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Scene al microscopio: Le Iene - Mr Orange e la storia del cesso

Una scena in particolare, analizzata nel dettaglio da Mattia Corselli

Con Le Iene, nel 1992, Quentin Tarantino fa il suo esordio con il botto.

 

Se non a livello di botteghino - dove il film, di un regista esordiente, ebbe una distribuzione nelle sale limitata, riscuotendo poi invece elevate vendite nel mercato home video - l’opera prima del nativo di Knoxville riscosse da subito un successo di critica e un apprezzamento generale nei grandi festival dove venne presentato.

 

 

 

Dal Sundance, il tempio del cinema indipendente in cui Le Iene si inscrivono, fino a Cannes dove venne proiettato fuori concorso, con un’apparizione del cast con indosso gli iconici completi neri del film che è rimasta nella storia della Croisette.

 

Del film in sé ci sarebbero ovviamente milioni di cose da dire, da analizzare, su cui potersi soffermare per ore a discuterne, ma in questa rubrica ci limiteremo a parlare di una singola scena per film.

 

Volendo farne però un piccolo e veloce elenco, sicuramente incompleto, possiamo citare in ordine sparso i dialoghi fulminanti, belli come mai nessuno prima, che contraddistingueranno l’intera carriera del Quentin Tarantino sceneggiatore.

 

E poi i personaggi, questa fantastica accozzaglia di rapinatori vestiti in modo super cool, con quei completi neri e i RayBan, i cui nomi in codice, per mantenere il più possibile l’anonimato anche tra loro stessi, corrispondono a quelli dei diversi colori. 

 

 



E ancora la stupenda colonna sonora, che sto ascoltando in loop mentre scrivo questo pezzo, per lo più introdotta come pezzi passati dalla radio K-Billy con il Super Sound anni ’70, altra geniale trovata.

 

E poi ovviamente la costruzione narrativa di cui, più che la narrazione non lineare del racconto, mi piace sottolineare la particolarità di un film che, come detto poc’anzi, racconta la storia di una rapina senza mai mostrare però nessun immagine della stessa.

 

Noi vediamo ciò che avviene prima della rapina - dalla sua ideazione alla selezione dei componenti del gruppo fino alla definizione del piano - e quello che avviene dopo e quindi come si arriva al colpo in banca e quelli che ne sono gli esiti e le conseguenze.

Ma mai la rapina.

 

A mio parere questo aspetto è perfettamente in linea con tutto il cinema di Quentin Tarantino

 

 



Ritengo infatti che il suo cinema e più nello specifico le sue storie e i capitoli in cui queste sono il più delle volte suddivise girino sempre intorno a delle situazioni, a degli eventi-fatti; ma il regista americano raramente si sofferma su queste situazioni in quanto tali, spesso anzi queste si risolvono in un lampo - si pensi alla scena dello scantinato in Bastardi senza Gloria, dove in una sequenza che dura più di mezz’ora l’evento a cui questa conduce si risolve in una sparatoria di pochi secondi.

 

Un’eccezione in senso contrario può invece considerarsi la lapdance di Death Proof a cui, nella versione europea viene lasciato ampio spazio.

 

Quentin Tarantino, a mio parere, si focalizza invece su tali fatti come risultati di qualcosa o come causa di qualcos’altro. 

 

 



Il suo Cinema mostra e racconta dei processi: come si è arrivati ad un certo fatto?

 

Che incastro di altri fatti e azioni/reazioni umane hanno portato a quello specifico fatto?

E all’opposto, il verificarsi di determinati episodi, spesso nel suo cinema sopra le righe (“Ho preso in faccia Marvin!”), che conseguenze può avere?

 

Quali possono essere gli altri fatti e le altre reazioni/controreazioni umane che può scatenare?

 

Questo approccio, nella carriera di Tarantino, trova immediatamente il suo apice nel suo film d’esordio. 

Le Iene infatti è un film che parla di una rapina ma non della rapina.

Racconta in realtà ciò che accade attorno ad essa.  

 

Ma mi sono dilungato troppo!

Chiedo venia, questa è la prima puntata e spero per questo siate indulgenti con me.

 

È arrivato il momento di entrare nel vivo della rubrica.

