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I Am Banksy: quando il cinema si interroga sull'arte

Intervista a Samantha Casella, la regista di I Am Banksy, corto sulla figura del misterioso artista britannico

Il mistero che avvolge la figura di Banksy si spinge ben oltre il perimetro ben delineato nel quale l'arte viene solitamente confinata a livello mediatico.

 

Che si tratti di decorare un muro al confine di territori in guerra, di compiere una delle sue incursioni all'interno dei più grandi musei al mondo o di distruggere una sua opera appena battuta all'asta per una cifra milionaria, Bansky riesce sempre a far arrivare chiari e forti i messaggi che intende intende lanciare.

 

È sempre in grado di fare notizia, sconvolgere, far parlare di sé, di toglierci certezze: la mancanza di un volto al quale associare le sue opere amplifica il tutto.

La completa assenza di punti di riferimento quando parliamo di lui si trasforma in una presenza tangibile.

 

 

[Girl with Balloon è l'ultima trovata di Banksy capace di generare scalpore: un'opera d'arte che si autodistrugge cambiando nome (ora viene chiamata Love is in the bin) un istante dopo esser stata battuta all'asta.]

 

 

Una figura del genere non poteva che attrarre magneticamente il mondo del cinema: tocca a un cortometraggio tutto italiano il duro compito di provare ad affrontare il tema della sua identità.

 

I Am Banksy vanta un cast di volti noti, attivi tanto del cinema quanto della TV nostrana, in cui spiccano i nomi di Marco Iannitello, Caterina Silva e Diego Verdegiglio e sta già facendo parlare molto di sé, soprattutto nei paesi anglofoni.

 

L'opera si è già guadagnata la partecipazione a ben due festival californiani: il Los Angeles Independent Film Festival, che si terrà in agosto, e il Golden State Film Festival, in programma dal 22 al 29 marzo.

 

Io l'ho guardato in anteprima per Cinefacts.it e ho avuto l'onore di intervistare la sua regista, Samantha Casella.

 

 

 

Il cortometraggio ruota interamente attorno alla domanda più spontanea che possa balenare nelle nostre menti quando pensiamo a questo sfuggente artista, ma su di essa è in grado di costruire un piccolo mondo.

 

Il corto non si limita a chiedersi "Chi è Banksy?" ma lascia che da questa domanda fluiscano narrazioni e teorie che sembrano divergere ma, in realtà, convergono verso un'unica direzione.

 

Ciò che il corto ci porta a pensare è che, in effetti, la vera domanda da porsi non sia quella più scontata, ma che in realtà ciascuno dovrebbe chiedersi

"E se Bansky fosse tutt'altro rispetto a ciò che pensiamo?".

 

 

["Do you really wanna know who Banksy is?"]

.

 

Samantha Casella è d'altronde abituata a fare le cose in modo del tutto inconvenzionale: dopo aver costruito una prima parte della sua filmografia su un cinema antinarrativo (vi basterebbe dare uno sguardo al suo canale Vimeo per rendervene conto), si è districata nei generi più disparati di regia, dal videoclip al documentario, e ha pubblicato una raccolta di racconti, Il talento del male, prima di concedersi una pausa dal cinema.

 

Ma non crediate che sia rimasta con le mani in mano: nel frattempo ha coltivato la sua passione per la scrittura collaborando con svariati siti in giro per il web, ha aperto un Blog e una pagina Facebook che si districano su qualsiasi tema a sfondo culturale, ha curato gli spazi social della nota tennista Svetlana Kuznetsova e ha eseguito lavori di graphic-video-editing per un colosso come Chanel.

 

Insomma, una figura con cui conversare non può che essere piacevole e intrigante.

E se andrete avanti con la lettura, ve ne accorgerete da soli.

 

JG: L'idea alla base di I Am Bansky è quella di condurre un'indagine su un artista di cui si sa pochissimo, partendo da una domanda apparentemente molto semplice: "Chi è Banksy?".

 

A partire da questa parte il viaggio del protagonista che ci conduce a un finale tutt'altro che scontato.

Anche alla luce dell'enorme portata dell'artista alla base della tua opera, quali sono "i mercati" di riferimento per questo corto?

