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Per Bardo, in alcune scuole buddiste, si intende lo stato di transizione tra la morte e la rinascita: una sorta di viaggio che l’anima compie per vedere il passaggio che porta alla reincarnazione.
Alejandro González Iñárritu aveva bisogno di intraprendere questo percorso metaforico mediante il suo Cinema, rivivendo attraverso la potenza delle immagini la sua vita per poter liberarsi dai fantasmi del passato che lo attanagliano da vent’anni.
Sono passati sette anni dal successo planetario che il regista messicano conquistò con Revenant - Redivivo, film che agli Oscar gli valse la seconda statuetta come Miglior Regista e consegnò a Leonardo DiCaprio l’agognato premio come Migliore Attore Protagonista.
La vittoria di un’idea di Cinema che ha allontanato però Iñárritu da Hollywood riportandolo in patria, in Messico.
[La prima locandina di Bardo (or False Chronicle of a Handful of Truths]
Prodotto da Netflix, Bardo può far pensare al percorso che Alfonso Cuarón intraprese post-Gravity, affidandosi al colosso dello streaming per narrare la storia della sua infanzia nel bellissimo Roma.
L’operazione che compie Iñárritu però è diametralmente opposta a quella del suo connazionale, realizzando un film figlio di 8 ½ di Federico Fellini piuttosto che di Amarcord.
Bardo infatti inizia con una scena di un uomo che fluttua nel cielo, un rimando esplicito alle prime inquadrature del capolavoro del regista romano con protagonista Marcello Mastroianni.
L’ombra che vediamo è quella di Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), giornalista e documentarista tornato in Messico dagli Stati Uniti per ritirare un importante premio riguardo l’etica del suo lavoro.
Lo sbarco nel suo Paese di origine lo porta a scontrarsi con la realtà che lo circonda e con quella falsa ricerca della verità che dà il sottotitolo al film.
Silverio Gama rappresenta innegabilmente Alejandro González Iñárritu, protagonista che vuole liberarsi delle proprie idiosincrasie per riappacificarsi con sé stesso.
Alberto Barbera (Direttore della Mostra del Cinema di Venezia) durante la presentazione di Bardo ha asserito come, secondo lui, il regista messicano abbia mutato il suo modo di sognare lavorando al film: una sensazione che traspare appieno durante la visione.
Le sovrastrutture tra cosa sia reale e cosa no, in Bardo, vengono meno: la rilevanza di ciò che avviene sullo schermo è data invece dal flusso di coscienza dell’autore messicano, mai così evasivo e criptico nella narrazione come in questo caso.
Ci viene suggerito durante il film stesso che “La vita è una serie di eventi senza senso”.
Pertanto, per raccontare al meglio la verità, è necessario farlo attraverso le immagini e di conseguenza attraverso il Cinema stesso: unico motore in grado di dare libero sfogo alle paure della mente e alle pulsioni del cuore.
[Alejandro González Iñárritu con Daniel Giménez Cacho sul set di Bardo]
Bardo è perciò un atto di accusa che Iñárritu muove nei confronti di sé stesso, un j’accuse il cui bersaglio è l’etica del regista, inquieto per il successo raccolto negli Stati Uniti e turbato per l’abbandono - lavorativo e sentimentale - del Messico.
In una scena onirica viene inscenato un dibattito tra Silverio Gama e il suo amico giornalista Luis, uno scontro verbale che si trasforma in una serie di considerazioni fatte nei confronti del protagonista, accusato di essere un borghese con la pretesa di raccontare la lotta di classe pur non avendo mai preso un autobus.
Ci si domanda inoltre se sia possibile e giusto raccontare mediante la poesia un Paese dove si respira la morte, idealizzato con le immagini e allo stesso tempo bistrattato con le parole.
Iñárritu, come il Guido Anselmi di 8 ½, sembra soffocare sotto questi martellanti pensieri arrivando alla conclusione che “Il mio fallimento più grande è stato il successo”.
Bardo è perciò anche un film sull’elaborazione del trauma, rappresentato dalla perdita del figlio del protagonista Mateo, e su come sia necessario un percorso di transizione - il Bardo - per superarlo.
Il trauma che ci viene mostrato non è solo quello che sta vivendo il protagonista, ma anche quello di un popolo intero, massacrato prima dagli invasori spagnoli e successivamente dagli Stati Uniti, culla del capitalismo spietato che ha inglobato lo stesso Silverio/Iñárritu.
Sebbene la nuova fatica dell’autore messicano sia a tutti gli effetti un nuovo inizio - il film è a suo modo una commedia, genere inusuale per un regista che ha realizzato la trilogia della morte - la cifra stilistica di Iñárritu rimane intatta, coadiuvata dalla fotografia di Darius Khondji in una ricerca formale al servizio della narrazione, sebbene in alcuni momenti potrebbe essere tacciata di manierismo.
Durante la visione si può avere la sensazione di sentirsi schiacciati dalla sovrabbondanza di temi e immagini: il suggerimento del regista è lasciarsi trasportare dal flusso di coscienza messo in scena, una circolare cronaca di incertezze che, giunta al termine, si rivelerà essere stata un viaggio straordinario.
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