È necessario partire da una premessa: il poliziottesco è un genere reietto.
Un filone che, nella sua natura di emarginato, disprezzato dalla critica fino alla fine dei suoi tempi, ha cercato più volte di costruirsi una propria dignità, incontrando risultati economici rilevanti ma rimanendo ai margini della grande Storia del Cinema italiano.
La sua recente rivalutazione si deve principalmente a riviste di genere che si sono occupate di uno studio più approfondito del fenomeno.
Lo stesso Quentin Tarantino ha "rubato" a più riprese al poliziottesco, inserendo nella sua filmografia una serie di omaggi a testimonianza del suo sconfinato amore per lo stile e i contenuti di queste produzioni.
Nella maggior parte dei casi, comunque, i titoli dei film che seguono vi lasceranno probabilmente indifferenti: questa Storia del Cinema ce la siamo persa da qualche parte e l’abbiamo lasciata marcire nell’indifferenza.
Ma niente è perduto, siamo ancora in tempo.
L’obiettivo al quale mira timidamente questa Top 8 è quello di ricostruire, nei limiti del possibile, la Storia di questa affascinante parentesi cinematografica.
Gli 8 film sono stati selezionati in quanto ritenuti tappe fondamentali del ciclo di vita del poliziottesco, considerato in tutte le sue originali declinazioni.
In questo senso, però, è importante dire che praticamente nessun film appartenente al filone è presente su piattaforme streaming, anche se esistono online versioni fisiche disponibili all’acquisto.
Un suggerimento alternativo è quello di recarvi in tutti i mercatini dell’usato presenti nella vostra città, frugare tra i CD e i DVD gettati da decenni in una cesta posta nell’angolo più oscuro del negozio - quella dove non si trova mai nulla di interessante - e sperare nella fortuna.
[Uno degli omaggi più evidenti di Quentin Tarantino al poliziottesco: il brano inserito all'interno di questa sequenza è di Franco Micalizzi, presente in Italia a mano armata di Marino Girolami]
Il poliziottesco, nato attorno alla metà degli anni ‘60 e divenuto celebre circa dieci anni dopo, è sempre stato strettamente influenzato dalla realtà e dal contesto del Paese.
Il filone viveva delle amarezze provocate dal boom economico e percorreva l’intero periodo degli Anni di Piombo, della Strategia della tensione e del terrorismo cittadino.
Anche se il tramonto del Neorealismo sembrava avere interrotto la riflessione sui problemi legati alla società, tutta la cinematografia italiana continuava a manifestare la necessità di raccontare le inquietudini del tempo: da un lato la commedia all’italiana rifletteva la decadenza ideologica del decennio, dall’altro il Cinema politico (o Cinema d’impegno civile) metteva in luce la diffidenza del cittadino nei confronti della legge e della gestione istituzionale.
In particolare i cosiddetti film di "consumo impegnato” - così come li definiva in modo dispregiativo la critica del tempo - promuovevano un linguaggio profondamente accusatore con l’obiettivo di denunciare l’inefficacia della giustizia e del sistema carcerario, la corruzione politica e i rapporti con la mafia nei principali organi di potere.
Ciò che accadeva all’interno del Paese aveva perciò un profondo impatto sulle storie da raccontare e sulla trasmissione e ricezione dei messaggi veicolati, a volte generando sottotesti a prescindere dalla volontà dell’autore.
Per esempio, un film comeIndagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito casualmente a due mesi dall’attentato di piazza Fontana, si caricò di allusioni inaspettate che gravarono sulla rappresentazione - già spietata - del lato oscuro della società.
[La metafora di Elio Petri in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto influenzò profondamente la prima fase del poliziottesco]
La stessa spinta ideologica del Cinema politico, ma con radici ben più fragili, era alla base dei poliziotteschi del periodo.
La critica inorridiva all’accostamento delle due correnti, si scagliava contro la maggior parte di queste produzioni accusandole di promuovere messaggi reazionari e qualunquisti, tesi esclusivamente allo svilimento senza fondamenta del potere.
Del resto i poliziotteschi non facevano molto per smentire tali rimproveri e continuavano a proporre una ripetizione, spesso maldestra, di storie e personaggi stereotipati, alimentando il disgusto degli spettatori più colti e accelerando il proprio processo di decomposizione.
