Il decennio tra il 2000 e il 2009 è stato un decennio particolare per il genere horror: nell'era post-11 settembre, gli Stati Uniti sono stati colpiti da un generale senso di terrore nei confronti di un nemico invisibile, con tutta l'ansia e l'angoscia che la cosa può portare, e ovviamente il sentimento si è riversato nel Cinema.
L'esplosione di Internet e delle tecnologie digitali hanno fatto nascere un nuovo linguaggio e un'immediata condivisione dei contenuti, esattamente come la tragedia delle Torri Gemelle in diretta mondiale.
L'accesso più semplice e il crollo dei costi di produzione per la creazione di corti e lungometraggi ha visto quindi un'impennata dell'offerta come mai si era visto prima, grazie ai personal computer che permettevano di montare quanto girato con le nuove camere - e fotocamere - digitali, che giravano a colori e permettevano automatismi impossibili fino a poco tempo prima.
Il boom di Paranormal Activity è il paradigma di tutto ciò: al di là dei meriti o demeriti artistici, il film dal budget ridicolo è esploso e ha incassato milioni ovunque, con una potenza rivoluzionaria antisistema raramente vista nei decenni precedenti.
Ma che è poi rimasto vittima egli stesso del sistema che voleva distruggere, dando vita a innumerevoli sequel ed epigoni poco riusciti e con un tedioso effetto fotocopia che ha presto stancato il pubblico.
Hollywood ha quindi iniziato a saccheggiare le cinematografie estere, producendo remake su remake di film horror orientali (The Ring, The Grudge, The Eye), di film horror europei (Martyrs, Lasciami Entrare) fino ad arrivare a rifare se stessa (Carrie, Non Aprite quella Porta, La Casa).
Il pubblico si è quindi abituato a un'offerta stantia e ripetitiva: l'horror è divenuto un prodotto da consumare velocemente, costruito su schemi sempre troppo uguali che pensano più allo spavento che al terrore.
Spaventare il pubblico è diventato facile: basta uno stacco di montaggio improvviso con un innalzamento del volume della colonna sonora e un effetto audio ad hoc per far saltare gli spettatori sulla poltroncina.
Ma è uno spavento che inizia e termina in quel momento e che assomiglia più allo spavento del Luna Park che all'orrore cinematografico.
Ecco perché nel decennio successivo qualcosa ha iniziato a muoversi.
L'horror sta vivendo ultimamente una sorta di New Wave, un nuovo modo di proporre storie spaventose che non dimenticano mai l'aspetto sociopolitico che da sempre è legato al genere e che scelgono di distinguersi nel soggetto, nella messa in scena e nel messaggio.
E al contempo, grazie a film come IT, il suo sequel e Scappa - Get Out, l'horror è tornato a incassare tantissimo in giro per il mondo.
Fatto il calcolo dell'inflazione, i tre film citati si trovano oggi rispettivamente al 6°, al 21° e al 25° posto nei 25 film horror più redditizi di sempre: gli unici in classifica dai tempi del 2002 e di quel già nominato The Ring, che si trova oggi al 19° posto.
L'horror sta quindi tornando protagonista, a Hollywood nomi come Robert Eggers, Jordan PeeleeAri Aster su tutti stanno rinfrescando il genere e anche in giro per il mondo, dall'Estremo Oriente all'Italia, dal Sud America all'Australia, il terrore nel cinema non è più dato da una minaccia esterna e da un nemico tangibile, quanto da ciò che è insito in ognuno di noi, qualcosa che scava dentro le nostre sensazioni.
Felici di questa wave che riporta il genere agli antichi fasti, o almeno ci prova con tutta la forza possibile, ogni redattore di CineFacts.it ha scelto tre film horror usciti in Italia tra il 2010 e il 2019, per decretare quali siano quelli che secondo noi sono i più meritevoli del decennio.
Secondo voi quali sono?
Siete d'accordo con questa classifica?
1 di 8
Posizione 8
Ex aequo
Kill List, di Ben Wheatley, 2011 Malevolent - La Voce del Male, di Olaf de Fleur Johannesson, 2018 Train to Busan, di Yeon Sang-ho, 2016
e Noi
di Jordan Peele, 2018:
Sono molte le opere con temporanee in cui, più o meno velatamente, si pone l’accento sulle discriminazioni del neocapitalismo nel l’America trumpiana e le condizioni di disagio degli ultimi. Un’esigenza narrativa che si manifesta anche in opere ai limiti del fantasy o del satirico.
