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Il doppiaggio è un male necessario - Intervista alla dialoghista di Allen e Scorsese: Elettra Caporello

Una lunga intervista a Elettra Caporello, adattatrice dialoghista di Allen e Scorsese

Non tutti lo sanno, ma dietro al doppiaggio italiano di un prodotto audiovisivo estero non esiste solo un lavoro di mera traduzione, bensì l’impegno creativo di una professione specifica: l’adattatore dialoghista

 

Questa attività consiste nella trasposizione linguistica e culturale dei contenuti del copione e nell’adattamento dei dialoghi in termini di sincronizzazione labiale ed espressiva degli interpreti. 

 

Per questo ruolo, però, le insidie sono molte: rendere nella nostra lingua il gergo, il turpiloquio, i giochi di parole e l’umorismo stranieri non è per niente facile. 

 

 

[A partire dal 1995 Elettra Caporello ha adattato in italiano tutti i film di Woody Allen, mentre dal 2002 tutti quelli di Martin Scorsese]

 

Elettra Caporello è da quasi quarant’anni una vera veterana di questo settore, dialoghista fissa e ufficiale niente di meno che di Woody Allen e Martin Scorsese e adattatrice dall’inglese di molte opere cinematografiche che abbiamo visto e rivisto chissà quante volte. 

 

Se sappiamo recitare a memoria intere battute di questi film, sappiate che sono parole sue. 

_________

 

Jacopo Troise

Iniziamo con la più canonica delle domande: come si è avvicinata al mondo del doppiaggio e al ruolo da dialoghista in particolare?

 

Elettra Caporello

In Italia ho sempre e solo lavorato nel Cinema, più precisamente negli uffici stampa.

Successivamente andai a vivere a New York per dieci anni e quando rientrai uno dei vecchi amici che avevo conosciuto nel settore cinematografico mi propose di scrivere dialoghi, mi spiegò di cosa si trattasse e cominciai.

Mi piacque subito, ma all’inizio mi pagavano pochissimo, facendomi lavorare su delle opere datate senza copione originale e per le quali quindi dovevo fare la ripresa, la traduzione e l'adattamento.

Presi dimestichezza e passai ai cartoni animati e i telefilm, fino ad arrivare all’idea di quanto sarebbe stato bello scrivere dialoghi per il Cinema. 

 

Più di trent’anni fa lei è stata la prima donna in Italia ad adattare i dialoghi per il Cinema quando il settore era dominato dagli uomini.

Come andò esattamente? Fu ostacolata in qualche modo?

 

Feci una telefonata alla Titanus [storica casa cinematografica italiana, ndr] dicendo che mi chiamavo Elettra Caporello, che scrivevo dialoghi per la televisione e che avrei voluto farlo per il Cinema.

La risposta fu: "Signora, i film li fanno gli uomini”.

Siccome sono una battutara, risposi: "Scusi, ma con quale parte del corpo gli uomini scrivono i dialoghi?".

Sembra il Medioevo, ma in realtà era solo il 1985.

 

Alla fine accettarono perché capirono che non mi sarei mai arresa tanto facilmente.

Infatti, ai ragazzi che vogliono fare il mio lavoro dico sempre che ovviamente la base è saper scrivere - e anche saper scrivere dialoghi, perché è diverso da scrivere una sceneggiatura - però bisogna avere anche la faccia tosta, l'intraprendenza.

E anche un po' di fortuna, ma te la devi comunque andare a cercare.

 

Ad ogni modo, non mi sono nemmeno resa conto di essere stata un'apripista perché questa è una professione che si svolge in totale solitudine, non esiste nessun tipo di confronto con i colleghi.

Sì, cercarono di ostacolarmi, ma per fortuna avevo già quarant’anni e riuscii a farmi scivolare tutto sopra.

 

Sicuramente mi hanno parlato alle spalle e provato a fare sgambetti, ma ho un cattivo carattere: se me ne fossi accorta avrei risposto a tono.

 

 

[La dea dell'amore, l'inizio del sodalizio professionale tra Elettra Caporello e Woody Allen]


Quali sono le maggiori difficoltà inerenti al lavoro che richiede questo ruolo?