 

Samantha Casella: "Appena terminata la produzione abbiamo sondato immediatamente il terreno in vari festival statunitensi e nel Regno Unito.

Negli Stati Uniti ci è andata benissimo fin qui: il corto è stato immediatamente selezionato dal Los Angeles Indipendent Film Festival e al Golden State Film Festival, che si terrà presso la mitica cornice del TCL Chinese Theatre di Hollywood Boulevard a Los Angeles.

 

Nel Regno Unito, invece, ci sta andando malissimo: da quello che mi è stato detto, I Am Banksy da quelle parti viene visto con una buona dose di diffidenza.

Vedono il corto come una sorta "di affronto" verso ciò che rappresenta Banksy per la loro cultura, quando l'intento è chiaramente tutt'altro che denigratorio.

 

 

[Il Chinese Theatre di Los Angeles. Che dire? Si sono viste cornici decisamente peggiori.]

 

 

JG: Tra l'altro al Los Angeles Indipendent Film Festival concorrerai anche per la miglior regia, non solo nella categoria "miglior corto straniero": mi confermi che è sempre un'enorme soddisfazione quando il frutto del tuo lavoro e del tuo studio viene riconosciuto da una giuria esterna?

 

SC: Assolutamente sì, sempre una grande soddisfazione.

Anche perché io per buonissima parte della mia vita artistica ho realizzato corti "sperimentali", quasi completamente privi di una trama e di una narrazione convenzionale.

 

Questo è stato solo il mio secondo lavoro più conforme agli standard narrativi tradizionali, ragione per cui è bello sentirsi dire che in effetti si vede che c'è la mia mano dietro.

Non me l'aspettavo ma in tanti dicono "si vede che la regia è tua".

 

Quindi ricevere una nomination per un lavoro così distante dalle mie abitudini all'interno di un festival in cui sono presenti anche produzioni con budget imponenti non può che essere bello.

Evidentemente piace quando un'opera porta una traccia riconoscibile dell'autore che c'è alle sue spalle.

 

 

JG: Beh, soprattutto nel finale si può riconoscere nella sua interezza la tua cifra stilistica, anche se messa al servizio di una storia ben strutturata: i contorni della realtà che diventano più sfumati, le atmosfere più surreali, il movimento di macchina che si fa più tangibile, i primi piani di un certo impatto, la costruzione dei quadri... 

 

SC: Sì, me lo dicono in molti: soprattutto il finale.

Il corto ha questa struttura tripartita per la quale dopo un inizio di natura quasi documentaristica si passa a un cuore dialogico per sfociare in un finale che è più sul mio stile.

 

Tra l'altro la location del finale è stata trovata quasi per caso, perchè in un primo momento avevo fatto dei sopralluoghi di giorno in quello stabile e non mi era minimamente venuto in mente che all'ultimo piano ci fossero dei lucernari che di notte ci avrebbero aiutati a costruire quella luce più surreale che la fa da padrone nelle sequenze finali.

Direi che è andata benissimo così.

Poi ovviamente abbiamo fatto tutti i ritocchi necessari affinché il finale collimasse al meglio con il resto del film: alcune scene le abbiamo realizzate e poi le abbiamo tagliate, ad esempio.

 

 

[Uno scatto direttamente dal set di I Am Banksy: Marco Iannitello e Caterina Silva, protagonisti del corto, impegnati nelle riprese di una delle ultime scene.]

 

 

JG: Questo mi conduce a una domanda che è sempre molto dolorosa per i tuoi colleghi.

Quanto è dura effettuare un taglio, scartare alcune scene che magari ti hanno richiesto fatica?

 

SC: Ah, per me non è doloroso.

Non appartengo alla categoria dei registi che si innamorano di una scena.

 

Per me tagliare parte del girato non è assolutamente traumatico, anche perché sono sempre aperta ai consigli delle persone con cui lavoro, non sono assolutamente una persona testarda da questo punto di vista.

Se qualcuno ha un'idea migliore della mia lo riconosco volentieri.

 

Forse proprio per questo non litigo mai con nessuno dei miei collaboratori, anzi in alcune occasioni, come avvenuto per I Am Bansky, ricevo da loro dei doni bellissimi: è il caso, ad esempio, del compositore Massimiliano Lazzaretti che in un solo incontro è riuscito a comprendere perfettamente ciò di cui avevo bisogno a livello di colonna sonora.