A dire il vero il filone si confrontava direttamente con la realtà italiana del tempo per rappresentare con crudezza documentaristica lo "sporco" presente nel Paese.
Eppure non sempre riusciva a cogliere tutte le sfumature e finiva per fornire ritratti confusi e raffazzonati, pescando distrattamente dall’attualità e regalando al pubblico eroi scomodi e prepotenti.
L’originalità del Cinema di Damiano Damiani consisteva proprio nell'abbattimento di questo gigantesco muro: in parte della sua filmografia la volontà di denunciare il comportamento disumano dei vertici del potere, sempre più impegnati a stringere accordi con organizzazioni mafiose, si sposava alla perfezione con le strutture tipiche del poliziottesco.
[Ne Il giorno della civetta, adattamento di Damiano Damiani dell'opera di Leonardo Sciascia, due poli opposti si scontrano: il dialogo antitetico tra isitituzioni e organizzazioni mafiose aprirà la via a un vero e proprio filone di genere sulla mafia]
La partenza del filone viene fatta risalire a due film di Carlo Lizzani basati su criminali realmente esistiti: Svegliati e uccidi e Banditi a Milano.
I contenuti e lo stile attingevano al precedente western all’italiana, ma il villaggio rurale del Far West si era trasformato in una metropoli frenetica in balìa della criminalità.
Al centro della fortuna del poliziottesco c'erano i commissari: uomini più o meno ortodossi alle prese con la delinquenza, il terrorismo, le divergenze con i superiori e le contraddizioni del sistema giuridico.
I capi di polizia del filone si nutrivano dello charme dell’Ispettore Callaghan (Clint Eastwood) ed erano impersonati da alcuni degli attori più influenti del periodo: Enrico Maria Salerno nei panni di agenti ben vestiti, paterni e autorevoli; poi Franco Nero, Luc Merenda e Maurizio Merli in ruoli più contraddittori, uomini agili, muscolosi, inclini alla violenza e a mirabolanti acrobazie.
Chi però lasciò maggiormente il segno nella Storia del poliziottesco fu Tomas Milian, che coprì il ruolo di commissario in Banditi a Milano e in Squadra volante (primo poliziottesco di Stelvio Massi), ma che raggiunse il suo definitivo successo nei panni del Gobbo in Roma a mano armata.
Il film, oltre a confermare le finezze registiche e la versatilità cinematografica di Umberto Lenzi, regalò al pubblico un antagonista perfetto, profondamente antiborghese e politicamente scorretto, impersonato da Milian con grande immedesimazione e doppiato dall’inconfondibile voce di Ferruccio Amendola.
La trivialità del Gobbo influenzò notevolmente la costruzione successiva di er Monnezza e Nico Giraldi, personaggi che finirono per somigliarsi sempre di più, pur appartenendo a due declinazioni del genere piuttosto diverse.
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[Tomas Milian nella parte del Gobbo in Roma a mano armata.Dardano Sacchetti ha dichiarato di aver sviluppato l'idea di Monnezza proprio a partire da questo personaggio che, in quanto antagonista, si contrapponeva al vigoroso commissario interpretato da Maurizio Merli. Si dice che sul set del film tra i due attori nacque una grande rivalità che incise positivamente sulla loro chimica scenica]
La declinazione a cui apparteneva Nico Giraldi - il poliziottesco comico - fu forse la variante più remunerativa del filone e si aggiunse a un percorso generale di ibridazione che coinvolse molte produzioni dell’epoca.
Numerosi poliziotteschi erano il risultato di un’originale commistione tra il thriller argentiano, il gangster movie, il noir, il western, il true crime, il film d’inchiesta e il film fantapolitico.
Non era insolita poi l’adozione di soluzioni splatter per la rappresentazione della violenza: per esempio, in una scena de La mano spietata della legge di Mario Gariazzo, il personaggio di Vito Quattroni (Klaus Kinski) torturava un uomo puntandogli ai genitali una fiamma elettrica.
Negli anni ‘80 il poliziottesco iniziò ad esalare gli ultimi respiri.
Il filone si dimostrava sempre più incapace di rappresentare l’angosciosa complessità del presente, puntando al rinnovamento all’interno di un sistema produttivo sull’orlo del collasso, tra il crollo degli incassi delle produzioni nostrane rispetto a quelle hollywoodiane e la concorrenza delle televisioni private.