 

Siccome si parte dal principio che bisogna saper scrivere, la parte difficile è rendere in italiano quello che il regista intende veramente.

Io normalmente ho abbastanza libertà, non devo seguire alla lettera: posso spaziare.

Per esempio con Woody Allen, che è sicuramente il più complicato di tutti da adattare, l'importante è riuscire a tradurne lo spirito.

La lettera non la puoi tradurre, perché se ti faccio vedere una traduzione letterale di quello che ha scritto Allen non solo non ridi, ma pensi pure che io sia matta.

 

In ogni caso, avendo vissuto dieci anni a Manhattan, per me non è un fatto solo di lingua e traduzione, ma soprattutto di forma mentis.

Infatti, dico sempre - è una battuta ma non del tutto - che l’inglese da Jewish Manhattanite di Woody Allen lo traduco direttamente in romanesco: viene perfetto. 

Il problema è poi risalire dal romanesco all'italiano! 

 

Lei da quasi trent’anni ha adattato tutti i film di Woody Allen e dai primi anni 2000 quelli di Martin Scorsese: come iniziò tutto?

Quando la collaborazione è così duratura è per volontà diretta del regista?

Se sì, il regista ha mai seguito e/o influenzato il suo lavoro?

 

Nel caso di Scorsese la collaborazione me la sono andata a cercare io, perché il film [Gangs of New York, ndr] era stato girato qui a Roma, dove lui soggiornò per circa sei mesi.

Tutti i dialoghisti italiani ovviamente volevano lavorare con lui e, visto che non avevo mai collaborato con la casa di distribuzione 20th Century Fox e quindi non mi avrebbero mai chiamata, mi procurai l’indirizzo mail personale del regista.

 

Così gli scrissi: "Guardi, io vorrei fare il suo film come tutti quelli del mio settore. Le allego il mio curriculum per farle capire che non sono una pazza scatenata, mi perdoni per la chutzpah", che è una parola hiddish usata molto da Woody Allen che in definitiva significa "faccia tosta".

Lui mi rispose dopo pochi giorni dicendomi: "Si ricordi che 'the chutzpah' paga sempre!".

E poi mandò un messaggio alla Fox dicendo che la sua dialoghista di fiducia per la versione italiana sarei stata io.

E lo continua a fare! Da Gangs of New York in poi li ho adattati tutti io.

 

Qualcuno ci ha provato a suggerirgli altri dialoghisti, ma lui una volta disse - me lo raccontarono proprio quelli della produzione - "Va bene, certo, il film in Italia è vostro, però prima di iniziare il doppiaggio mi dovete inviare i dialoghi perché li devo leggere: se mi vanno bene cominciate, altrimenti non se ne parla.

Perché io la signora Caporello la conosco [non mi ha mai visto, eh!], gli altri no." 

 

Con Woody Allen invece fu diverso.

 

Le versioni italiane, francesi, tedesche e spagnole delle sue pellicole sono curate da un supervisor con il quale avevo già lavorato un paio di volte, una tra queste su Brian di Nazareth dei Monty Python (che pure non scherzava in quanto a difficoltà!).

Visto che Allen andava spesso alla Mostra di Venezia, questa persona mi chiedeva ogni volta se potessi fare i sottotitoli, e io puntualmente domandavo se potessi scrivere anche i dialoghi.

Lui mi rispondeva che il dialoghista c’era già, ma non sapeva fare i sottotitoli, ma io replicavo che non era un problema mio.

Andammo avanti per quattro anni con questa storia finché al quinto anno accettò: mi fecero fare La dea dell'amore.

 

Siccome rido sempre tanto con i suoi film, sento la responsabilità di far ridere anche il pubblico italiano.

Sono molto rispettosa del regista, perché il film è una sua creazione e cerco sempre in ogni modo di conservarne lo spirito, però è una fatica... soprattutto con Woody Allen!

 

Poco fa ho sentito che ha un progetto in corso, ma pare non sia ancora partito anche se la sceneggiatura è pronta e lui scalpiti: si tratterebbe di un'opera à la Match Point, ma ambientata a Parigi. 

