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Il nostro ruolo di spettatori di fronte a un film: cosa ci distingue da un non-spettatore?

Dal Teatro al Cinema, chi assiste a una performance o a una proiezione assume un ruolo molto importante, spesso di difficile definizione, che può portare a un grande paradosso. È possibile risolverlo?

Si è discusso molto della funzione dei vari protagonisti che contribuiscono alla produzione di un film. Spesso però ci si dimentica di fermarsi a riflettere sul ruolo del vero motivo per cui il cinema esiste e viene concretizzato in una proiezione: il pubblico.

 

 

Parlare di “spettatore” e della relazione che si crea con il film è molto più difficile di quanto ci possa sembrare. 

 

Tentare di fornire una definizione coerente, basata su criteri certi, porta a delle problematiche importanti.

 

Prima di tutto, cosa distingue davvero uno spettatore e un non-spettatore?

Josephine Wanangwe esordisce nel suo saggio Role of a spectator in the film industry con:

“Everybody in a movie theatre or in front of a TV is a spectator”.

 

[Chiunque si trovi in un cinema o davanti alla TV è uno spettatore] 

 

Ritrovarsi semplicemente di fronte a uno schermo basta davvero per essere considerati “pubblico”?

Pagare il biglietto del cinema è condizione sufficiente?

 

Chi dorme di fronte a un film o chi lo guarda distrattamente o chi vaga con la mente senza seguire la trama è spettatore allo stesso modo di chi rimane con gli occhi incollati allo schermo, immergendosi nelle immagini?

 

Per non parlare di chi guarda un film alla TV mentre studia, lavora, stira, lava la casa, cucina, chiacchiera, o è impegnato in effusioni con l’amante di turno. 

 

 

 

 

Patrick Philips (2003) sembra risolvere parzialmente questo problema, aggiungendo un tassello molto importante nella sua definizione di spettatore:

“You and I are referred to as spectators when we position ourselves in front of a screen and engage in watching a film”.

 

[Tu ed io siamo definiti spettatori quando ci posizioniamo davanti a uno schermo e ci impegniamo a guardare un film]

 

Posizionarsi davanti a uno schermo non basta.

 

È necessaria un’ulteriore attività per rendere un semplice “viewer” uno spettatore: impegnarsi attivamente nella visione di un film.

Lasciarlo scorrere di fronte ai propri occhi mentre la nostra mente è impegnata in altre attività non è sufficiente, dunque, per potersi considerare spettatori.

 

Ma allora qual è il confine di questo engage level?

È necessario rimanere perfettamente concentrati e immersi per tutta la durata del film o possiamo concederci qualche distrazione?  

 

Come potete immaginare, queste sono solo alcune delle tante domande che hanno sempre contraddistinto il dibattito intorno lo studio della spettatorialità, che affonda le proprie origini fin nel teatro classico dell’antica Grecia. 

 

Le forme d’arte si evolvono, i mezzi cambiano, ma la centralità del soggetto che entra in relazione con l’artista in quanto fruitore dell’opera d’arte rimane essenziale e di difficile comprensione.  

 

Prima di entrare nel merito della questione, partiamo dall’essenza delle cose: il termine spettatore deriva dal latino spectatòrem, da spectare, traducibile con guardare, osservare, assistere.

 

Pensando attraverso i format più comuni della nostra epoca, andare al cinema (o guardare un film a casa) si traduce con il sedersi su una poltrona e guardare ciò che viene proiettato, lasciandosi coinvolgere dal messaggio che gli autori e gli attori hanno provato a trasmettere.

 

Un'azione apparentemente passiva, riflessiva.

Da questa definizione nasce ciò che il filosofo francese Jacques Rancière chiama il Paradosso dello Spettatore (riferendosi al mondo del Teatro, ma applicabile benissimo anche al Cinema): non è concepibile il concetto di cinema senza spettatori, eppure, apparentemente, il loro ruolo è totalmente passivo.

 

Dunque, perché il Cinema, per sua stessa natura, necessita di avere un pubblico?   

 

 

[Jacques Rancière]

 

Intendere il cinema come un luogo in cui viene proiettato un film a cui il pubblico dovrà assistere passivamente significa ridurlo a una semplice apparenza, a una convenzione.

 

Il cinema senza spettatori allora potrà essere pienamente giustificato.

Cosa cambierebbe tra una sala completamente vuota o piena se quest’ultima venisse ridotta a una moltitudine di persone che guardano passivamente una serie di scene finalizzate a un puro scopo di intrattenimento?   

 

E allora, parlando di teatro ma riferendoci sempre al cinema, possiamo ricorrere alla soluzione di Rancière, contenuta del saggio Lo spettatore emancipato: 

 

“È necessario un teatro senza spettatori, in cui coloro che assistono imparano dalle immagini piuttosto che esserne sedotti e diventano partecipanti attivi anziché osservatori passivi”  

 

Un “teatro senza spettatori”, non è, ovviamente, un edificio completamente vuoto.

