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Harris Dickinson esordisce alla regia con Urchin e a mio avviso firma un debutto alla regia sorprendente per maturità, sensibilità e stile.
Dopo essersi fatto conoscere dal grande pubblico grazie ai ruoli in Triangle of Sadness e Babygirl, l’attore britannico non ancora trentenne dimostra di avere anche una visione registica originale e precisa, in grado di restituire con autenticità e profondità una realtà troppo spesso banalizzata: quella dell’emarginazione e della dipendenza, dove gli ultimi diventano per la socetà qualcosa di trasparente.
Il film è stato presentato al Festival di Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard.
[Una clip da Urchin]
Urchin ci racconta un pezzo di vita di Mike, interpretato da un eccezionale Frank Dillane, un giovane senzatetto che da cinque anni sopravvive per le strade di Londra tra rifugi di fortuna, piccoli furti e tentativi di disintossicazione.
Mike è un personaggio sfuggente e contraddittorio, a tratti dolce e carismatico ma instabile, impulsivo e imprevedibile.
Dillane penso offra una performance straordinaria, che alterna fragilità e durezza con disarmante naturalezza, nei panni di un ragazzo che continua a sbagliare e ne è consapevole, ma che poco può fare per spostarsi dal binario in cui le condizioni sociali e la sua attitudine lo hanno definitivamente incastrato.
La fisicità nervosa dell'attore e lo sguardo smarrito del personaggio raccontano molto più delle parole, portando sullo schermo una figura complessa e autentica, mai ridotta a un cliché, che passa con nonchalance dal farsi volere teneramente bene al volerlo prendere a schiaffi.
La narrazione di Urchin evita i facili sentimentalismi in cui spesso si cade raccontando storie di questo tipo: il film si muove tra momenti di duro realismo urbano e improvvise digressioni oniriche.
Dickinson gioca con il linguaggio cinematografico inserendo scene surreali nei momenti più inaspettati, come quando da un hitchcockiano scarico di una doccia si viaggia fino al cuore pulsante del pianeta Terra: queste concessioni sono rare - e forse non del tutto adese al resto del film - ma esistono per donare al racconto uno strato ulteriore di significato, sospeso tra l’allucinazione e la memoria.
L’influenza del Cinema britannico crudo e umanista è evidente, da Ken Loach a Mike Leigh fino ad Andrea Arnold, ma Urchin guarda anche oltreoceano richiamando per intensità e stile visivo l’opera dei fratelli Safdie e l'inesorabile scontro continuo con le asperità a cui sono sottoposti i protagonisti del Cinema di Darren Aronofsky.
Il cuore pulsante di Urchin è la relazione tra Mike e il mondo che lo circonda, un mondo che sembra averlo dimenticato o, peggio, sempre guardato con sospetto senza concedergli mai una seconda possibilità.
Ogni piccolo gesto di gentilezza che riceve viene da lui respinto e sabotato, come se la sua stessa autodistruzione fosse una forma di difesa, qualcosa di identitario che lo rende cio che è e che dunque lui per primo non riesce ad allontanare.
Dopo un violento scippo a un passante che lo stava aiutando Mike sembra trovare una parvenza di equilibrio: dopo essere stato in prigione entra in un programma di recupero, trova un lavoro come aiuto cuoco in un hotel e inizia persino una timida relazione con Andrea (Megan Northam), una giovane donna anch’essa in fase di reinserimento.
[Una delle scene di Urchin che rimangono scolpite dentro]
Per qualche sequenza Urchin si colora di una tenue speranza fatta di karaoke, regali modesti, cassette di meditazione e balli intorno a un falò - da sottolineare la scena al ritmo di Voyage voyage di Desireless, brano uscito nel 1986 ma che sembra sia stato scritto appositamente per questo momento di questo film.
La redenzione lineare - e prevedibile - è a questo punto quel che vedremmo in tante altre opere che preferiscono scegliere la strada semplice della finzione, ma Dickinson è proprio qui che dimostra di avere già le idee chiarissime, perché quella strada e quella redenzione le rifiuta con forza e verità.
Il momento di svolta arriva con un incontro di giustizia riparativa quando Mike si ritrova faccia a faccia con l’uomo che ha aggredito.
L’incontro dovrebbe rappresentare un’occasione catartica, ma si trasforma in un cortocircuito emotivo: Mike non riesce a sostenere lo sguardo della sua vittima né tantomeno a pronunciare le scuse attese. È come se non possedesse il lessico necessario per navigare questa nuova dimensione di consapevolezza e responsabilità e la sua fragilità si svela in modo brutale.
Il rischio concreto della ricaduta è adesso evidente, il riscatto è perso.
La regia di Harris Dickinson è lucida e partecipe, sempre vicina al suo protagonista ma mai complice delle sue scelte sbagliate: c’è empatia ma non indulgenza, comprensione ma non assoluzione.
Urchin è un ritratto intenso e umano di un uomo alla deriva, un ragazzo di strada (il titolo si riferisce allo slang britannico che con Urchin indica appunto un ragazzino povero che vive all'addiaccio) che lotta per trovare un senso, una via d’uscita e un posto nel mondo e il tutto viene rappresentato con un raro equilibrio tra crudezza e tenerezza, tra denuncia sociale e introspezione psicologica.
A impreziosire il tutto ci sono una serie di interpretazioni secondarie ben calibrate, tra cui quella dello stesso Dickinson nel ruolo di Nathan, amico-nemico di Mike: il loro rapporto fatto di piccoli tradimenti e cinismo condiviso è uno dei tanti tasselli che restituiscono la complessità del vivere ai margini.
Con Urchin Harris Dickinson si impone subito come una delle voci più interessanti del nuovo Cinema britannico: la sua regia è coraggiosa, elegante, capace di coniugare realismo e visione.
Alla fine dei titoli di coda vi sarà difficile salutare per sempre il Mike di Frank Dillane, interprete che qui dona una prova da autentico fuoriclasse: il suo è un personaggio che commuove, disorienta, irrita, ma soprattutto resta impresso per la sua verità e onestà di intenti.
In un mondo che troppo spesso ignora chi cade, Urchin ci ricorda quanto sia importante fermarsi a guardare davvero.
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