 

 

[Con Gangs of New York Elettra Caporello è diventata la dialoghista ufficiale di Martin Scorsese]

 

 

A proposito, non ho mai avuto contatti con Allen, ma per To Rome with Love assieme al copione mi lasciò un messaggio chiedendomi di controllare anche eventuali errori nell'uso e costumi italiani.

 

Se ti ricordi, in una scena il personaggio interpretato da Roberto Benigni viene intervistato nello studio del TG3.

Alla domanda "Che cosa ha mangiato a colazione?" nella versione originale avrebbe dovuto rispondere "Spremuta d'arancia e due uova con il bacon", ma io decisi di intervenire.

Mi permisi quindi di cancellare questa risposta dal copione e, da buona italiana, aggiunsi invece "Un caffellatte e due fette di pane con burro e marmellata".

Gliela mandai e Allen mi scrisse "Are you sure?" e io risposi "Yes, I am positive!" ["Sei sicura?"; "Sì, ne sono certa!", ndr]

 

Su questo non si discute!

 

Invece, ho sentito che la produzione dell'ultimo film di Scorsese è già partita, pare che abbiano finito di girare in Oklahoma e siano arrivati da poco a New York.

Proprio l'altro giorno ho parlato con Thelma Schoonmaker [fedele montatrice di Martin Scorsese da più di quarant’anni, ndr] che mi ha detto testuali parole:

 

"Qui lo dico e qui lo nego, però sai che ti puoi fidare: dopo aver visto tutto il girato finora da Martin posso affermare che sarà un film epico".

 

Purtroppo, sembra che però sarà pronto solo alla fine dell'estate del 2022.

 

Tra l’altro lei, oltre a essere la fine e pluripremiata artista che conosciamo, è un personaggio fantastico: è stata sposata con il regista Michael Powell [mentore e Maestro di Scorsese, ndr] ed è una vera e propria vestale del suo lavoro.

Quest'anno infatti mi ha chiesto di scrivere i sottotitoli per un film del marito del 1963, Herzog Blaubarts Burg, che veniva presentato nella sezione Venezia Classici alla Mostra di Venezia e tre anni fa feci lo stesso con un'altra sua bellissima opera, I racconti di Hoffmann

 

Esistono delle incomprensioni tra i dialoghisti e i direttori del doppiaggio?

Quanto fedelmente viene rispettata l’opera di traduzione e adattamento da parte di questi ultimi?

 

Dovrebbe essere sempre rispettata, ma in realtà spesso non è così.

Una volta esistevano più rapporti tra questi due ruoli, ora quasi niente.

 

Devi sapere che a partire dal 1998 gli adattatori dialoghisti iniziarono a ricevere i diritti d'autore e quindi praticamente tutti - del settore e non - si cimentarono nella scrittura dei dialoghi.

Prima di allora a un direttore del doppiaggio non sarebbe passato nemmeno per l'anticamera del cervello di mettersi a scrivere dialoghi, mentre adesso è la normalità.

A me, per esempio, è stato offerto molte volte di dirigere il doppiaggio, ma ho sempre rifiutato perché semplicemente non è la mia professione, oltre al fatto che il ruolo da dialoghista mi lascia una flessibilità per lavorare molto maggiore in termini di tempo.

 

Nel corso della mia carriera ci sono stati alcuni scontri con dei direttori del doppiaggio e con queste persone ho deciso di non collaborare più, perché so che poi in sala si sarebbero arrogati il diritto di cambiare ciò che avevo scritto.

Invece, siccome la firma alla fine è la mia, il minimo che vorrei è che mi si telefonasse e si discutesse assieme su cosa modificare nel caso in cui il doppiatore avesse dei problemi con il mio testo, al posto di prendere iniziative poco rispettose nei confronti del mio lavoro.

Temo che questo in realtà succeda molto spesso ed è perciò che non vado mai a vedere un mio film doppiato: so già che ci rimarrei malissimo. 

 

Tra l’altro per fortuna su tutti i film di Scorsese collaboro con lo stesso direttore del doppiaggio che, oltre a essere anche un attore, secondo me è l'unico che non ha velleità di mettersi a scrivere dialoghi: Rodolfo Bianchi.

