cose patetiche come questo cosplay di Jill Valentine messo in scena in Resident Evil: Apocalypse]


Raccoon City dovrebbe essere una cittadina statunitense qualunque che viene improvvisamente travolta da una serie di strani omicidi caratterizzati da gustosi atti di cannibalismo, bizzarri fenomeni di violenza tra le sue vie più oscure, episodi ospedalieri peculiari e un crescendo che porterà all’esplosione dell’infezione zombi.

 

In Resident Evil: Welcome to Raccoon City è invece una città nella quale gli abitanti sono cavie e dipendenti della Umbrella Corporation, costringendo molti di questi ad abbandonare le proprie case fino a trasformarla in una città quasi fantasma.

Lo stesso distretto di polizia sembra stia chiudendo, la Umbrella sta prendendo baracca e burattini per andare altrove e non è ben chiaro per quale motivo la storia dovrebbe ambientarsi in un luogo privo di ogni urgenza o pericolo percepibile per lo spettatore. 


Dov'è lo stramaledetto conflitto? 

 

Leon S. Kennedy dovrebbe essere un poliziotto alle prime armi. 

Coraggioso, ligio al dovere, leale e così giovane da non aver ancora sviluppato certe malizie ma costretto a fronteggiare un incubo orribile e doppiogiochisti di ogni sorta. 

Qui è un totale idiota.

 

Un imbecille protetto dal papi, personaggio influente del corpo di polizia, e spedito a Raccoon City (la città fantasma, proprio quella) come male minore dopo che, come un moderno ispettore Callaghan, ha sparato per sbaglio a un collega. 

Leon è stato raccontato come un perfetto idiota e non vi è nessun arco narrativo che lo possa redimere da tale destino: se mai doveste guardare il film fate bene attenzione a tutta la vicenda: cisterna, camionista e, infine, Leon. 

 

Una delle cose più inutilmente e involontariamente demenziali di sempre.  

 

Allo stesso modo Jill Valentine usa le armi da fuoco come Homer Simpson e premerebbe il grilletto anche solo per ordinare una birra.

 

Albert Wesker, IL villain di Resident Evil interpretato da Tom Hopper (che ricorderete per The Umbrella Academy) più che un oscuro Mastermind ricorda un ingenuotto del Kansas con la camicia a quadri, la matematica livello abaco e tutti zitti che si distrae a fare di conto.   

 

Potrei andare avanti ancora a lungo a descrivere tutti i problemi nel mettere in scena Resident Evil: Welcome to Raccoon City, nel design degli ambienti e nello sviluppo del world building che per qualche ragione non è solo insensato rispetto a quanto si vuole raccontare, ma anche rispetto alla IP stessa. 

 

 

[I personaggi una loro dignità perfetta, anche se uno di loro è stato completamente dimenticato come personaggio ed esiste come figurina da attaccare al vostro album delle citazioni fan service]

 

 

Raccoon City verrà distrutta all’alba   

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City diventa quindi uno strambo La città verrà distrutta all’alba di George A. Romero, tema che effettivamente esiste nella saga, ma senza l’adeguata costruzione della tensione, dell’urgenza e dell’orrore sociale e non che quella storia comporta.   

 

Che importa se Raccoon City viene bombardata per coprire l'espandersi del virus? 

Tanto è una stramaledetta città fantasma, gli abitanti sono avvelenati oltre il punto di non ritorno e i protagonisti di conseguenza fanno spallucce e, come moderni Attila, dove passano loro non cresce più l'erba: sia questa vita umana o vita intelligente dietro la stesura degli eventi. 

 

L’importante è spostarsi di citazione in citazione sperando che il fan medio sia così lobotomizzato da esclamare “mi ha intrattenuto!”  

 

Il film ha improvvisi cambi di tono che fanno pensare che il regista sia affetto da qualche sindrome bipolare e, tra una ricerca disperata del macabro e una voglia "vorrei ma non posso" di gotico, partono siparietti ridicoli accompagnati da una compilation Top of the Pops anni ‘90 con battutacce a effetto che non trovano un giusto flow all’interno della narrativa. 

Certe scene sono talmente incollate a casaccio nel contesto da avermi fatto pensare di essere stato vittima di un blackout mentale, ma un veloce controllo al minutaggio del film mi ha rassicurato riguardo il mio stato di salute.   

