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Copia Originale - Recensione: una nostalgica e sincera biografia

L'analisi di una nostalgica e sincera biografia cinematografica 

Cosa succede quando un film non solo racconta degli eventi realmente accaduti, ma ce li narra attraverso la sua protagonista, legandoli a esperienze emotive e personali inscindibili?

 

Un film basato su un’autobiografia - entro certi limiti - ci impedisce un giusto distacco da quanto sia accaduto e ci costringe a guardare la storia a partire da un determinato punto di vista e, sebbene questo non ci impedisca di offrire giudizi morali, di fatto ci impone un taglio narrativo particolareggiato con tutte le sue numerose sfumature.

 

 

 

 

Questa è appunto la posizione in cui si pone Copia Originale, un lungometraggio che rende l’individualità del proprio sguardo narrativo il suo punto di forza. 

 

La prima preponderante personalizzazione del contesto arriva quando il film individua, attraverso poche e semplici scene, il proprio target.

 

Copia Originale è un’opera che parla agli outsider, a tutti coloro i quali per un motivo o per un altro hanno immaginato o anche lontanamente percepito come ci si senta a vivere ai margini della società.

Ciò che permette l’empatia con la protagonista è proprio la consapevolezza che non si tratti di una storia inventata volta a trovare simpatie tra il pubblico, quanto di fatti realmente accaduti, la parentesi di vita bizzarra di una donna realmente esistita.

Una storia che vale la pena di raccontare.

 

 

 

 

Lee Israel (interpretata da un'intensa Melissa McCarthy) è una scrittrice che ha coronato nella dimensione delle biografie l’intima arte del comprendere gli altri.

 

La sua figura storica ci viene descritta nel film come quella di una persona cupa, chiusa e taciturna, che sembra vivere in un mondo innervato da quella inesorabile sindrome dell’epoca dorata che coglie ogni spirito romantico, dalla nostalgia per un mondo che non esiste più, che non può tornare e che nonostante tutto ha lasciato in lei un segno.

 

Lee è una donna che vive con malumore i tempi che cambiano e, con essi, un mercato editoriale che si è ormai plasmato sotto i colpi delle idee globali di consumo.

Ci troviamo nel pieno degli anni '90 e l’editoria si sta sempre di più aggiustando ai ritmi produttivi di un ampio mercato.

 

Ora più che mai la cultura deve trovare favore nel pubblico per non soccombere, deve adattarsi alla medialità delle nuove tecnologie, in uno mondo che va avanti e si trasforma agli occhi della pletora di acquirenti moderni.

La letteratura diventa sempre più restia a prodotti di nicchia (come le biografie dello showbiz di cui si occupa la protagonista) se essi non vengono allo stesso tempo accompagnati dall’accattivante immagine pubblica di un autore-celebrità.

 

Non c’è quasi più spazio per piccole personalità, ormai scalzate da prorompenti intrattenitori.

 

In questo nuovo disegno Lee Israel si riscopre, suo malgrado, prodotto fallimentare di una trasformazione, di un adattamento sociale non riuscito e lascia sprofondare il suo lavoro, i suoi nuovi progetti, i suoi vecchi libri sotto il peso dell’anonimato.

Si innesca un circolo vizioso che vede l’autrice diventare obsoleta come il genere che ha scelto di raccontare, sul punto di svanire alle soglie della modernità, esattamente come le grandi ma ormai quasi dimenticate personalità che affollano i suoi scritti.

 

Il sintomo della sua progressiva decadenza (non solo artistica ma spirituale) si manifesta tramite una forte misantropia; una routine che raccoglie tutti i segni di una marginalizzazione sociale, di una chiusura in se stessi, un blocco dello scrittore che sembra determinare la fine annunciata del suo percorso artistico.

 

 

 

 

Lee finisce per incarnare in poche battute il più classico dei cliché: quello di una donna molto sola che trova nella compagnia del proprio gatto l’unica presenza tollerabile.

 

Un’esclusività reciproca abbracciata inconsciamente (e quasi inevitabilmente) perché il gatto sembra ormai l’unico essere vivente che l’abbia accettata nei suoi più intimi sentimenti.

Il gatto diventerà paradossalmente l’involontario motore scatenante della vicenda e, a conclusione, il decisivo peso di riequilibrio psicologico della protagonista.

 

La gatta ormai anziana di Lee, infatti, necessita di cure, cure costose, spese che si sommano ad una situazione di degenza ingigantita da mesi e apparentemente senza via d’uscita.

 

L’unica soluzione alla mancanza di mezzi economici, alla incapacità creativa e all’esclusione sociale trova realizzazione in un necessario distacco da un oggetto di valore, l’ultima fonte economica a cui attingere prima di iniziare davvero a toccare il fondo.