 

 

 

Quale scena de Le Iene raccontare?

 

Tra le tante che si distinguono, di cui molte diventate iconiche, quale selezionare?

Per questo film devo dire che la scelta è stata automatica perché in realtà l’idea stessa di questa rubrica è nata da quella di voler parlare proprio della sequenza che ho selezionato per Le Iene.

 

In questo film di scene topiche ce ne sono tante, tra cui sicuramente spiccano quella della tortura del poliziotto da parte del magnetico Mr. Blonde/Michael Madsen e la scena di apertura, il dialogo all’interno di una tavola calda tra un gruppo di uomini, che ancora non sappiamo essere rapinatori, che dissertano sul più e sul meno chiacchierando in ordine sparso di musica, della fava grossa di Madonna, della convenzione sociale della mancia (“...il più piccolo violino del mondo”) in un cameratesco dialogo tanto divertente quanto realistico e per questo oltre ogni misura affascinante. 

 

 



C’è però una scena che non vedo citata quasi mai, su cui personalmente non ho visto nessuno porci veramente attenzione e che invece ritengo essere, a livello di sceneggiatura prima e di montaggio poi, la cosa più particolare dell’intero film.

 

Sto parlando della sequenza chiamata “La storia del cesso”.

 

La Scena (minuto 1:06:26).

 

Abbiamo appena capito che Mr. Orange, inzuppato di sangue e moribondo, è l’infiltrato nella banda.

Ha infatti ucciso il torturatore Mr. Blonde salvando, solo momentaneamente, il povero agente Marvin ormai sfregiato e con il dubbio piacere di avere una cosa in comune con Van Gogh. 

 

 



Da qui si apre la parte del film dedicata a Mr. Orange.

 

Siamo in un altro diner, le cui sedute e tavolini sono quelli tipici dei film americani, che ritroveremo nelle scene con cui si apre e si chiude il successivo Pulp Fiction.

 

Mr. Orange è con un collega, Holdaway, che presumibilmente è anche un suo superiore e certamente è più esperto di lui.

Il personaggio di Tim Roth spiega al suo interlocutore che l’obbiettivo è stato raggiunto:

“Sono dentro, gliel’ho messo al culo”.

 

È riuscito ad infiltrarsi nel prossimo colpo che Joe sta organizzando.

A questo punto, dopo aver fornito al collega qualche altra spiegazione e raccontato le informazioni raccolte su Mr. White, con un lento zoom l’inquadratura si restringe sul primo piano di Holdaway che, abbozzando un sorriso compiaciuto, chiede a Mr. Orange:

“Userai la storia del cesso?”.

 

Comincia così, con uno stacco di montaggio, la sequenza che ci interessa.

 

 



Esterno, giorno.

 

Siamo sul tetto di un palazzo.

Tim Roth tiene in mano dei fogli. La sua prima battuta collega immediatamente questa scena con la precedente, come se ne fosse il naturale seguito.

 

“Cosa è la Storia del cesso?”, chiede infatti Mr. Orange ad Holdaway.

Parte qui uno dei tanti fantastici dialoghi che hanno reso celebre Quentin Tarantino.

 

Holdaway spiega ad Orange che un poliziotto infiltrato deve essere naturale come un attore, e non un attore qualsiasi ma un grande attore, “come Marlon Brando”, pena fare una brutta fine.

A tal proposito, gli ha scritto un “aneddoto divertente sul traffico di droga” da usare per fare conversazione e colpo su Joe e gli altri ragazzi della banda. 

 

 



Holdaway spiega ad un Orange non proprio entusiasta di dover imparare tutta quella roba (“saranno più di quattro pagine di stronzate”) una lezione che chiunque si possa trovare nella posizione di dover inventare una scusa ai genitori, a un professore, al capo o al partner dovrebbe tenere bene a mente: ciò che importa sono i dettagli; memorizzati quelli il resto si può anche inventarlo:

“I dettagli rendono la storia credibile”.