Merita menzione, a questo proposito, il recentissimo e straordinario Noi, secondo lungometraggio diretto dal giovaneJordan Peele.
Se con la sua opera d’esordio, Scappa - Get Out, il regista ed ex comico americano poneva come bersaglio il nucleo borghese di stampo liberale, con Noi il messaggio sociale si fa ancora più esplicito e la denuncia più efficace.
La disavventura dei coniugi Wilson e dei loro figli, che vengono in contatto con quattro misteriosi individui, loro rispettivi doppelgänger, costituisce solo la cornice di una storia di più ampio respiro e di un mosaico vastissimo, che si mostra lentamente con lo scorrere dei minuti.
Chi si è presentato in sala convinto di vedere un prevedibile film in stile Home Invasion sarà rimasto deluso, o quantomeno disorientato.
Dietro la confezione horror si cela infatti un’opera così tanto ambiziosa da non poter essere ricondotta con facilità a un unico genere – è infatti un po’ satirico, un po’ thriller, un po’dramma psicologico – che nasconde una riflessione universale su disuguaglianze sociale, razzismo e paura del diverso, temi che vengono affrontati da Peele in maniera sottile e metaforica.
La divisione tra “quelli di sopra”, gli umani, e “quelli di sotto”, le copie, costrette a vivere al buio, nelle profondità di fogne, miniere o vecchie linee metropolitane abbandonate, riflette i tempi correnti, soprattutto americani, ed è metafora della distanza sempre più cospicua tra gli emarginati, sempre più soli, e i privilegiati, che ignorano quanto siano fortunati a godere della libertà e della ricchezza che la posizione sociale offre loro.
Non è un caso che la rivoluzione degli incatenati – così vengono definiti in un dialogo – per raggiungere i piani alti (della società), venga guidata proprio dall’unica persona che sa bene cosa voglia dire vivere in libertà, guardando il cielo.
Negli ultimi anni, il cinema horror ha saputo rinnovarsi, dando vita a titoli di grande successo (sia di pubblico, che di critica), opere mature e profonde, in certi casi anche metaforiche, non più limitate ad adolescenti in cerca di emozioni forti, ma a tutti, perché specchio in molti casi della società odierna.
Film diretti da giovani cineasti, che hanno dunque contribuito a nobilitare un genere che era caduto ormai nel gigantesco calderone dei b-movie.
Nell’ambito di questo rinnovamento, Jordan Peele è certamente uno dei nomi di punta.
[a cura di Pierluca Parise]
Posizione 7
Ex aequo
Hereditary, di Ari Aster - 2018
A Quiet Place, di John Krasinski - 2018
The Conjuring, di James Wan - 2013
Quella Casa Nel Bosco, di Drew Goddard - 2011
e Goksung - La Presenza del Diavolo, di Na Hong-jin - 2016:
Nel villaggio coreano di Goksung inizia una serie di omicidi molto violenti. Subito la popolazione inizia a pensare che possano essere stati commessi tutti dalla stessa persona e la caccia alle streghe porta immediatamente al giapponese da poco arrivato in paese: lui si atteggia a sciamano e tutti sono convinti che abbia realmente dei poteri sovrannaturali e maligni.
Nel frattempo la polizia - che non può credere alla pista magica - indaga cercando una soluzione logica e le indagini sono affidate a Jong-Goo.
Agli omicidi si aggiungono epidemie e possessioni in una sorta di nuove piaghe d'Egitto, e il giovane poliziotto dovrà ricredersi sulla non esistenza di un'entità maligna per provare a salvare la propria figlia contagiata.
Dal regista di The Chaser e The Yellow SeaHong-Jin Na, Goksung è stato presentato fuori concorso a Cannes oltre ad aver spopolato ai Blue Dragon Awards e agli Asian Film Awards; in Italia è stato presentato al Torino Film Festival nel 2016 per poi raggiungere la sala e la distribuzione home video nell'anno successivo.
Goksung è un film che sadicamente gioca con lo spettatore gettandolo da un genere all'altro, da una teoria sul colpevole all'altra: si passa dal noir all'horror più puro, dal thriller al poliziesco, attraversando delle gag quasi da commedia; ora si è certi che sia colpa del giapponese, ora di un fungo, ora si incolpa lo sciamano, ora l'anziana.
Tutto ciò serve a Na per costruire un film che gioca con lo spettatore perchè resti incollato alla poltrona e analizzi ogni input che gli viene dato dai riferimenti biblici alle tradizioni coreane.