 

Gli eventi di Villa Spencer vengono macellati proprio nei punti cardine, tanto quanto quelli di Resident Evil 2 e di Raccoon City, e nel mettere tutto su un unico piano temporale si perde la costruzione di quel particolare umore orrorifico tipico del genere tanto quanto di Resident Evil. 

 

 

[Di Villa Spencer è riprodotto giusto un ambiente, in maniera parziale, il resto è completato con brutta CGI o è sempre al buio per ragioni totalmente aleatorie]

 


Roberts a mioo avviso sbaglia del tutto a riprodurre certe immagini iconiche del gioco e, in alcuni casi, dove non arriva il budget ci si mette di traverso la riproduzione criminale tramite CGI di ambienti importanti: la hall della stazione di polizia di Raccoon City dovrebbe avere un colpo d’occhio importante, ma sortisce l’effetto di due dita ricoperte di sale ficcate a tradimento negli occhi. 

 

Prendo proprio questa scena come esempio.

La stazione di polizia è un luogo decisamente strambo all’interno di Resident Evil 2: una location fatta di pavimenti di marmo, statue, soffitti altissimi, rifiniture di legno e pietra; uno stile architettonico ampolloso e a dir poco bizzarro per una centrale di polizia.    

Ovviamente esiste una spiegazione nella lore del gioco, ma l’effetto che dà entrare per la prima volta in quella centrale è splendidamente orchestrato grazie all’arte della costruzione e della gestione della tensione. 

 

Leon attraversa una città silenziosa deformata dal passaggio di quella che potrebbe sembrare una guerra civile, improvvisamente accesa dall’esplosione frutto dello schianto di un’autobotte di benzina guidata da un camionista preso dal panico e dalla febbre della mutazione zombi.   

 

L’esplosione attira l’orda, rivelando l’incubo nel quale è piombata la città e, dopo un primo momento di panico che spiazza il giocatore, si approda alla stazione.

Aperta la porta c’è l’opulenza della location, il riecheggiare dei passi, la tensione della musica spettrale a suggerirti un porto sicuro, ma da far accapponare la pelle.


La costruzione della scena, seppur pensata per intenti videoludici, è mossa dalle medesime logiche di ritmo necessarie a raccontare gli umori orrorifici.   

 

 

[L'ingresso della centrale nel titolo originale e nel remake]

 


In Resident Evil: Welcome to Raccoon City diamo per perse nella traduzione tali accortezze, perché il colpo d’occhio su questa hall in CGI, oltre a essere esteticamente un abominio, non dà in alcun modo elementi che atterriscano e rinchiudano lo spettatore in quell’ambiente, che era lo scopo seguito dal videogioco.

 

Anzi, la location è svilita da un siparietto comico mal riposto e servita tramite il solito sistema fan service con la pretesa che possa reggere sulle spalle l’assenza di un’adeguata scrittura, regia e messa in scena. 

In un film ben ideato, fatto solo di interni, un regista avrebbe virato su arie più carpenteriane.


Distretto 13 - Le brigate della morte in salsa Resident Evil poteva essere un'idea calzante, considerando anche come il film di John Carpenter abbia al suo interno una logica quasi zombesca.

Sarebbe divenuto tutto meravigliosamente gestibile anche a livello di budget e produzione.   


Altrettanto si potrebbe dire per la gestione di Villa Spencer. 

Eccetto per l’ingresso nella villa abbiamo una sequela di ambienti non illuminati, orde di zombi e azioni confuse. Il peccato vero sopraggiunge quando Roberts manda al suo pubblico l’ennesima dick pic e mette in scena la rivelazione del primo zombi di Resident Evil. 

 

Altra piccola anatomia di una scena: in Resident Evil dopo la cutscene iniziale (live action sopra le righe e tamarra come solo Capcom sa fare), il giocatore è introdotto al gigantesco salone d’ingresso di Villa Spencer. 

Silenzioso, imponente, gotico.

Materiale di molti miei incubi e reso ancora più pietrificante dalla remastered del titolo con fondali ricreati in alta definizione. 

 

Il gruppo si divide, come in ogni cliché da film horror, e noi esplorando i primi ambienti entriamo in una spettrale stanza sul cui pavimento giace un corpo preso da convulsioni.