Travolto da una crisi che colpì in generale tutta l’industria cinematografica italiana, nel giro di pochi anni il poliziottesco entrò in una fase crepuscolare, lasciando i suoi commissari lontano dalle città, in provincia o all’estero, a Vienna come in Poliziotto senza paura o a Berlino come Poliziotto solitudine e rabbia (entrambi film di Stelvio Massi).
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[Una scena di Poliziotto solitudine e rabbia. Il poliziottesco di Stelvio Massi, sesta e ultima collaborazione con Maurizio Merli, fu girato tra Venezia e l'allora Berlino Ovest]
Il genere però non scomparì del tutto, perché la televisione lo accolse con sceneggiati originali.
Sicuramente cambiò pelle, adattò le sue storie alle modalità di racconto da fiction e soap opera, svuotandosi della violenza e dell’intrepida azione e focalizzandosi su commissari davvero poco scomodi, figure esemplari a protezione del Paese.
Con la crisi del poliziottesco, all’interno del percorso di un Cinema popolare ormai in declino e sulla nascita del rapporto tra Cinema e televisione, cambiò anche il modo di rappresentare la realtà.
Il mutamento fu piuttosto naturale: dopotutto, la maggior parte dei poliziotteschi presentava limiti tecnici evidenti e optava per scelte narrative prevedibili che tentavano, senza grandi risultati, di aggiungersi in quanto voci al discorso politico.
Anche la recitazione risultava spesso zoppicante, tanto che in breve tempo il poliziottesco si trasformò più che altro in una messa in scena di momenti di azione incalzanti, grandi inseguimenti in auto a sirene spiegate, lunghi incontri di pugilato fra le strade, calci, pugni e improbabili piroette.
Era sicuramente un Cinema "brutto" da vedere, che però tentava di raccontare un Paese altrettanto brutto.
Un Cinema sul quale sembra ancora interessante interrogarsi e che, nonostante la sua precoce dipartita, ha il pregio di non esaurirsi mai.
Un pomeriggio del 25 settembre 1967 alcuni rapinatori seminano il panico per le vie di Milano, dopo aver rapinato l’agenzia n.11 del Banco di Napoli.
Gli scontri a fuoco scatenati dalla banda Cavallero durante l’inseguimento della polizia causano una dozzina di feriti e 3 morti innocenti: un fattorino, uno studente di soli 17 anni e un uomo a bordo della sua 600 Multipla.
Banditi a Milano ripercorre le vicende attraverso un’intervista (di finzione) al commissario di polizia Basevi (Tomas Milian).
Il risultato è un ritratto della malavita milanese dopo il boom economico, tra la diffusione del pizzo ai proprietari dei locali notturni, le case da gioco clandestine, l’estorsione, il mercato nero e la prostituzione.
Lizzani, autore che aveva iniziato la sua carriera nell’epoca neorealista, sceglie di ricostruire gli eventi antecedenti alla tragica rapina mediante l’uso di flashback, raccontando la costituzione della banda Cavallero, nata per finanziare una rivoluzione proletaria estranea alla malavita, le indagini, gli imprevisti, la fuga, l’inseguimento e infine la sparatoria.
Il formato del documentario scelto dal regista si unisce magnificamente alla finzione narrativa soprattutto nella rappresentazione del capo della banda Pietro Cavallero detto Il Piero, interpretato da un incredibile Gian Maria Volonté.
L'attore alza nettamente il livello del film, tingendo l’apparente individualismo apolitico del personaggio - che decide di ribellarsi per farsi giustizia da solo - di sfumature più cupe, trasformandolo in un uomo cinico, disturbato e terrificante.
Il film è considerato l’apripista del genere grazie al suo ritmo serrato e al perfetto equilibrio tra tensione e azione che non molti autori riusciranno in futuro a replicare.
Non disponibile in streaming e in Home video.
Posizione 7
Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica
di Damiano Damiani, 1971
Confessione è una grande eccezione nel panorama del poliziesco all’italiana.
Uscito a poco più di un anno di distanza da Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il film è da considerare come ulteriore punto di partenza del filone perché esso è in grado di unire la metafora di Petri agli strumenti classici del Cinema di genere.
Il linguaggio da Cinema politico si esprime anzitutto nel contrasto messo in scena tra due grandi protagonisti: il commissario Bonavia (Martin Balsam), stanco di combattere invano la diffusione della mafia, e il procuratore Traini (Franco Nero), un magistrato convinto che la legge possa sempre e comunque stabilire la giustizia.