Si tratta piuttosto di un nuovo modo di pensare la spettatorialità, che non si ridurrà più soltanto alla visione passiva della rappresentazione, ma all’apertura di nuovi orizzonti di partecipazione attiva.   

 

Come dovrebbe reagire allora uno spettatore di fronte a uno spettacolo?

 

Nella critica novecentesca, due visioni apparentemente inconciliabili hanno provato a rispondere: la prima, teorizzata da Bertolt Brecht, pone lo spettatore in una posizione di distacco critico rispetto a ciò che è messo in scena.

 

Brecht pensa lo spettatore come uno scienziato che esamina con libertà e rigore interpretativo ciò a cui assiste, trasformando la visione passiva in un’analisi critica.

Da questa presa di distanza nasce il vero cambiamento: lo spettatore non è più travolto passivamente da ciò a cui assiste, ma si ritrova nella posizione di costruire un proprio pensiero da mettere in atto nella vita quotidiana. 

 

 

[Il buon Bertolt Brecht. Non si può dire non avesse stile!]

 

All’estremo opposto si colloca il pensiero di Antonin Artaud.

 

Tutta la distanza che lo spettatore deve conquistare per Brecht, per Artaud deve dissolversi del tutto: un teatro in cui “lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda”.

 

Egli dovrà essere coinvolto, “contagiato”, come da una malattia.

 

Dovrà immergersi nella scena, partecipare emotivamente, catarticamente, e liberarsi da tutti i messaggi preesistenti, vivendo pienamente l’esperienza teatrale e passando da oggetto passivo a soggetto attivo.

 

“Una crescita di coscienza operata collettivamente, e con ciò un evento reale, che si radica immediatamente nella vita concreta della comunità”

 

 

[Antonin Artaud. Qualcuno forse l'ha riconosciuto: ha avuto una piccola parte ne La passione di Giovanna d'Arco di C.T. Dreyer]

 

Secondo Rancière, queste due differenti tipologie di analisi portano a un ripensamento radicale dell’essere spettatore.

 

Ciò che accomuna due visioni così inconciliabili è il passaggio netto da una situazione di mera passività a una di piena attività.

 

Ciò che è davvero rivoluzionario, nel teatro, è dunque la presa di consapevolezza da parte dello spettatore, che ha il compito di accogliere e accettare la sua condizione e non limitarsi a ricercare uno scopo o un messaggio fine a se stesso in ciò a cui assiste, ma di prendere atto al cambiamento che opera in lui ogni volta che diviene davvero spettatore.   

In questo senso, lo spettatore si "emancipa", abbandona il ruolo limitato di semplice “ricettore” di emozioni o di “interpretatore” di messaggi e si porta a un livello ulteriore:

“Egli compone la propria poesia con gli elementi della poesia davanti ai suoi occhi.

Partecipa alla performance rimodellandola a modo suo.”  

 

È incredibile come questa rivoluzionaria definizione di Rancière possa essere applicata al Cinema, una forma d’arte che ha sempre assunto una concezione estremamente passiva, dove il pubblico si siede, immobile, e si lascia travolgere dalle immagini, dai suoni e dalle sensazioni, oppure si limita a ricercare il significato che, secondo lui, l’autore voleva trasmettere al suo pubblico.

 

In realtà, come i grandi registi spesso ci ricordano, il ruolo dello spettatore, se identificato nella propria coscienza, può essere ben diverso.

 

Ogni singola inquadratura, ogni oggetto catturato dalla macchina da presa, ogni suono, ogni sguardo, ogni colore e ogni sensazione può attivare la nostra mente in modo diverso, riportandoci a un ricordo del passato, a una persona a noi cara, a un momento importante della nostra vita, a una riflessione o a una serie di pensieri che si autoalimentano. 

 

 

 

 

Siamo stati abituati, fin da piccoli, a scuola, a ricercare i significati delle opere d’arte, come se fossero dei puzzle da ricomporre a seconda di un linguaggio interpretativo che voleva portarci a capire il pensiero dell’autore, a cosa volesse dirci.

 

Così, quell’esatta combinazione di parole richiama un contrasto emotivo che stava vivendo il poeta, o l’uso del rosso era un simbolo del sangue che aveva traumatizzato il pittore durante una scena di violenza domestica.

 

Anche se queste cose fossero vere, perché oggi, durante la visione di un film, dobbiamo preoccuparcene?

Perché la prima cosa che si chiede a un amico dopo essere usciti dal cinema insieme è “come l’hai interpretato?”

 

Ho notato, negli ultimi mesi, come il mio modo di vedere un film sia profondamente cambiato da quando ho lasciato spazio a una nuova idea del mio ruolo di spettatore.

 

Tutto è partito da David Lynch, che mi ha fatto dono di un regalo bellissimo: mi ha reso cosciente della mia emancipazione, riuscendo a vivere attivamente ciò che prima mi limitavo a guardare passivamente.

 

Con la terza stagione di Twin Peaks, ho smesso di ricostruire i film come se fossero dei gialli di Agatha Christie e ho iniziato a viverli, facendo viaggiare la mente seguendo le pure sensazioni che automaticamente il mio cervello generava di fronte ai colori e le forme che vedevo sullo schermo e ai suoni che sentivo.