Con lui ci capiamo subito e di conseguenza lavoriamo anche bene assieme.  

 

A tal proposito mi ricordo che appena iniziai mi fecero il classico scherzo riservato ai novellini: il direttore mi chiamò dalla sala di doppiaggio e mi disse che aveva trovato una scena di sesso in cui avevo scritto come commento "versi e fiati", chiedendomi di spiegare meglio cosa intendessi.

 

Io gli risposi "Ma lei l'ha vista la scena, vero? Mi sembra abbastanza esplicativa" e lui "Sì, lo so, però lei ha scritto ‘versi e fiati’: la realtà è che ognuno li fa a modo suo. Quindi, visto che la firma a fine lavoro è sua, mi deve dire lei come lo devo fare".

 

Allora io mi misi a fare i fiati e versi, ma questo disgraziato aveva lasciato il microfono acceso e tutta la sala mi sentì!

Lo avrei ammazzato!

 

 

[Ovviamente la carriera di Elettra Caporello comprende anche altre produzioni importanti, tra queste Il socio di Sydney Pollack]

 

In Italia il rapporto con il doppiaggio suscita reazioni contrastanti: da un punto di vista interpretativo lo consideriamo ancora tra i migliori al mondo, ma da un punto di vista linguistico viene fortemente vituperato a causa di uno dei suoi prodotti, il “doppiaggese”.

Come mai, secondo lei? 

 

Io dico sempre che il doppiaggio è comunque necessario e indispensabile, perché conoscere la lingua della versione originale di un prodotto non è sufficiente a capire pienamente ciò che si sta vedendo.

In un film spesso i dialoghi dei personaggi si sovrappongono, ci sono frasi idiomatiche, effetti sonori, rumori di fondo, musiche: sfido chiunque che non sia bilingue a capire ogni singola parola pronunciata.

 

Ho vissuto due anni a Londra e dieci a New York e sono convinta di conoscere bene l'inglese, ma se mi arriva un film - soprattutto uno come quelli di Woody Allen - senza il copione e lo voglio vedere subito, posso assicurare che il 25% lo perdo.

Un conto è leggere il giornale o un libro, un altro è capire il parlato di una pellicola.

Dunque, sarà anche un male, ma secondo me è un male più che necessario.

Anche perché i sottotitoli rovinano la costruzione dell'immagine e quindi dell'inquadratura, come diceva Pier Paolo Pasolini

 

Il doppiaggese invece è stata una deriva dovuta al fatto che improvvisamente tutti volevano fare questo mestiere: pensa che nel 1983, poco prima che iniziassi io, erano solo cinque le persone in attività che ricoprivano il mio ruolo.

Con l'arrivo della TV commerciale gli addetti ai lavori si ritrovarono con migliaia di ore all'anno da doppiare, scatenando una vera e propria corsa all'oro, ma i veri professionisti erano pochi.

 

Perciò è stata quella la causa: la velocità richiesta per avere il lavoro pronto nel minor tempo possibile.

Prima che questa deriva prendesse il sopravvento gli adattatori avevano molto tempo a disposizione: mi ricordo sempre che una volta Roberto de Leonardis [dialoghista ufficiale della Walt Disney Productions fino agli anni ’80, ndr] mi disse che per tradurre e adattare Mary Poppins la Disney gli diede sei mesi di tempo, quando al giorno d'oggi è già molto se lasciano sei giorni per un film.

 

La sua carriera passa anche brevemente per l’animazione con I Simpson per la TV e con i Classici Disney come Aladdin per il Cinema.

In questi casi il coefficiente di difficoltà aumenta o diminuisce?  

 

Se si tratta di battute, le difficoltà sono le stesse.

L'unico problema è il senso dei labiali, ma con lo sviluppo delle tecnologie di animazione anche questo scoglio è stato superato.

In realtà, de I Simpson adattai solo quattro episodi perché all'epoca venivano pagati come cartoni animati quando non lo erano affatto: ci volevano una preparazione e una conoscenza della cultura popolare americana molto elevate.

