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Moschettieri del re - La penultima missione - Recensione: più che un film, una minaccia

Un film che suona come una minaccia già dal sottotitolo 

La settimana tra Natale e Capodanno è quella specie di limbo sospeso nel tempo, quel periodo così piccolo inventato dal capitalismo consumistico per farci rimpiangere il lavoro.

 

Potrebbe essere un momento in cui le persone riscoprono il piacere di svolgere attività creative o intellettuali, che di solito non hanno il tempo o la testa di fare essendo sfibrati dal lavoro o dalla depressione dovuta al fatto di non avere un lavoro.

 

E invece le giornate trascorrono tutte uguali, tra un’abbuffata e l’altra, in compagnia di gente che odiamo per tutto il resto dell’anno.

Io cerco spesso di sottrarmi a questo rito disumano, e per questo mi espongo a dei rischi mortali.

 

Tipo andare al cinema sotto le feste, quando le sale sono occupate militarmente da film di merda.

È una tradizione tutta italiana alla quale non si può scampare, in cui la scommessa è riuscire a beccare il film meno peggio.

Tipo la roulette russa o votare alle elezioni.

 

La scelta nel multisala del piccolo paese del centro Italia dove mi trovo in vacanza era la seguente: il ritorno in pompa magna della coppia che ha dato il via alla suddetta tradizione nefasta; un remake-reboot-sequel botulinato con l’autotune di un musical degli anni ‘60la messa in scena del coma farmacologico di uno dei migliori registi di film di genere che abbiamo in Italia; e i Moschettieri del re - La penultima missione.

 

Opto per quest’ultimo, credendolo il più innocuo dei quattro.

 

Almeno è un film di genere, penso io, un film cappa e spada non lo producono tutti i giorni in Italia, diamo un segnale a questo cadavere putrescente che è il cinema italiano. Macché.

 

 



Faccio il biglietto e leggo sulla locandina che il film è di Giovanni Veronesi, l’uomo che ha avuto il coraggio di girare un western con David Bowie e Harvey Keitel, tirando fuori una commedia ambientata nell’America di fine ‘800 con Leonardo Pieraccioni che parla tutto il tempo in toscano e tutti lo capiscono.

 

Cazzo. Ho già fatto il biglietto.

Sono fottuto.

Mi sono beccato il proiettile in testa. Morto.

Finito.

 

Per consolarmi mi dico, ok, sono passati vent’anni da quel film, quelli dopo li ho saltati tutti a pié pari, ma dopo tutto questo tempo ci può stare che me ne vedo un altro.

Magari nel frattempo Veronesi ha anche imparato a girare, forse ha persino imparato a scrivere.

 

A volte mi meraviglio da solo della mia ingenuità.

 

 

[Oscuri presagi]

 

 

Il film inizia con Margherita Buy che fa la regina di Francia e fa fermare il calesse su cui viaggia per andare a pisciare in mezzo alle fratte.

 

Ok: magari la butta sul realismo, penso io.

 

Prosegue con lei che va a cercare nelle campagne francesi D’Artagnan, un Pierfrancesco Favino che ha deciso di interpretare il personaggio facendolo parlare come un kebabbaro di Arco di Travertino.

La fotografia è bella, i costumi e le scenografie anche, non possono aver speso tutti questi soldi per buttare così tutto in vacca.

Avranno fatto un film di respiro internazionale, penso io.

 

Macché.

 

 

[Mi scappa la pipì, papà]

 

 

La regina ordina a Favino kebabbaro di andare a recuperare gli altri tre moschettieri, che non vede da trent’anni: Athos, Porthos e Aramis, interpretati nell’ordine da Rocco Papaleo, che parla in dialetto lucano, Valerio Mastandrea, che parla in dialetto romano e Sergio Rubini che parla in dialetto pugliese.

 

In più, come faccia a trovarli sperduti ai quattro angoli della Francia, senza uno straccio d’informazione, non è dato saperlo.

 

Da come vengono presentati i personaggi intuisco che il film vorrebbe essere una commedia, perché sono tutti dei vecchi rincoglioniti che fanno battute come quelle che i cinquantenni si scambiano su Whatsapp, ma che inspiegabilmente ancora sanno tirare bene di scherma.

Anche questo l’ho intuito, perché i combattimenti sono montati a cazzo di cane e non si capiscono mai le coreografie degli spadaccini. Però i nostri hanno sempre la meglio.

 

Una volta riuniti, i moschettieri si presentano dalla regina di Francia, che ha vicino la serva che le regge un pitale chiedendole se le scappa di pisciare.

I quattro moschettieri fanno un’entrata in scena plateale con in sottofondo Prisencolinensinainciusol di Adriano Celentano.

 

Tutto vero.

 

 

[Basilifrancia Coast to Coast]

 

 

Dopo quello che a questo punto definirei un money shot, la regnante ordina ai quattro di svolgere questa missione in incognito in cui devono sventare un attentato ai danni della corona.