 

In questo modo mi sono sentito estremamente più libero nella mia visione, che si è allontanata molto da quella che avevo e si è posta in mezzo tra Brecht e Artaud, immergendomi nello schermo e partecipando come autore al film, adattando ciò che stavo vedendo alla mia vita.

 

L’importanza di “capire” un film mi è sembrata sempre meno rilevante da allora. 

 

 

[Cosa vorrà dire questa foto? Quali possono essere i suoi significati reconditi? In che modo si collega all'articolo che sto scrivendo? Non lo so, ma è bella]

 

Così mi sono emancipato dalla mia condizione di passività, da quell’atteggiamento da critico da quattro soldi che doveva necessariamente trovare significati logici e razionalmente spiegabili in quello che stavo vedendo.

 

Da “come hai interpretato questa scena” a “come hai vissuto questa scena”.  

 

“Se ricerchi il significato, ti perdi tutto ciò che accade”
(Andrej Tarkovskij) 

 

 

[Andrej Tarkovskij, un altro che proprio non voleva saperne di spiegare i suoi film]

 

Non serve spiegare che questa è solo la mia visione nei confronti del ruolo dello spettatore di fronte a un film (e, se vogliamo, a qualsiasi forma d’arte).

 

Non voglio insegnarvi come guardare un film, prima di tutto perché non esistono regole (se non quelle della civile convivenza in sala), secondo perché non mi sentirei in grado di farlo anche se esistessero.

 

Se volete continuare a ragionare in termini di “interpretare il significato”, siete sempre liberi.

Spero tuttavia che questi pensieri vi abbiano aiutato a riflettere un po’ di più sul vostro rapporto con i film che guardate.

 

Credo che, in qualsiasi contesto, provare a farsi delle domande sul proprio ruolo nel rapporto con un aspetto della realtà sia molto importante.

Nell’arte poi, questa cosa va ancora oltre.

 

Ma qui si finirebbe troppo sul filosofico.

 

Preferisco lasciar parlare un bel film, adesso.

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7 commenti

Simone Colistra

4 anni fa

Ti ringrazio davvero. Sì, condivido molto quello che hai detto alla fine. Per me il "ti è piaciuto" rimane una domanda molto importante per vivere un film come comunità di spettatori. Adoro parlare di ciò che ho sentito con i miei amici, o anche con semplici sconosciuti in sala. Non so quale sia il vero messaggio, ma sicuramente ne avrai tratto riflessioni interessanti e mi fa molto piacere!

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Giulia Quercia

4 anni fa

Esattamente, la penso proprio cosí. L’importante è essere informati. Infatti credo ci sia una differenza tra i prodotti originali Netflix e quelli che escono in sala. Film originali Netflix non credo siano concepiti per la sala, penso piuttosto che siano costruiti al fine di risultare quanto più accattivanti possibile, con le dovute eccezioni.

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Simone Colistra

4 anni fa

Ripeto ancora, non c'è nulla di sbagliato in questo. Il mio pensiero nell'articolo è però quello di almeno provare a riflettere su come ci stiamo rapportando a un'opera d'arte. Soprattutto se, come nel tuo caso, c'è una grande passione!

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Mike

4 anni fa

d'accordissimo sul discorso della musica! Molto spesso mi accorgo anche io di non star veramente ascoltando una canzone! Per fortuna il mio rapporto col cinema è completamente diverso, ma principalmente perché la passione è di gran lunga maggiore!

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Simone Colistra

4 anni fa

Bello vedere quanti siamo! Lynch è stato un vero punto di svolta nel mio rapporto con il Cinema. E non solo per me.

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Simone Colistra

4 anni fa

Questo è un argomento spinoso e se ne è già parlato tanto. C'è ancora chi compra e ascolta vinili perché vuole godersi la musica come è stata concepita, nella sua massima qualità, approfondendo gli album con diversi ascolti prima di passare al successivo, e senza fare nient'altro.
iTunes, YouTube e ora Spotify hanno reso tutto più immediato, passivo. Ascolti musica in auto, sui mezzi, mentre cammini, mentre studi. Sempre di meno ascolti per ascoltare, e sempre in una qualità inferiore. 
Ecco, al cinema sta accadendo esattamente questo. Credo che non ci sia nulla di sbagliato nel vedere un film su Netflix. L'importante è essere consapevoli che non stai vedendo quel prodotto come è stato studiato e concepito, cioè per il grande schermo. Così è ascoltare un disco dei Beatles in digitale, per molti una bestemmia. Almeno, però, lo sappiamo!

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Simone Colistra

4 anni fa

E se uno guardasse un film in un tablet prestando estrema attenzione e godendosi ogni secondo senza distrarsi sarebbe comunque meno spettatore di uno al cinema che lo guarda distrattamente, pensando a cosa succede nella sua vita o addirittura dormendo? 
Sono d'accordo, in principio, sull'importanza e il rispetto del formato e dei mezzi, ma non basta.

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