Con pochissimi appigli per 155 minuti lo spettatore si ritroverà nei panni di Jong-Goo e dovrà decidere di chi fidarsi cercando di dare un senso al male e alla sua diffusione e poco a poco capirà che il grande tema del film è proprio la paura del diverso e il pregiudizio.
Il tutto relazionato ad alcuni dei grandi topoi del cinema orientale degli ultimi anni come la perdita delle tradizione in una società che si occidentalizza sempre di più, la netta opposizione tra i piccoli centri rurali che stanno scomparendo con le loro tradizioni e il progresso cittadino che sta fagocitando ogni cosa con la sua fretta.
Un film senza dubbio maturo, ma che non perde il gusto per il genere e per la messa in scena riuscendo a creare un tensione costante e alcuni momenti di paura davvero perfetti oltre ad un gusto estetico tra il pop colorato e l'esagerazione di colleghi come Sion Sono e una rappresentazione della foresta come luogo di terrore e dei riti più vicina a Bong Joon-ho ed al suo fantastico Memories of a Murder.
[a cura di Fabrizio Cassandro]
Posizione 6
It Follows
di David Robert Mitchell, 2014
"Io sono ineluttabile."
It Follows ripercorre un'idea atterrente, già di Scream e di The Ring e di decine di tag-line di locandine a tema horror: quel non puoi sfuggirgli che si aggiorna nell'idea di essere incubatrici nel proprio incubo, che come una malattia è sia parte di sé che estranea a sé.
I personaggi, come centri di gravitazione, attirano l'incedere lento del male che come nel più classico dei sogni è sufficiente che li sfiori perché avvenga un disastro mai del tutto specificato ma indiscutibile.
Il ruolo del sesso, seppure perno dell'intero plotting, non deve ridurre la profondità del film sulla facile allegoria di una crociata alle malattie veneree. It Follows è un raffinato esempio di come a un rude minimalismo nella costruzione tecnica di un film possa fare da contraltare un profondo significato esistenzialista. Evita di rimarcare la tradizionale ansia verso l'incertezza del futuro e ci porta piuttosto a domandarci: chi ci segue?
[a cura di Sebastiano Miotti]
Posizione 5
madre!
di Darren Aronofsky, 2017
madre! è il settimo film del regista Darren Aronofsky ed è probabilmente l’opera più ambiziosa in cui prende vita tutta la sua poetica d’autore, mettendoci la sua esperienza ventennale da cineasta nella realizzazione di un film davvero unico.
La pellicola anche se non è contestualizzabile in un unico genere, dato che è difficile rinchiudere in un genere un film d’autore, è di certo un film che utilizza l’orrore per mostrare ciò che il genere umano ha sempre fatto nei confronti della Terra e nei confronti del prossimo, non rendendosi conto della distruzione che viene portata non solo alla società ma all’intero pianeta a causa della superstizione, dell’egocentrismo e dell’avidità.
Il film è ambientato tutto in interni e la macchina da presa in molte scene viene posta alle spalle della protagonista per realizzare inquadrature in semisoggettiva che portano lo spettatore a immedesimarsi in lei, anche grazie a costanti primi e primissimi piani che mostrano scena dopo scena nel modo più diretto le sue emozioni.
Il film è ricco di particolari e dettagli che vanno a formare il mosaico che prende sempre più forma durante la narrazione.
Riguardo il sonoro viene fatto un uso particolare dei suoni ambientali che costituiscono di fatto la colonna sonora del film, dato che pellicola è priva di composizioni musicali.
Il film è privo anche dei nomi dei personaggi che non vengono mai pronunciati e bisognerà scoprire, durante l’arco narrativo, il loro ruolo all’interno di questa grande allegoria ambientata nella casa in cui vivono i protagonisti, interpretati da Jennifer Lawrence e Javier Bardem.
Il film crea una sensazione che si potrebbe definire viscerale durante la visione perché la commistione tra suoni ambientali, la completa immedesimazione con la protagonista e il formato della pellicola in Super 16mm rende quasi tangibile il film.
Un’opera davvero unica e dalle importanti tematiche, di un Aronofsky che continua ad affermarsi come uno dei più grandi registi contemporanei.