 

Con uno monologo spassosissimo, Holdaway chiarisce nel dettaglio il concetto ad Orange:

 

“Questa particolare storia si svolge in un cesso pubblico, perciò devi sapere tutto di quel cesso pubblico. Devi sapere se c’erano gli asciugami di carta oppure il getto di aria calda. Devi sapere se i pisciatoi avevano le porte oppure no.
Devi sapere se c’era il sapone liquido o quella schifosissima polvere rosa che si usava al liceo. Ricordi?

 

Devi sapere se c’era o no l’acqua calda; se c’era puzza.

Se qualche pezzo di stronzo schifoso bastardo figlio di puttana aveva schizzato di diarrea una delle tazze. Devi sapere tutto quello che riguarda quel cesso! Capito?”.

 

E infine, conclude con i “compiti a casa”.

 

Affinché Orange possa imparare e fare sua la storia c’è uno e un solo metodo: “ripetere, ripetere, ripetere e ripetere”

 

 



Con lo stacco successivo inizia una originale costruzione narrativa e di montaggio, che potremmo definire una sorta di scatola cinese al contrario, che è ciò che a mio avviso rende questa sequenza davvero geniale.

 

Da questo momento infatti ci viene raccontato l’aneddoto che Holdaway ha scritto per Orange, ma ciò avviene attraverso il susseguirsi di scene che rappresentano l’evoluzione dell’assimilazione di tale aneddoto da parte di Orange fino a quando poi lo stesso lo racconta a Joe e agli altri.

 

Nella prima di queste scene ci troviamo nel soggiorno dell’appartamento del poliziotto.

Con un'inquadratura fissa sulla finestra sentiamo la voce di Tim Roth fuori campo, prima che l’attore appaia dal lato destro dello schermo.

 

Mentre passeggia avanti e indietro, lo sentiamo e vediamo mentre cerca, con qualche difficoltà, di memorizzare l’aneddoto.

È stentato, ha appena cominciato a ripeterlo e tra balbettamenti e imprecazioni dovuti alle dimenticanze ha ancora bisogno di consultare e leggere i fogli. 

 

 



Dopo che Tim Roth esce a sinistra dell’inquadratura, senza soluzione di continuità nel racconto della storiella, il montaggio stacca sulla scena successiva.

 

Tim Roth rientra dal lato dello schermo da cui era appena uscito, dando un ulteriore senso di continuità con l’inquadratura precedente.

 

Ma siamo in un luogo diverso.

Siamo in pieno contesto urbano americano. 

 

 



Dietro il poliziotto, che in piedi sta ora ripetendo il racconto ad un Holdaway seduto davanti a lui, vi è un vecchio muro interamente ricoperto di graffiti al punto che, se si sostituisse l’audio del film con una canzone rap, sembrerebbe di guardare un video hip-hop anni ’90.

 

Ora Orange inizia a padroneggiare la storia. 

 

Lo notiamo non solo dal fatto che non ha più esitazioni o vuoti di memoria ma soprattutto perché ora non sta più semplicemente ripetendo.

 

Sta interpretando, con tanto di gestualità e commenti personali annessi.   

 

 

 

 

Un nuovo stacco di montaggio ci trasporta all’interno di un bar.

 

Ancora una volta il racconto della storia prosegue in continuità da dove era terminato nella scena precedente. Questa volta però Mr. Orange, in piedi, la sta raccontando a Joe, Eddie il Bello e Mr. White, seduti ad un tavolino.

 

Una carrellata circolare attorno al tavolo porta lentamente lo sguardo della camera da dietro i suoi uditori fino al primo piano laterale di Tim Roth.

 

Breve soggettiva sui tre compagni di uscita mentre lo ascoltano interessati per poi passare fino alla fine della scena a una ripresa a mezzo busto di Mr. Orange, leggermente inclinata dal basso a guardare verso l’alto, che prosegue nel racconto.

Unici intermezzi, due veloci inquadrature di Mr. White prima ed Eddie il Bello poi che gli pongono due domande.

 

Domande che richiamano i saggi avvertimenti dati da Holdaway sul tetto del palazzo: è proprio per superare indenni questo tipo di ostacoli che bisogna prepararsi bene e memorizzare i dettagli e i piccoli particolari. 