 

Lee decide quindi di vendere una lettera personale inviatale molti anni prima da Katharine Hepburn.  

 

Tramite questo disperato e non programmato espediente, scopre che le lettere dei personaggi iconici ormai scomparsi hanno un valore considerevole, un mercato di cui non avrebbe mai immaginato l’estensione. 

 

 



I collezionisti sembrano riconoscere ciò che lei ha sempre saputo: che le personalità del passato racchiudono al loro interno pezzi inestimabili di un mondo che non esiste.

 

Si circonda del fascino di personaggi che al contatto col pubblico risultavano più accattivanti di lei, ma che mancavano forse di quel cinico e sarcastico piglio alla vita che Lee ha sempre avuto dentro di sé e che è stato acuito dalla parabolica discesa della sua carriera.

 

Nella rielaborazione di lettere storiche, nella contraffazione di veri e propri falsi, Lee ritrova una dimensione ispiratrice che va man mano colmando quel vuoto espressivo che fino a quel momento le aveva reso inviso il suo editore e il resto degli scrittori d’élite.

 

Sì perché le lettere originali da vendere ben presto terminano, quelle da ritoccare con qualche veloce e succoso post scriptum che possa aumentarne il valore si esauriscono e non resta che ingegnarsi e iniziare a scrivere false corrispondenze di sana pianta.

 

Inizia così una lunga marcia criminale, una vera e propria truffa che culmina nella ricostruzione di una realtà epistolare mai esistita, tramite un’organizzata rete di macchine da scrivere d’epoca, pagine ingiallite, studi psicologici più o meno approfonditi su quelle celebrità a cui l’autrice aveva dedicato tutta la sua vita, fino a farseli entrare sotto la pelle.

 

Lee infatti non fa esclusivamente uso della fama altrui per uscire dal proprio baratro psico-socio-economico, ma si fa carico di un lavoro introspettivo notevole grazie a quello spirito di immedesimazione che rende i suoi falsi talmente realistici da aver ingannato fior fiori di esperti per molti anni a seguire, più di quanto un autentico falsario avrebbe mai potuto realizzare con gli stessi mezzi.

 

I costumi che indossa quando si cala nei panni dei suoi protagonisti lasciano libero sfogo a quel mondo interiorizzato, che è per lei ormai da anni più che una semplice fantasia quanto un vero e proprio modo di vivere. 

 

Lee colma con quei falsi i propri buchi emotivi, ritrova la propria autostima, ritrova se stessa, il suo senso dell’umorismo, la sua mordace ironia nel corso di ogni stesura.

 

C’è all’interno di questo film un dettaglio che potrebbe far storcere il naso a molti puristi della morale: cioè il perché questa storia venga ricordata in questi termini.

 

Perché quando osserviamo Lee Israel, il suo reietto amico John Hock e tutto il sistema che li ha ridotti ai margini della società letteraria e artistica, riconosciamo quanto profonda e sbagliata sia la truffa, eppure non possiamo far altro che accettare come dati di fatti i motivi che hanno spinto questa donna a reinventare le proprie capacità tramite la reiterazione di un reato.

 

 



Qui risiede la svolta interpretativa del film: non possiamo sottrarci dall’autoindulgenza di Lee Israel e la narrazione non può che essere moralmente “macchiata” e giustificatrice.

 

Sappiamo che questa donna ha scelto la strada peggiore per rimettere se stessa sui binari della sopravvivenza; sappiamo che per molti versi questo escamotage l’ha aiutata a recuperare parte delle sue pendenze, e vediamo che non si è limitata a utilizzare i mezzi illeciti per un breve intervallo di tempo volto esclusivamente a colmare le lacune economiche per poi ritornare sui binari della legalità.

 

Lee Israel indulge al proprio crimine e trova nella contraffazione la strada da percorrere, con esiti, ovviamente, tutt’altro che positivi.

Eppure la scrittrice comprende con estrema lucidità che quella che sembrava la soluzione a tutti i suoi mali non le impedisce di rimanere in fondo una persona estremamente sola.

 

Il reato rappresenta una soluzione temporanea ad un problema che ha radici interiori ben più profonde.

 

L’autrice non si pente di aver aggirato il sistema perché la sua ingegnosità le ha permesso di riscoprire il proprio equilibrio e per questo motivo non rimpiange la sua mancanza di etica.

L’unico rimorso è, semmai, quello di essere stata scoperta e di aver perso così il suo ritrovato strumento di riabilitazione artistica.