Bonavia è impegnato in una guerra privata contro il mafioso Lomunno e decide di far uscire da un manicomio un sicario sperando che questi cerchi di farlo fuori.
Tuttavia Lomunno, sfuggito all’agguato, instilla in Traini il dubbio che lo stesso Bonavia sia dalla parte di una banda concorrente.
I due iniziano allora a controllarsi reciprocamente, nascondendosi informazioni e finendo per annullarsi a vicenda.
In soli 106 minuti Damiani riesce a raccontare oltre vent’anni di mafia siciliana dalle origini rurali - quelle di In nome della legge di Pietro Germi - alle forme più moderne, utilizzando alcuni topoi del poliziottesco e denunciando il sistema corrotto attraverso immagini autentiche e d’impatto.
Ma la consapevolezza arriva troppo tardi al procuratore Traini: è troppo tardi quando egli si scopre impotente di fronte ai suoi superiori, troppo tardi per cambiare le cose quando l’alto magistrato Gora lo apostrofa con finta noncuranza dicendo “Qualcosa non va?”.
Una frase che, come dice lo stesso regista, è come “uno sputo in faccia” e rappresenta “tutta una civiltà e una cultura mafiosa”.
A La polizia ringrazia è attribuita l’etichetta di capostipite del poliziottesco.
Il film prosegue la metamorfosi del genere con il Cinema politico già promossa da Confessione.
La storia ruota attorno al commissario Bertone (Enrico Maria Salerno), un capo di polizia poco amato dalla stampa e dai suoi superiori a causa dei suoi bruschi metodi e del suo cinismo.
Bertone si trova a dover lottare contro la nascita di una misteriosa squadra anticrimine che uccide i criminali della malavita sostituendosi all’autorità di Stato della polizia per rendere Roma una città più “pulita”.
Stefano Vanzina abbandona lo pseudonimo Steno per farsi una vacanza dal genere prediletto - la commedia - e racconta una storia dal punto di vista delle forze dell’ordine, facendo leva sull’inefficacia della Polizia e sul senso di impotenza di un commissario che non riesce a svolgere discretamente il proprio lavoro a causa di mancanza di mezzi, uomini e leggi adeguate.
La polizia ringrazia è un film che, pur rimanendo in superficie - accenna soltanto, per esempio, al dubbio sull’ottusità della legge italiana, al tema del complotto oppure al lato umano dell’uomo criminale - porta in scena uno degli ultimi commissari colti, intelligenti e riflessivi, poco inclini all’uso delle armi e più intenzionati a fare giustizia.
Sulla scia della sequenza iniziale di Banditi a Milano, anche La polizia ringrazia fornisce un ritratto piuttosto accurato della malavita utilizzando l’espediente di una gita notturna nella capitale che Bertone propone a un gruppo di giornalisti.
Nella scena emerge la denuncia al sistema legislativo e alle riforme più recenti del codice penale che permettono alla criminalità di diffondersi tra le vie della città senza troppe ripercussioni.
“Abbiamo le mani legate: i delinquenti ci prendono per il sedere e i giornalisti ci inzuppano il pane”
La polizia incrimina, la legge assolve è considerato il film che più rappresenta il filone cinematografico.
L’opera di Castellari infatti, avendo metabolizzato definitivamente la denuncia sociale del Cinema politico, aggrega e codifica tutti i canoni del poliziottesco.
Il film è incentrato sulla figura del commissario Belli (Franco Nero), un giovane eroe dagli occhi azzurri, bello, impulsivo e violento che cerca di indagare sui loschi traffici della malavita tra Genova e Marsiglia.
La città ligure è protagonista, un teatro urbano in cui ogni giorno si manifestano frenetici inseguimenti e violente sparatorie tra due bande criminali contrapposte.
Il commissario è sulle tracce del cosiddetto Libanese ma le indagini lo portano a scoprire l’implicazione nel caso di numerose figure di spicco della società.
Il suo atteggiamento precipitoso nel cercare di scoprire la verità mette inevitabilmente a rischio la vita preziosa dei suoi affetti.
Anche in questo caso, quando tutto diventa finalmente chiaro, è troppo tardi: non resta che accettare il proprio destino di eroe, immaginando come un rapido flash la propria epica dipartita.