 

 



E Mr. Orange dimostra di essersi preparato bene le possibili risposte: a Mr. White spiega che il fratello della tipa che aiutava nella storia era finito al fresco per “un sacco di multe non pagate. L’hanno fermato ad un controllo e vista la situazione pendente lo hanno portato dentro” e ad Eddie il Bello replica invece che sono andati alla stazione con tutta l’erba addosso perché “quello la voleva subito, non chiedermi perché”.

 

Il poliziotto infiltrato ha fatto tesoro degli insegnamenti del collega riuscendo a fare propria quella storia in modo da essere pienamente credibile dinanzi ai tre criminali che lo ascoltano. 

 

Giunti al punto in cui, nella narrazione dell’aneddoto, Orange entrava in un bagno pubblico per espletare i suoi bisogni, il montaggio e la costruzione di questa scena assurgono ad un nuovo livello di complessità e originalità.

 

E infatti, appena il personaggio di Tim Roth arriva a quel punto del racconto, uno stacco di montaggio ci porta direttamente all’interno di quel bagno dove, appena entrato, Mr. Orange rimane paralizzato nel trovarsi davanti quattro “sbirri” con un cane poliziotto.

 

Qui l’azione si interrompe momentaneamente, come se fosse stata messa in pausa.  

 

 



Mentre tutto attorno a lui è bloccato, sospeso, la camera ruota attorno a Tim Roth che racconta la paura e le emozioni che lo avevano inondato in quella situazione, in realtà inventata.

 

Con un altro salto in avanti in questo processo narrativo si passa, sempre con continuità, all'effettiva messa in scena della parte finale della storia raccontata dall’infiltrato.

 

Come se premendo play fosse stata tolta la pausa, l’azione dentro il bagno riprende.

Orange espleta i suoi bisogni fisiologici mentre la macchina da presa indugia sugli sbirri che si raccontano storielle accadute in servizio; un aneddoto dentro un aneddoto.

 

Il tutto finché il racconto del nostro non termina con lo stesso che, non prima di essersi lavato le mani, ostentando tranquillità e naturalezza davanti ai poliziotti della sua storia, non esce dal bagno. 

 

 



A questo punto, tornando per un brevissimo ultimo spezzone all’interno del bar dove Mr. Orange ha raccontato l’aneddoto, si chiude questa fantastica sequenza, con l’approvazione di Joe che conclude con un’altra delle tante battute indimenticabili partorite da Tarantino:

 

“Hai saputo affrontare la situazione.
Hai riempito di merda i pantaloni e ci hai fatto il bagno dentro”.

 

Mr. Orange ha fatto colpo!

 

Si conclude così questa virtuosistica sequenza, che attesta sin dalla sua prima opera la grandezza e l’originalità del Quentin Tarantino sceneggiatore e uomo di cinema più in generale. 

 

 

 

Ma vi è un ultimo aspetto che vale la pena sottolineare.

 

Questa sequenza si lega ad uno dei temi ricorrenti in tutta la filmografia di Quentin Tarantino, quella della recitazione.

 

Come più volte sottolineato dallo stesso regista, in ogni suo film c’è qualche personaggio che, il più delle volte per salvarsi la pelle, interpreta una parte, un ruolo.

Recita. 

 

 



Gli esempi più eclatanti in questo senso sono sicuramente The Hateful Eight, dove tutti i personaggi interpretano una parte facendo finta di essere qualcuno che non sono, e Bastardi senza Gloria, dove si spazia da Shosanna, che riuscita a sfuggire allo sterminio della sua famiglia vive sotto falso nome, ai tre bastardi, che nella scena dello scantinato si vestono da ufficiali tedeschi, per continuare con Bridget Von Hammersmark, attrice tedesca che lavora come spia inglese, e ancora il tenente Aldo Raine e gli altri due bastardi che si introducono alla proiezione nazista spacciandosi, invero con scarso successo, per uomini di cinema italiani.

 

Per concludere, allora, il pensiero non può che andare a quando in Pulp Fiction, oggetto del successivo episodio di questa rubrica, ad un certo punto Jules, rivolgendosi a Vincent, dirà: “Let’s get into character”.

Entriamo nei personaggi.

 

Proprio come Mr. Orange.

 

[Mattia Corselli]

 

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