 

Per quanto riguarda Aladdin, mi ricordo che mi chiamarono per propormi di adattarlo quando ero in vacanza a New York e, visto che lì in America era uscito da poco, risposi che lo sarei andata a vedere per farmi un'idea e poi decidere.

Ritelefonai e dissi, ridendo, "Lo adatto solo se riuscite a convincere Gigi Proietti a fare il genio, è l’unico che ci può riuscire..." e poi quando tornai a Roma mi riferirono che lui aveva accettato!

 

Infatti è stata la prima volta che andai in sala di doppiaggio al primo turno, proprio perché volevo conoscerlo e vederlo all'opera.

Mi ricordo che dopo le presentazioni lui venne e da me e mi disse "Ti volevo chiedere una cosa: se quando sto doppiando mi viene una parola o una frase che non hai scritto tu... ti offendi se la aggiungo?" e io ovviamente "Ma no! Mettici quello che ti pare! Ma che sei pazzo?".

 

E appunto venne un doppiaggio meraviglioso.

Nonostante il fatto che l'adattamento non fu per niente facile, perché in originale Robin Williams andava come un treno.

Williams era già stato il mio incubo in altre due pellicole che avevo adattato con lui come protagonista: L'attimo fuggente e Good Morning, Vietnam.

 

Riguardo a quest'ultimo mi ricordo che mi chiamò una direttrice del doppiaggio e mi disse "So che sei alle prime armi ma vorresti iniziare a lavorare per le grandi case di produzione americane, ti propongo quindi una sfida difficile. C'è un film della Warner di cui io ho rifiutato già due volte i dialoghi perché non erano all'altezza. Te la sentiresti?" e io ingenuamente pensai che non avessi nulla da perdere.

Chiamai il numero della Warner Bros. e la responsabile mi chiese quanto volessi come retribuzione.

Io le risposi che andava bene quello che era previsto in budget, ma lei replicò che già metà del budget per la voce doppiaggio se l'erano bruciato, visto che avevano già pagato i dialoghi rifiutati!

 

Così a me venne un'idea: proposi di non essere retribuita, ma di essere ricordata per lavori futuri con la casa americana.

Lei verificò con il direttore generale se questo fosse possibile e poi accettarono i miei dialoghi.

 

Questa mossa mi ripagò, perché poi la Warner Bros. mi richiamò l'anno successivo per adattare il documentario Imagine: John Lennon, a partire dal quale nacque un lungo sodalizio tra me e loro. 

 

 

[Anche Crash di David Cronenberg, premio della giuria al Festival di Cannes del 1996, è stato adattato dalla dialoghista romana]


Quanto è difficile nelle commedie trovare una soluzione lessicale in italiano di un registro comico straniero senza stravolgerlo?

Ricordiamo ai lettori che, per esempio, fu lei a adattare la celeberrima battuta “I’ll have what she’s having” (“Quello che ha preso la signorina”) di Harry, ti presento Sally...

 

Questo è il punto dei dialoghi - specialmente delle commedie - perché ciò che fa ridere gli americani o i francesi non fa ridere noi e viceversa.

Dunque bisogna riuscire ad arrivare a mantenere più o meno il significato e lo spirito comico originali, però adattandoli con dei modi di dire nostri: la famosa battuta di Harry, ti presento Sally... ne è stato il paradigma.

 

Uno dei problemi maggiori da me riscontrati in quella pellicola era che i due protagonisti all'inizio giocavano a dei quiz scrivendo sulla lavagna, quindi dovevo tradurre e adattare tenendo conto che le parole originali si sarebbero viste e che qualche spettatore che conosceva l’inglese ci sarebbe stato.

 

Tra l'altro l'ho rivisto di recente e penso che alla fine i dialoghi siano riusciti bene perché reggono ancora dopo trent'anni, ma ovviamente anche perché il film in sé non è invecchiato.

 

Ha mai avuto conflitti creativi con qualche dialogo in particolare?

Se sì, come sono stati appianati?

 

Con Woody Allen questo succede ogni tre righe.