[a cura di Kevin Hysa]
Posizione 4
Suspiria
di Luca Guadagnino, 2018
Suspiria è un film sul sonno della ragione che genera mostri:
Susie diventa la strega che la sua comunità amish l'ha sempre accusata di essere, così come le sacrosante rivendicazioni proletarie sfociano nella violenza, la danza come forma di riappropiazione del proprio corpo diventa l'esposizione viscerale di istinti arcani che non hanno nulla a che vedere con l'armonia, la proporzione e l'etica nell'arte.
Suspiria è anche un film sulla colpa: la colpa degli uomini nei confronti delle donne, del mascolino razionale che ha sempre mirato a zittire il femminino "magico", da sempre considerata una forza ancestrale tanto incomprensibile in un mondo in cui le regole vengono scritte da maschi.
Femmina è la terra che feconda e che distrugge, il principio entropico per cui nascita e morte sono inarrestabili, in contrapposizione alle divinità dogmatiche, che rappresentano una visione maschile di ordine e sicurezza.
Nella psicologia di Jung la Grande Madre è un archetipo creatore e distruttore.
La vera magia della danza sta nell'influenzare gli altri, senza la necessità della parola scritta o orale.
La danza e la musica sono bypass per l'inconscio, senza intermediari.
Ed è questo collegamento essenziale ma arcano a far più paura.
[a cura di Lorenza Guerra]
Posizione 3
The Neon Demon
di Nicolas Winding Refn, 2016
"L'innocenza è pericolosa."
Recita così l'azzeccatissima tagline di The Neon Demon, ultima pellicola diretta da Nicolas Winding Refn, film capace di destare enorme scalpore sin dalla sua première alla sessantanovesima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Cannes.
La dialettica tra innocenza e pericolo, bellezza e violenza, attrazione e repulsione è l'essenza stessa della pellicola dell'autore danese, che con questo film preosegue nelle propria instancabile opera di ricerca e sperimentazione stilistica.
La dilatazione dei tempi narrativi, la spasmodica attenzione alla costruzione di quadri intrisi di simbolismi, l'esecuzione di complessissimi movimenti di macchina e la completa immersione in un mondo oscuro che viene illuminato esclusivamente da luci al neon sono le caratteristiche preponderanti di un horror atipico per modalità di creazione della tensione.
Malgrado gli evidentissimi omaggi visivi al Suspiria di Dario Argento e una trama che attinge a piene mani dall'immaginario del maestro dell'horror italiano, Refn sceglie una via diversa per colpire lo spettatore.
Al centro della narrazione c'è Elle Fanning - protagonista straordinariamente in parte- che intepreta il ruolo di Jesse, giovanissima e ingenua aspirante modella che cerca di farsi strada nel mondo della moda grazie alla propria bellezza genuina. Nel contrasto tra il candore della propria protagonista e la tensione che si annida sotto la superficie del patinato mondo della moda risiede gran parte della forza inquietante del film.
L'opera fa sue le illusioni e l'attenzione all'apparenza proprie di quell'ambiente, creando nello spettatore un continuo senso di horror vacui: il vuoto interiore dei personaggi che si muovono attorno a Jesse terrorizza perchè dà la continua impressione di poter inghiottire la protagonista.
Le sensazioni di orrore e pericolo nella pellicola non provengono dunque, necessariamente dalla violenza grafica della stessa -che pur diventa preponderante in un climax finale perfettamente centrato nei canoni del genere- ma dai simboli e dai dettagli che Refn sapientemente nasconde in quasi ogni scena.
The Neon Demon incanta e inquieta al contempo, crea metafore e scava in profondità, pur mostrandoci apparentemente solo una splendida superficie.
The Neon Demon ci mostra il volto più terrificante della bellezza.
[a cura di Jacopo Gramegna]
Posizione 2
Babadook
di Jennifer Kent, 2014
Nessun film dell'orrore potrà mai superare il vero orrore provato a causa di un lutto improvviso.
La mancanza di una persona fino a poco prima vicina, la perdita di qualunque certezza, appiglio, abitudine, la consapevolezza che non sentiremo mai più quella voce pronunciare nuove parole, non vedremo mai più quel volto fare nuovi sorrisi, non potremo mai più di nuovo abbracciare, respirare, vivere quella persona.
E l'elaborazione del lutto è al centro di Babadook, film incredibile che lavora sull'inconscio della protagonista e dello spettatore: una madre rimasta sola non è in grado di star dietro al figlio irrequieto e ansioso, spaventato dalla presenza di un "mostro" che non si riesce a identificare.
Le urla del bambino sono insopportabili e scatenano a volte istinti franzoniani, ma sono necessarie per farci vivere una goccia di ciò che vive la madre.