Nel film si costruiscono frenetiche scene d’azione e la regia diventa una cifra stilistica evidente: i movimenti di macchina sporchi e dinamici, caratterizzati dall’uso della macchina a mano, vivono in simbiosi con un tema musicale travolgente (Gangster Story di Guido e Maurizio De Angelis) ripetuto per tutta la durata del film.
Il modello de La polizia incrimina, la legge assolve insieme alla figura del monolitico commissario Belli - che seppur lontano dalla profondità dei commissari precedenti conserva il fascino dell’agente di ferro tutto d’un pezzo - saranno alla base di tutte le produzioni del poliziottesco degli anni a venire.
Piccola postilla: vietato ridere delle meches bionde di Franco Nero.
Il poliziotto è marcio arriva nelle sale negli anni di principale successo del poliziottesco, anni in cui il filone vanta non solo un ritorno economico importante, ma anche una definizione più completa della sua fisionomia.
Il film si inserisce in questo contesto in modo eversivo a partire dal titolo insultante voluto fortemente dal regista, consapevole dei problemi che esso avrebbe considerato.
Di Leo ha raccontato infatti che i poliziotti strappavano i manifesti del film che trovavano per strada, minacciandolo anche telefonicamente.
Il poliziotto è marcio ruota intorno al commissario Malacarne: apparentemente un nuovo eroe da idolatrare, amato e rispettato dai colleghi, ma in realtà un poliziotto corrotto che prende bustarelle e fa accordi con un ignobile boss della malavita.
Come in tutto il suo Cinema di genere, Di Leo preferisce mettere in crisi il meccanismo di identificazione con il protagonista e trasformare l’immagine eroica del capo di Polizia, allo scopo di esprimere un pessimismo cronico nei confronti delle leggi che regolano il Paese.
Il film mette in scena numerosi momenti d’azione violenti e disturbanti (lo strangolamento di una donna - Delia Boccardo - con il filo del telefono) contrapposti alla presenza di personaggi-macchietta di discutibile gusto.
Nonostante la sceneggiatura a tratti incerta e la poca credibilità di Luc Merenda nei panni del"cattivo ragazzo", Il poliziotto è marcio rimane un film che cerca di soffocare il dialogo tra colpa e redenzione, sostituendo il contrattacco al sentimento del rimorso e la rabbia violenta al senso di dispiacere.
“Ma chi sei tu per farmi la morale?
Io ti ho visto leccare le scarpe per tutta la vita, tutta una vita per diventare un maresciallo di merda! Quante volte hai massacrato di botte dei poveracci con la benedizione dei superiori? [...]
Quanti soprusi, quanti inghippi per un panettoncino a Natale?
Firmato da Marino Girolami con lo pseudonimo di Franco Martinelli, Roma violenta nasce come un prodotto profondamente legato a La polizia incrimina, la legge assolve.
Al centro delle vicende c’è infatti il commissario Belli interpretato da Maurizio Merli, molto simile nel nome e nella fisionomia al Betti di Franco Nero.
Un eroe dagli occhi di ghiaccio, giustiziere solitario dal passato burrascoso, immesso all’interno di una realtà urbana senza speranze.
Girolami propende per una linea narrativa frammentata e sceglie per il film una struttura rapsodica dividendolo (circa) in due parti.
Dopo una scena lunga 7 minuti di un inseguimento in auto tra Belli e un criminale, il film sterza su tutt’altro orizzonte: il commissario, abbandonato il suo ruolo in polizia a causa della sua arbitraria condotta, entra a far parte senza troppe domande di una squadra privata di vigilantes fondata da un illustre avvocato allo scopo di battere le strade della città per trovare più criminali possibili.
Una grande protagonista è la malavita romana; d’altronde siamo a metà degli anni ‘70, la Capitale è nelle mani delle “batterie” e si prepara ad accogliere, suo malgrado, l’entrata in scena della Banda della Magliana.
La città è infatti un vero e proprio far west in cui ogni giorno si rischia di morire andando in banca, cenando al ristorante o prendendo un autobus per incontrare la propria fidanzata.
A Roma violenta non manca, perciò (e per fortuna direi, visto il titolo) l’elemento della violenza e dell’ingiustizia, espresso in più di una trovata: nel destino del giovane Biondi (Ray Lovelock), collega del commissario rimasto paralizzato durante una rapina, e nella violenza sessuale subita dalla figlia dell’avvocato proprio davanti ai suoi occhi.