Sopra di lui troneggia putrescente uno zombi, il cui primissimo piano a favore di inquadratura mette in luce il suo volto scarnificato e gli occhi rivolti verso il/la protagonista, ma anche al giocatore stesso. 

 

 

[Si è visto di meglio in The Walking Dead e, considerando quanti pochi zombi si vedono nel film, almeno quello inquadrato in dettaglio poteva ricevere più cura e sembrare meno di plastica]


Siamo nel reame della costruzione della scena a fini orrorifici, giostrando tensione e paura. 


Sono i primi minuti di gioco: quello è il primo contatto con uno zombi per i protagonisti e per il giocatore stesso.

La valenza della scena è doppia non solo per le ragioni citate poco sopra, ma anche per l’effetto che fece all’epoca vedere un orrore così definito sullo schermo di un PC o di una televisione.

Veicolarla nel modo più efficace possibile era necessario per vendere il concept alla base di Resident Evil e catturare il giocatore nella meccanica Survival Horror, accerchiandolo anche con le dinamiche narrative del genere di riferimento.    

 

In Resident Evil: Welcome to Raccoon City la citazione di questa scena arriva quasi a metà della storia e dopo aver visto una marea di zombi e mostri di altra natura.

La sequenza dunque non ha alcun valore perché scarica di tensione, oltre a dare la dimensione di quanto poco curato sia stato il lavoro sul make-up e sui VFX del film.

 

Siamo nel campo del fan service più sterile e vuoto della Storia del fan service.

 

L’aspettativa di ogni amante del Cinema di genere e di Resident Evil è di assistere a un film piccolo ma accorto nel ricreare le location, nell’impiego di effetti speciali, del trucco e nell’incedere degli eventi: sostanzialmente quando si parla di Resident Evil si ammicca a un B-movie gustoso, non alla riscoperta della ruota.     

 

Forse Resident Evil: Welcome to Raccoon City appare un titolo sprecato rispetto alle carte messe sul tavolo dalla produzione e più calzante per un secondo capitolo della saga, magari più vicino al recente remake di Resident Evil 2 e da sviluppare con un budget più ambizioso, dopo un primo capitolo più modesto ma più intelligente nella gestione dei mezzi e della narrativa.   

 

Resident Evil: The House by the Umbrella Corporation.


Poteva essere questo il primo capitolo della saga, con una citazione a Quella villa accanto al cimitero di Lucio Fulci nel titolo, ma con la voglia di sviluppare la lore dello S.T.A.R.S. Team, le morbose fissazioni degli Spencer e l’incubo del laboratorio sottostante. 

 

 

[Rimanete per la scena dopo i titoli di coda: non solo è totalmente senza senso qualora non conosciate la lore del videogame, ma è così maldestra nello spruzzare fan service da essere tragicomica]


Resident Evil: Welcome to Raccoon City  


Resident Evil: Welcome to Raccoon City è quindi secondo me l’ennesima occasione sprecata.

Ancora una volta Resident Evil non vive sulloo schermo e quanto viene consegnato ai fan della saga è un film irritante nel suo essere ruffiano.

 

Non è davvero un film di genere, non è davvero un B movie, non è davvero quel trash sopra le righe da mostro deformato nipponico e non sa se scherzare o se prendersi sul serio.   

 

Resident Evil: Welcome to Raccoon City rappresenta quella logica produttiva tipica di una certa industria che rincorre i brand convinti che i fan, paragonati a delle capre, ne apprezzeranno la trasposizione indipendentemente dal valore produttivo impiegato per realizzarla.   

 

Per essere chiari: il problema non è da riscontrare solo nella sua aderenza o meno al materiale originale ma, come detto in apertura e ribadito durante la recensione, nella mancanza di cura nel portare in vita il film, che è insufficiente non solo come adattamento ma come opera cinematografica a sé stante. 

A mio avviso il film pecca in scrittura dei personaggi e del canovaccio tutto, nella messa in scena degli stilemi orrorifici caratteristici del filone - considerando anche possibili licenze artistiche - nella regia e nell'impiego di VFX.

 

Sarebbe forse il caso di spendere più nel mestiere investendo su cineasti e addetti ai lavori capaci e dedicati.

 

Perché se una volta finito il film il pubblico può fare spallucce, sono gli addetti ai lavori a perdere l’investimento, la faccia, l’orgoglio e nel peggiore dei casi anche il lavoro.

 

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