 

Ma nonostante l’autocompiacimento della protagonista, non possiamo far altro che provare empatia per le sue tragedie personali e, in parte, non possiamo che vivere con ansia e compartecipazione la sua discesa nell’illegalità.

 

Il quadro che esce dal film di Marielle Heller è una descrizione umana di una inadeguatezza espressiva.

Sotto questo punto di vista la narrazione è invidiabile, le immagini raccontano una dimensione personale con grazia e senza accenti moralizzatori.

 

Lo spettatore deve accettare la storia senza aspettarsi un beffardo lieto fine o un miracoloso ravvedimento psicologico da parte della protagonista dopo tante tristi e sconcertanti battaglie, perché quest’esperienza ha nelle crepe del suo personaggio principale il proprio punto focale.

 

Il lieto fine esiste nei limiti della complessità della vita di Lee Israel che, pur non essendo sfuggita alle questioni giudiziarie, ha posto finalmente se stessa al centro della sua nuova e più importante biografia, diventando per vie traverse la protagonista della sua vita.

 

Non esiste più nessuna maschera storica dietro cui nascondersi, nessuna personalità eclettica da abbracciare, nessun celarsi dietro i volti dei propri eroi, persone influenti, autorevoli ed amate.

 

Al centro del suo autentico best seller letterario c’è davvero una nuova anti-eroina piena di complessità.

 

 

 

 

Se lo si considera sotto questo punto di vista, Copia Originale è un film più che godibile.

 

Che non ha guizzi ma che ci consegna una storia in modo garbato, che strappa un sorriso e una sana riflessione, che coinvolge lo spettatore al punto giusto.

Ma il vero grande pregio del film non sta nella vicenda in sé, quanto nella assoluta capacità di mostrare la New York dei margini, la solitudine, la tristezza di un mondo in cui tutti esistono, pochi vivono davvero e moltissimi rimangono invisibili.

 

Una città in cui chiunque non sia più nei paraggi (socialmente o spazialmente) di fatto non esiste più. 

 

L’eclettico e frizzante personaggio di John Hock (interpretato da Richard E. Grant) parla di una propria conoscente “scomparsa” senza più ricordare se sia effettivamente morta o  se si sia semplicemente trasferita da qualche parte in campagna, perché di fatto in questa dimensione le due cose si equivalgono.

 

Lee Israel e il suo compagno di avventure nella loro marginalità vivono come se fossero spariti da pressoché qualsiasi forma di comunità, sono in fondo due morti a zonzo tra i bar della città che a malapena hanno un posto in cui dormire, che non trovano spazio per esprimersi davvero nella propria individualità e che quindi si lasciano trascinare senza nessun’agenda, vivendo con rassegnazione un giorno dopo l’altro. 

 

 



In questo senso se non un trionfo morale, Copia Originale ci offre un trionfo psicologico, quello di una persona che è riuscita, in seguito ad un’occasione ai limiti del credibile, a ritrovare la propria voce, a ritornare dal mondo dei morti e a raggiungerci qui, a quasi trent’anni di distanza per ricordarci della piccola traccia che la sua esistenza ha lasciato su questa terra.

 

E in questo ci dà forza di pensare che ogni fallimento non è mai davvero una fine e che esiste sempre un punto da cui è possibile ripartire, per quanto assurde possano essere le condizioni che vi stanno alla base.

 

Personalmente ho trovato l’ambientazione meravigliosa: i locali, quei bar dalla luce soffusa, il jazz, il blues di sottofondo, quel senso di fluttuazione ai margini delle strade che richiama non troppo velatamente sprazzi della New York di Woody Allen, quel punto di osservazione ideologico che ci costringe a guardare il mondo dal basso verso l’altro come se, lungo le strade, le persone comuni si mescolassero con un nulla impreciso, mentre tutto ciò che conta davvero si trova ai piani alti che non ci è dato conoscere.

 

L’uso dei colori, quei grigi, quei mattoni e quel senso di tristezza che ci infondono claustrofobia emotiva ci lasciano la sensazione di trovarci in un labirinto senza via d’uscita, pervasi da un senso di estraneità che travalica i confini di New York riportando alla mente l’universalità di certe paure.

 

Melissa McCarthy ha davvero meritato la candidatura come miglior attrice protagonista agli Oscar 2019 per la forza e la semplicità con cui è stata in grado di raccontare il suo personaggio; accompagnata da quel carismatico Richard E. Grand che a volte sembra aver semplicemente trasportato se stesso, senza nessuno sforzo, in una dimensione storica alterata.

Copia Originale è un film che decisamente merita la visione, fosse solo per scoprire quanto inaspettate possano essere le radici di una rinascita interiore.

 

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