Con il film si apre definitivamente una fase di serializzazione dell’eroe.
La struttura dei poliziotteschi, da qui in poi, permetterà una ripetizione di personaggi e blocchi narrativi che espanderanno il potenziale universo del protagonista di turno verso nuovi confini.
Belli apparirà infatti prima in Napoli violenta e poi in Roma a mano armata, entrambi film firmati da Umberto Lenzi.
La polizia accusa: il servizio segreto uccide è un film dal sapore più investigativo che tenta di recuperare il discorso politico legandosi alla cronaca nera italiana.
La scena conclusiva è chiaramente ispirata alla morte del commissario Luigi Calabresi, colpito alla testa e alla schiena sotto la sua abitazione da un killer a volto scoperto.
La vicenda risalente al 1972, protagonista di tutte le prime pagine dei giornali dell’epoca, contribuì alla formazione di una sorta di mitologia intorno alla figura di Calabresi.
Soprattutto in relazione al trattamento riservato a Giuseppe Pinelli dopo la strage di Piazza Fontana nel contesto di un interrogatorio durato tre giorni consecutivi e concluso con la tragica (e mai chiarita) caduta del sospettato dalla finestra dell’ufficio del commissariato.
La polizia accusa è dunque solo uno dei numerosi esempi nel filone che attinge alla spettacolarità dei titoli dei giornali per costruire una narrazione avvincente focalizzata sullo svelamento di un gigantesco complotto contro la democrazia.
L’uomo impegnato nelle indagini è stavolta il commissario Giorgio Solmi (Luc Merenda) intenzionato a scoprire l’origine di alcuni presunti suicidi avvenuti tra Milano, Roma, Bologna e Firenze.
Nel film l’organizzazione dei Servizi Segreti Italiani si appropria di una forma più chiara e definita, costituendosi di personaggi sempre più connotati con volti e caratteristiche ben riconoscibili, come il capitano Mario Sperlì dell’Ufficio Speciale Informazione, un agente dei SSI interpretato dall’ormai celebre Tomas Milian.
Con lui, Solmi porta avanti una combattuta discussione sul concetto di politica, sul significato della destra e della sinistra e sul pericoloso scompenso alla base del rapporto tra il bene e il male.
L’eclettismo dell’attore cubano chiamato a interpretare un maresciallo atipico a capo di una buffa squadra speciale ha contribuito enormemente al successo del poliziottesco.
Ma soprattutto ha aperto la strada a una delle declinazioni più interessanti del genere: il sotto filone comico.
Squadra antiscippo si inserisce in una realtà più vernacolare: il suo protagonista è un tale Nico Giraldi, un agente di polizia che indossa cappelli di lana, maglioni e calzini variopinti persino quando va a letto.
Con una grande passione per Serpico, testimoniata dai manifesti appesi nella sua abitazione e dal nome del suo topolino da compagnia, Giraldi è un ladro pentito che ha deciso di abbandonare la malavita romana per catturare i ricettatori alla base della delinquenza.
Un uomo carismatico, un civettone che raccoglie dai suoi superiori esclusivamente elogi, nonostante la sua condotta e i suoi metodi piuttosto discutibili.
Il film si fa pregio anzitutto di questa innovazione che garantisce una continuità con il successivo Monnezza - in un certo senso alter ego diretto di Giraldi - e che stabilisce, per la prima volta, l’incontro perfetto tra due mondi finora agli antipodi.
La criminalità passa in rassegna esattamente come nei poliziotteschi seri ma senza scaturire alcun tipo di indignazione.
Al contrario, si mettono in scenasituazioni parodistichea sottolineare la goffaggine dei piccoli criminali e la sbadataggine delle vittime.
Insomma, i delinquenti della strada sono più che altro bambini da redarguire con una bella tirata d’orecchie.
Nonostante ciò, Squadra antiscippo non si sottrae alla rappresentazione della violenza e, anzi, alterna scenette divertenti dominate dal sarcasmo strafottente di un protagonista che ama esprimersi in rime, a più inquietanti dinamiche da banda criminale.
Questo approccio costituisce in realtà una delle ultime reminiscenze del poliziottesco più classico: dopo i suoi oltre due miliardi al botteghino a Squadra antiscippo succederanno ben 11 film diretti da Corbucci che intaccheranno il filone serio, già instabile per natura, accelerando la sua atrofizzazione.