 

Bene, dico io, una specie di Quella Sporca Dozzina all’amatriciana.

Incrocio le dita.

Macché.

 

Questi partono e la trama consiste in una sequela di eventi che poggiano su un’impalcatura fatta di stuzzicadenti. Non c’è epica, non c’è pathos, i personaggi hanno lo spessore di un posacenere e per di più il tutto è girato e montato senza una logica.

Ma del tipo che dopo il decimo scavalcamento di campo nelle scene dialogate ho smesso di contare.

 

I combattimenti sono pochi e girati come quelli dei film di Bud Spencer e Terence Hill, ma con la differenza che si prendono terribilmente sul serio.

E quando vogliono far ridere le scene sono tipo: la serva della regina deve andare a cavallo, ma non è capace, e per farlo capire sotto c’è una musica simile a Honky Tonk Train Blues, la musica de Le Comiche, quelle con Pozzetto e Villaggio (tra l'altro tra i compositori della colonna sonora c'è nientepopodimenoche Luca Medici, alias Checco Zalone).

 

C’è una scena incredibile dove i moschettieri sono a tavola con il Re Luigi XIV e la sua corte, in cui vengono elencate tutte le efferate nefandezze compiute dal tiranno, al che Mastandrea grida: “Esticazzi?!”, come Nando Martellone in Boris.

Alla fine di ogni scena c’è un personaggio che dice: “Adesso andiamo in questo posto”, e nello stacco di montaggio immediatamente successivo i protagonisti si trovano già lì, dove erano diretti, senza nessun tipo di raccordo spazio-temporale.

 

Ma la cosa eclatante è che alla fine di quello che immaginiamo sia il secondo atto, arriva di nuovo la suddetta serva a cavallo, accompagnata sempre dalla musica delle comiche, che dice: “Hanno rapito il Re, dobbiamo salvarlo!”, e nella scena seguente, così, di botto, dopo un'ora e mezza, viene abbandonata la trama della missione principale e i quattro moschettieri si mettono alla ricerca del Re, trovandolo dopo trenta secondi.

 

A un certo punto, semplicemente, la storia si interrompe, senza una conclusione, e gli viene appiccicato un finale completamente avulso da tutto il film, che meriterebbe lo spoiler da quanto è brutto.

 

Un finale da denuncia penale, di una banalità che neanche uno spot della Mulino Bianco aveva mai osato mettere in scena.

 

 

[Le comiche]

 

 

Chiaramente sono bandite sottotrame, riflessioni su temi come la vecchiaia, la morte, la depressione, che in questo film potevano essere affrontati, seppur in modo leggero, grazie a una storia dove i protagonisti si rimettono in gioco dopo trent’anni di solitudine ed emarginazione.

 

Appena questi temi vengono minimamente accennati dai protagonisti, il tutto viene buttato in caciara con battute da Bagaglino, e neanche quello dei tempi d’oro.

Le persone che si muovono all’interno del film sono sempre pulite e pettinate, anche dopo i combattimenti, dove ovviamente il sangue non è pervenuto.

 

Dopo un anno che ci ha regalato dei bei film italiani, come Lazzaro Felice, Dogman, Loro, La Terra Dell’Abbastanza, vedere questa roba mi ha fatto ritornare con i piedi per terra.

 

Perché mi ha ricordato che quei film sono un’eccezione, non rappresentano il cinema italiano.

Sono dei film che sperimentano storie e soluzioni narrative nuove, dove c’è la sostanza, ma c’è anche la forma. Delle mosche bianche.

 

Il cinema che incassa invece, quello che viene fatto uscire nelle sale nel periodo di massimo affollamento, quello natalizio, che ci smarchettano nei salotti televisivi buoni, è questo.

Un cinema sciatto, approssimativo, dove leggero è sinonimo di stupido, dove commedia vuol dire cabaret di bassa lega, dove cinema vuol dire televisione, ma neanche quella buona, quella degli anni ‘80 delle reti Mediaset.

Il niente.

 

Un pregio solo ha questo film, mi ha fatto venire voglia di rivedermi L'armata Brancaleone per ricordarmi come si fanno le commedie in costume, dove con leggerezza e comicità vengono tirate delle bordate micidiali alla società contemporanea, divertendo e facendo allo stesso tempo del grande cinema.

 

Ciao Veronesi, ci rivedremo tra vent'anni.

 

Ma intanto...

 

 



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1 commento

Enrico Tribuzio

5 anni fa

Guarda, io non sono uno di quelli che di solito rompono le palle su presunti buchi di sceneggiatura. Se il film funziona nel complesso e mi coinvolge, lascio correre, non mi attacco alle minchiate. Le osservazioni che tu fai sono giustissime, soprattutto quella sulla sifilide. Però, ecco, queste domande non sono proprio arrivato a pormele, perché ci sono problemi più gravi. Tipo che la sceneggiatura non ha né capo né coda.

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