Davvero, è stato bravissimo.

 

 

JG: Questo è sicuramente un pregio non da poco.

Ma all'interno del tuo processo creativo ci sarà almeno un elemento che trovi più faticoso degli altri, visto che non sei solo regista dei tuoi film ma anche sceneggiatrice.

La scrittura, i rapporti con la troupe, la direzione degli attori: se non vuoi dirmi cosa trovi più faticoso puoi anche soffermarti su ciò che ti piace di più.

 

SC: Per me la scrittura è sempre più faticosa.

Adoro scrivere ma è un momento creativo che mi richiede enorme fatica. E poi ho bisogno di un confronto continuo, magari non necessariamente con un co-sceneggiatore ma con qualcuno che effettivamente possa sopportare tutti i miei dubbi e le mie domande, che mi dia consigli.

 

D'altro canto, però, io amo lavorare con gli attori.

Li adoro. Per me non esiste un attore che non sia bravo.

Per me siamo soltanto noi registi a essere meno bravi nel nostro lavoro quando non siamo in grado di trarre il meglio da un attore.

 

 

Questa è una cosa che ripeto sempre. Per me l'attore è una figura assolutamente sacra. 

 

 

JG: E con il resto delle figure professionali?

Riesci ad avere, per esempio, con i direttori della fotografia lo stesso genere di rapporto?

 

SC: Ecco, con i direttori della fotografia non è così facile.

Tanto per me quanto per loro. Perché loro si trovano immersi in una storia che non hanno creato personalmente ma sono costretti a coglierne l'essenza mettendoci qualcosa di personale.

 

Soprattutto nel corso dei miei primi lavori, che erano completamente antinarrativi, io mi rendevo conto di come i direttori della fotografia leggessero la sceneggiatura e arrivassero alla fine chiedendosi: "Ok ma di cosa stiamo parlando?".

Io, poi, tengo sempre a mente l'insegnamento di Giuseppe Ferlito - mio docente alla Scuola Immagina di Firenze e direttore della fotografia del mio primo corto - che proprio sul mio primo set mi disse:

"Imponiti! Anche su quelli che possono sembrarti compromessi inutili cerca di tenere una posizione, visto che anche per un dettaglio insignificante a volte un'intera opera può perdere la sua anima".

 

Magari è per questo che con i direttori della fotografia è un po' più difficile entrare pienamente in sintonia. 

 

 

[Un'altra bella immagine da I Am Bansky, che si avvale del lavoro di Christian Balducci come direttore della fotografia]

 

 

JG: Visto che hai citato più volte la prima parte della tua produzione, quella che tu definisci sperimentale, non posso esimermi dal chiederti qualcosa a riguardo delle tue prime opere.

I tuoi primi corti vivono molto di flussi di coscienza e si fondano sulla densità della scrittura, oltre che sull'impatto delle immagini: questo effettivamente li rende insoliti nel panorama italiano.

Eppure hanno raccolto un numero importante di premi.

 

SC: Beh, sì, paradossalmente il mio primo corto, Juliette, che parla di un prete che fa visita a una condannata a morte con l'intento di confessarla, è stato il più premiato di tutti: ha vinto 19 premi a cavallo tra il 2000 e il 2001.

Tra questi c'erano anche il Festival del Cinema Europeo e il Premio Europeo Massimo Troisi.

 

Anche Silenzi Interrotti, che per certi versi è il meno narrativo di tutti, ha vinto il premio per la miglior regia al Festival Massimo Troisi.

In effetti dopo un certo periodo dedicato alla sperimentazione ho anche sentito il bisogno di passare a opere più strutturate come I Am Bansky.

 

 

[Juliette, il primo lavoro di Samantha Casella.]

 

 

 

JG: Anche lo sguardo più distratto può notare all'interno della tua produzione un enorme numero di citazioni e riferimenti a registi leggendari come Ingmar Bergman e David Lynch.

Riferimenti che tu non nascondi nemmeno nella tua biografia all'interno del tuo blog personale nel quale fai un breve elenco di autori che ami e che, in qualche modo, diventano fonte di ispirazione per te.

