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Presence è il penultimo film di Steven Soderbergh, presentato in anteprima nazionale al Comicon di Napoli 2025.
Presence vede protagonista i Payne, una famiglia che sceglie di trasferirsi in una nuova dimora dopo il trauma della perdita di una persona cara da parte della giovane Chloe (Callina Liang).
I genitori di Chloe, Rebekah (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan) cercano di aiutare a proprio modo la figlia, servendosi anche di suo fratello Tyler (Eddy Maday), il pupillo di casa.
Più tempo passa nella casa più Chloe comincia a percepire una presenza, uno spettro, che via via si farà sempre più imponente fino a condizionare il futuro di tutta la famiglia.
[Il trailer di Presence]
Presence parte da una premessa interessante: il film è girato in soggettiva, dal punto di vista della presenza.
Lo spettatore, dunque, segue le vicende familiari attraverso gli occhi del “fantasma”. La trovata, di per sé originale, non sorprende da parte di un regista come Soderbergh, pronto a sperimentare e affrontare a modo suo storie e generi cinematografici molto diversi tra loro.
L’angoscia e il terrore iniziale, così come la tensione generata dalla sensazione di essere noi stessi il fantasma che fissa insistentemente vari momenti di vita di questi sconosciuti, va presto calando quando si intuisce che questa presenza non è malvagia.
Si presenta dunque un primo intoppo, che di per sé non toglie qualcosa al film, ma che ho trovato problematico nel momento in cui ho visto la pellicola perché ha distrutto diverse aspettative.
Presence è stato fortemente spinto attraverso quest’idea di irrequietezza generata proprio dalla prospettiva atta a creare una dinamica spaventosa, ma che poi si perde presto.
Mi riesce difficile inserirlo nel filone horror anche se possiede dei tratti peculiari del genere, perché la componente drammatica è senza dubbio preponderante; ma non è tanto questo il problema quanto proprio il voler convincere insistentemente, dall’inizio della sua sponsorizzazione pubblicitaria, che la pellicola sarebbe stata inquietante a causa del modo in cui il tutto è portato sullo schermo.
Ci tengo a sottolineare che non mi riferisco al fatto che “non faccia paura”, ovvero a quell’orrore che tutti provano differentemente, ma proprio al fatto che questo film non sembri voler spaventare, tanto che il racconto, così triste e angoscioso, a tratti mi ha ricordato più a A Ghost Story di David Lowery che un qualcosa di vicino all’horror e i suoi sottogeneri.
[Una scena di Presence]
Questa premessa è necessaria affinché Presence non venga travisato nel suo obiettivo, perché questo dettaglio potrebbe facilmente offuscare il fatto che il suo essere sperimentale porti ad altri tipi di problemi sui quali indagare.
La soggettiva in Presence ha i suoi (a mio avviso davvero troppi!) limiti soprattutto nel momento in cui non succede granché in scena.
I momenti morti e silenziosi finiscono per indebolire anche quando lo studio delle figure che abitano la casa cominciano a creare dinamiche interessanti.
I personaggi, infatti, risultano incompleti e irrisolti, lasciando la sensazione che ci si sia lasciati così tanto offuscare dalla forma da allentare la presa sulla sostanza in una storia fin troppo mondana per risultare estremamente coinvolgente. Lavorare per sottrazione in questo caso risulta disfunzionale poiché il rischio di ignorare elementi che potrebbero dare profondità alla narrazione è alto.
Inoltre, alcune scelte da parte del direttore di fotografia le ho trovate discutibili e un po’ deboli, e certe atmosfere mi hanno lasciato una sensazione di imbarazzo, quasi ilari per quanto assurde, ben lontana da ogni possibile forma di terrore.
Presence purtroppo evidenzia i suoi difetti proprio a causa delle sue scelte sperimentali, che possono essere lodate fino a un certo punto, e perde il mordente presto mordente, rimanendo superficiale pure quando prova a rilanciare con piccoli colpi di scena.
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