Il film di Jennifer Kent riesce nel difficile intento di citare contemporaneamente due generi a prima vista agli antipodi come quello del cinema espressionista e il Kammerspiel.
Del primo ne ricrea le atmosfere, una fotografia caricaturale e decisa, dove la luce e l'ombra vengono delineate da rette implacabili e dove non c'è spazio per le sfumature; il Kammerspiel invece fa capolino nella messa in scena e nelle intenzioni, con una macchina da presa ossessiva nello stare addosso alla protagonista e un racconto che fondamentalmente avviene quasi tutto all'interno delle mura casalinghe.
Il lutto e come affrontare le proprie paure, il terrore di andare avanti per non lasciare indietro ciò che è inevitabile abbandonare: Babadook lavora di suggestioni più che di spaventi, con tocchi di classe sia dal punto di vista delle immagini - e di ciò che crediamo di vedere - che del sonoro - con la voce del "mostro" che è qualcosa che gela i muscoli.
Conscia che fa molta più paura un'ombra nascosta di una creatura svelata, la Kent ci mostra la figura del Babadook in mille modi diversi sempre tenendosi lontana dal palesarcelo.
Quando nel terzo atto la metafora e l'allegoria del film diventano chiari a tutti, le ultime inquadrature raccontano una scelta coraggiosa, che non è un lieto fine e non è nemmeno un finale tragico.
Ma è paradossalmente l'unico finale sensato e maturo, che lascia addosso una strana sensazione e dipinge in faccia un sorriso obliquo.
Perché in fondo ognuno di noi nella vita, prima o poi, dovrà vedersela con un Babadook.
E allora forse ci ricorderemo la lezione del film.
[a cura di Teo Youssoufian]
Posizione 1
The Vvitch
di Robert Eggers, 2015
New England, 1630: il contesto è la materia del film stesso.
Robert Eggers ha trascorso quattro anni a documentarsi affinché il suo esordio fosse più accurato possibile, l'illuminazione naturale e i costumi cuciti a mano restituiscono all'opera un'aura autentica, priva di contraffazione e artificiosità.
Ormai è ben noto che la lingua che parliamo influenza l'architettura del nostro pensiero e dunque la composizione della società intera: in The Vvitch gli attori parlano un inglese arcaico, ostico nella sintassi e nelle locuzioni, è la lingua da cui prendono forma le prime comunità americane.
Folklore e religione si intersecano su più strati ma è negli interstizi che li separano a giacere la paura del Male, inevitabile a causa del peccato originale da cui l'umanità non potrà mai redimersi.
Per quanto la trama di The Vvitch possa considerarsi piuttosto lineare - A New-England Folktale infatti è il sottotitolo proprio a sottolineare quanto la storia segua uno schema tradizionale - lo spessore dell'opera è fornita dagli stessi protagonisti e dal concetto stesso di fanatismo.
La crescente paranoia di una famiglia inglese puritana impiantata sul suolo americano, freddo e indifferente, nelle foreste senza fine che non offre le dolci mele della patria natia, il fallimento del pater familias nell'adempiere al ruolo di guida impostogli da Dio, la curiosità infantile e adolescenziale verso l'ignoto e verso se stessi, sono tutti elementi che si sovrappongono al paranormale.
L'orrore dunque si pone a mezz'aria, tra il fanatismo religioso e l'entità fisica del Diavolo.
Figlio illegittimo del colonnello Kurtz e del tenente Ripley, folgorato sulla via di Dagobah mentre sul chopper di Zed filavo molto karaschò a 88 miglia orarie verso l'Overlook Hotel gestito da HAL9000.
Mi travesto da donna per fuggire da Charles Foster Palantine, con il quale suonavo blues in missione per conto della Tyrell Corporation, ma era tutto Top Secret.
Bevo White Russian, mangio torta di ciliegie stando in Silencio e non vado a letto presto perché canto sotto la pioggia.
Lavoro in TV, canto nei Dymama, sono il Direttore Editoriale di CineFacts.it e non dico mai la parola "morte".
Cavoli, che peccato! Io l'avevo visto in chiaro su Rai 4 e mi era piaciuto un sacco... Davo per scontato che l'avrei potuto rivedere tranquillamente su RaiPlay, e invece 😭
Lenù
4 anni fa
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Marco Natale
4 anni fa
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Jude
4 anni fa
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Luca Colombo
4 anni fa
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Marco Natale
4 anni fa
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Hanza
4 anni fa
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