Per me è proprio il più complicato da adattare, anche se ormai lo faccio da 26 anni e quindi possiamo dire che siamo praticamente parenti!

 

Invece con Scorsese, che comunque traduco da almeno 19 anni, il discorso è un altro.

I suoi film da tradurre sono molto complessi, ma non linguisticamente: da quel punto di vista il problema è il fuck, visto che ce ne saranno 6-700 in ogni suo film!

 

Scorsese gradirebbe che non venissero tagliati, ma è molto difficile perché in italiano la sua traduzione non la utilizziamo così spesso come loro usano la parola originale.  

 

 

[L'adattamento italiano dello splendido Ubriaco d'amore di Paul Thomas Anderson è opera di Elettra Caporello]


Ecco, visto che siamo entrati nel tema passiamo a una domanda molto inflazionata ma comunque interessante: come si può adattare al meglio il turpiloquio?

 

Io detesto tradurre fuck con "merda", perché noi in italiano non lo utilizziamo in quel senso, è più tipico del francese.

La versione perfetta di fuck you è "vaffanculo” anche perché si sposa con i labiali, però sia in campo che fuori campo traduco il fuck con "cazzo".

 

Quello che non è propriamente turpiloquio, ma è comunque spesso una tragedia da adattare, sono i jesus christ tanto usati dagli americani, e dunque per me il loro christ diventa sempre "cazzo".

 

Quindi alla fine i "cazzi" aumentano sempre!

In The Irishman ce n'erano 285, li ho contati.

Ma se non ricordo male in The Wolf of Wall Street ce n'erano quasi il doppio!

E pensa quanti ne ho tolti in italiano!

 

A proposito dell’adattamento di The Irishman, mi viene in mente un aneddoto molto calzante con la domanda.

Come forse ricorderai, in una scena il personaggio interpretato da Robert De Niro si sceglie la bara e poi al cimitero decide in quale fornetto metterla.

 

Il responsabile di Netflix per le versioni internazionali - un italoamericano, se ricordo bene - mi chiamò da Los Angeles e mi disse: "Ovviamente ‘fornetto’ è un diminutivo di forno, quindi è chiaro che ha a che fare con la cremazione.

Lei, dunque, non può fargli dire ‘voglio quel fornetto là', ma gli deve far dire 'voglio andare dentro quel muro’”.

Al ché io risposi: "Guardi che in italiano non diciamo così, se lei vuole contro quel muro ci può andare... contro, ma non dentro!".

 

Poi aggiunse "Signora, un'altra cosa: lei nei sottotitoli ha usato poche volte 'cazzo'" e io "Le spiego, in italiano non utilizziamo di frequente questa parola come gli anglofoni".

Lui però mi interruppe subito dicendo che a Netflix non esisteva la censura e io cercai di spiegargli che era più una questione di verosimiglianza lessicale oltre che di buon gusto.

 

Successivamente però mi accusò di avere usato la parola "frocio" nella scena in cui il personaggio di De Niro dà istruzioni per cercare la persona che avrebbe poi guidato un camion verso la Florida.

Quindi io stupita gli chiesi "Ma non avevate detto che a Netflix non conoscevate la censura?" e lui "Sì, ma forse è meglio usare 'gay' o al massimo 'omosessuale".

 

A quel punto io risposi che negli anni ‘50 - l’epoca in cui era ambientato il dialogo - la prima parola significava altro e che la seconda ovviamente non era in tono né con la scena né con il nostro parlato colloquiale.

Non c'era modo di convincerlo, finché gli chiesi "Ma scusi, la parola 'finocchio' la disturba di meno?" e lui "Molto di meno!".

 

Così allora fu trovato il compromesso.

 

 

[Tra molti altri suoi lavori si annovera anche Da morire, con la regia di Gus Van Sant]


Quanto è cambiato il mondo dei dialoghisti ad oggi?

E cosa invece dovrebbe cambiare per migliorare?

 

Come dicevo prima, questo mondo è cambiato molto a causa della corsa all'oro in cui tutti vollero mettersi ad adattare dialoghi, portando quindi il livello della qualità del lavoro ad abbassarsi notevolmente.