 

Anche in I Am Banksy è possibile piuttosto agevolmente rintracciare citazioni di film molto noti.

Qual è il tuo rapporto con i tuoi modelli?

 

SC: Eh sì, l'elenco dei registi che mi hanno influenzata è lunghissimo e parte da Bergman che è il "colpevole" del mio innamoramento nei confronti della Settima Arte.

Quando scelgo di inserire una citazione nelle mie opere non lo faccio per omaggiare degli artisti così irraggiungibili.

Chi sarei io per farlo? Assolutamente nessuno.

 

Lo faccio per me, non so come spiegarlo.

Possiamo dire che è un modo di lasciare nella mia memoria un ricordo, una traccia: l'idea di essere passata attraverso certi modelli e attraverso le sensazioni che hanno generato in me.

Così magari li riguardo a distanza di 3-4 anni e mi rendo conto di che genere di percorso ho fatto, di quanta strada ho realmente calpestato da quel preciso momento.

 

 

JG: La tua intera filmografia è costellata di cortometraggi.

In genere si pensa ai corti come uno step momentaneo da superare prima di cimentarsi nel lungo, anche a causa della scarsa redditività dei cortometraggi e delle difficoltà nel trovare "degli amatori" che ne curino la realizzazione.

Tu invece ci lavori da quasi quattro lustri, malgrado abbia dedicato anche buona parte del tuo tempo a progetti anche completamente estranei alla Settima Arte.

Cosa ti ha portato a restare così a lungo in questo mondo?

 

SC: In effetti anche io avevo in mente di produrre corti per 4-5 anni e poi passare al lungometraggio.

E in realtà ciò che è avvenuto non si è discostato tanto da questa previsione: ho avuto la fortuna di collaborare anche con la Biennale e vedermi commissionati documentari molto importanti, tutti legati al mondo dell'arte come Via Crucis al Pantheon, Il west secondo CivitelliDai secoli del fuoco e del disegno, Incontri Jazz e Meditteraneo.

 

Grazie a Lamberto Fabbri che mi ha sempre coinvolta in questi progetti posso dire di essermi arricchita molto, anche senza mai sbarcare davvero nel mondo dei lungometraggi.

Il risultato è che probabilmente ora amo l'Arte tanto quanto amo il Cinema.

 

A dirla tutta, poi, in realtà nel 2006 ho lavorato a un mediometraggio, Giro di Giostra, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Venice Film Meeting, e nel 2012 la Mood Films mi aveva commissionato la sceneggiatura di un lungometraggio, da scrivere insieme a Enrico Saccà.

Poi il progretto non è andato in porto ma ho tratto il meglio da quella esperienza: ho imparato l'importanza del confronto sulla scrittura.

 

Io per la prima settimana ero gelosissima delle cose che scrivevo, cosa che - come ti ho detto poco fa- non mi succede mai con il girato.

Poi mi sono aperta al confronto e ho potuto imparare anche da una situazione che in realtà ha contribuito al mio allontamento momentaneo da questo mondo.

 

 

JG: E ora è cambiato qualcosa?

Hai in programma un lungometraggio?
 

SC: Sì, qualcosa si sta muovendo.

In realtà ho cinque-sei storie pronte, ma sono riuscita a isolarne una che dovrebbe essere alla base di un lungometraggio.

Insomma, se ne sta parlando.

 

Io, però, sono sempre molto attenta a quello che è il percorso che ho tracciato per me e non me la sentirei di girare lontano dall'Italia per i costi e la fatica nel muovere la troupe.

Quindi preferirei dar forma a questo progetto incentrato su un uomo che perde la memoria, girandola in Italia.

Potrebbe essere finalmente l'inizio del mio lavoro nel mondo dei lungometraggi.

 

_______________________________________

 

Insomma, come magari avrete percepito al termine di questo articolo, non restare rapiti da I Am Bansky e dalla sua regista è davvero difficile.


Ringraziamo Samantha Casella per la sua disponibilità e auguriamo a lei e al suo cortometraggio il meglio, a partire proprio dall'imminente partecipazione al Golden State Film Festival.

 

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