Io però dico sempre come battuta che a scuola non tutti eravamo bravi in italiano: qualcuno sapeva fare i temi e qualcuno i problemi.

Secondo i dialoghisti della vecchia scuola la deriva è iniziata invece con l'arrivo della TV commerciale.

 

A mio avviso bisognerebbe tornare a quello che era un tempo, cioè a ciascuno il proprio lavoro.

Se tu fai parte del settore ma hai da sempre svolto un altro ruolo, magari anche più tecnico, non ti puoi inventare come dialoghista solo perché pensi che sia facile e retribuito a lungo termine attraverso i diritti d'autore.

 

A onor del vero è successa la stessa cosa anche con il doppiaggio: molti si sono improvvisati solo perché pensavano di avere una bella voce.

Però ecco, da quel punto di vista ci si accorgeva subito se qualcuno non era adatto.

Come dici tu, per gli adattamenti il riscontro non è immediato: e chi se ne accorge?

Infatti, una classica risposta che si sente e predice un lavoro approssimativo è "Poi in sala doppiaggio sistemiamo..."

 

Quali requisiti dovrebbe avere chi aspira a lavorare in questo campo?

Che lei sappia, ci sono studi e/o istituti predisposti a questa formazione?

 

Veniamo tutti da esperienze sia di studio sia di lavoro molto diverse, non c’è un'unica preparazione previa.

Infatti, anche se esistono i corsi di doppiaggio, non sono mai esistiti - che io sappia - corsi di adattamento dei dialoghi. La base è sempre stata saper scrivere. 

Un altro elemento fondamentale per questo lavoro è l'intraprendenza, la faccia tosta: se sai di essere bravo, devi essere convincente a spiegarlo agli altri.

 

Ecco, la famosa chutzpah di cui parlavo prima nella mia mail a Martin Scorsese.

 

 

[La trasposizione cinematografica del romanzo Dune da parte di David Lynch è stata adattata in italiano da Alberto Piferi con la traduzione proprio della Caporello]

 

In molti paesi europei è presente una distribuzione cinematografica sistematica unicamente sottotitolata che prescinde dal doppiaggio.

A suo parere in Italia sarebbe possibile?

 

In Italia le sale che proiettano gli spettacoli in versione originale non sono molte, ma non credo che questa tendenza andrà a estendersi.

 

Di solito la maggior parte della gente pensa erroneamente che in Europa noi siamo tra i pochi paesi a doppiare, ma invece ovviamente ce ne sono tanti altri: me ne accorgo con i film di Woody Allen perché la versione di adattamento la si fa tutti allo stesso momento con altri 5 o 6 paesi europei.

In Italia, nonostante si affermi che le nuove generazioni ormai mastichino le lingue straniere in maniera sufficiente da fruire i prodotti solo in versione originale, penso che questo tipo di distribuzione sistematica non sarebbe possibile.

 

O almeno così sarà per parecchio tempo. 

 

Concludiamo con una domanda spinosa.

Per fruire al meglio del cosiddetto “testo filmico” l’ideale sarebbe davvero l’utilizzo di sottotitoli o un buon adattamento per il doppiaggio può fare comunque la differenza?

 

Io ovviamente sono sempre per l'adattamento, ma solo se prodotto in modo decente.

Questo perché secondo me i sottotitoli in qualche modo sviano, distraggono: non c'è nulla da fare.

Ti posso assicurare che per le commedie sofisticate, come per esempio quelle di Allen o di Rob Reiner, esprimere al meglio la loro comicità in una sola linea composta da 22 battute compresi gli spazi è molto limitante.

 

Tuttavia, se non capisci pienamente le battute e i dialoghi, per quanto possano essere affascinanti i suoni e le voci delle versioni originali, come lo segui un film?

Il punto è che bisogna scrivere bene i dialoghi e su quello sono molto esigente.

Come dicevo prima, il doppiaggio è un male necessario e ringraziamo Dio che esista.

 

Quindi, viva il doppiaggio!

_______________

 

Ringraziamo Elettra Caporello per la bellissima intervista che ci ha rilasciato.

Non vediamo l'ora di assistere al suo prossimo lavoro!

 

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