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Macchine Mortali - Recensione: confuso e frettoloso

L'ultima fatica targata Peter Jackson

Mi sembra il caso di iniziare questa recensione con un avviso importante: il mio punto di vista potrebbe essere stato in parte falsato da una personale propensione al genere distopico, nonché da un profondo legame ideologico e affettivo con tutto ciò che porti la firma di Peter Jackson.

 

Do tuttavia per scontato che chiunque si sia approcciato a questo film con un minimo di curiosità sia già di base un altrettanto appassionato del genere o comunque un  estimatore del noto regista, e comprenderà quindi i motivi per cui l’analisi di questa nuova prova cinematografica prenderà una piega abbastanza decisa e (forse) più critica del dovuto.

 

 



Macchine Mortali, prodotto (e in parte scritto) da Peter Jackson, è diretto da Christian Rivers, suo collaboratore di vecchia data, qui al suo debutto alla regia in un’opera decisamente mastodontica (ma come aspettarsi altro del padre cinematografico de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit?).

 

Per fornire uno sguardo generale sul film potremmo dire che la trama, tratta a sua volte dall’omonimo romanzo di Philip Reeve, mescola molti degli elementi chiave del genere distopico, post apocalittico e steampunk: ci troviamo a oltre 1000 anni dall’attuale presente, in un pianeta Terra distrutto da una fantomatica “guerra dei 60 minuti” che in quel, seppur brevissimo, arco di tempo ha letteralmente spazzato via il mondo come lo conosciamo, per lasciare spazio a una lotta alla sopravvivenza tra città che hanno trovato nell’automazione una nuova forma di vita.

 

Molti dei più importanti centri urbani del mondo occidentale hanno infatti ridisegnato la propria urbanistica al fine di diventare una vera e propria macchina, da cui il titolo, su cui abitare e spostarsi lungo i continenti, depredando e razziando le altre città alla ricerca di risorse ormai sempre più difficili da reperire.

La nuova civiltà in cui il film ci catapulta è quindi un mondo in cui le città, dette appunto “trazioniste”, viaggiano su ruote e si attaccano l’un l’altra lungo un’Europa desertica e desolata, mentre sembrano andare incontro a una lenta e inesorabile estinzione. 

 

In questo particolare contesto la vita di Hester Shaw (Hera Hilmar), protagonista piuttosto agguerrita della storia, si scontra con quella di Thaddeus Valentine (interpretato da un mai banale Hugo Weaving) e si intreccia a quella del giovane Tom (Robert Sheehan), studioso londinese di antichità, incastrato suo malgrado nella misteriosa disputa.

A questi tre elementi assidui dell’avventura si associano un numero infinito di personaggi secondari ma con un ben preciso ruolo all’interno della storia che cerca, in questa ampia pluralità di figure, una dimensione corale.

 

La sequenza iniziale ci mostra in particolare la città di Londra (in tutta la sua spaventosa maestosità meccanica) alle prese con una caccia, che aiuta a delineare l’idea del mondo in cui ci troviamo.

 

La scena è obiettivamente coinvolgente, abbastanza spietata, ben montata e girata e sembra promettere bene riguardo le sorti del resto del lungometraggio.

 

 



Subito dopo la battuta iniziale però il film inizia a scorrere, i personaggi ci vengono presentati, eppure ci sembra che il contesto offerto non diventi mai all’altezza della nostra sete di comprensione, ridimensionando già dopo pochi minuti le nostre aspettative.

 

Il risultato non è un film brutto di per sé, ma un film che assume quasi più la dimensione di un booktrailer, che non quella di un vero e proprio adattamento.

 

Il motivo è presto detto.

Le informazioni che vengono man mano fornite riguardo la catastrofe avvenuta nel mondo sono veloci e abbozzate, i nomi e i riferimenti si susseguono senza un reale approfondimento e ben presto si impone l’assoluta certezza che il film stia parlando una lingua nota solo a chi ha letto i libri e che, in ogni caso, non riesce a trovare un appeal su spettatori pressoché estranei agli eventi.

 

Ci rimane quasi il dubbio che solo leggendo il libro alle origini si possa effettivamente comprendere a pieno quanto si è appena visto, evidenziando in pochi e significativi difetti tutte le debolezze del film.

 

Indipendentemente dall’efficacia dell’adattamento del romanzo, infatti, a Macchine Mortali manca proprio quel piglio nell’animo dello spettatore che gli consenta di trasportarlo in un mondo distrutto e post-apocalittico e fallisce di conseguenza su più piani, nel disperato tentativo di coprire in maniera più organica possibile una storia che evidentemente è fin troppo vasta e complessa per essere racchiusa in un’unica sequenza di due ore.

 

Macchine Mortali non offre altro che cenni alla geografia del mondo futuristico, dipinge una ricostruzione frammentata e poco incisiva degli eventi e manca nell’offrire un contesto credibile a quanto viene narrato.

 

Il problema in realtà non si pone riguardo al quanto il film ci mostri, ma al come quelle poche e basilari informazioni vengano condivise. 

L’essere catapultati senza preambolo in un mondo a noi estraneo è forse una delle armi più efficaci del genere distopico e mai nessuno ha mai davvero sentito la necessità di conoscere con esattezza data e ora dell’apocalisse per poter poi godere di quella sottile e spaventosa sensazione del “e se succedesse anche a noi?”.

 

Eppure Macchine Mortali sembra ironicamente non riuscire a trovare la strada più adeguata a raggiungere questo specifico obiettivo.

A volte sembra perdersi in flashback e spiegazioni lapalissiane, altre volte invece rimane fin troppo sul vago e fornisce cenni sconnessi nella speranza che lo spettatore più preparato (o meno esigente) possa orientarsi da solo nella nebbia.

Ciò che resta di tutto ciò è una contestualizzazione per sommi capi e poco soddisfacente.  

 

Quei dialoghi che sembrano allo stesso tempo dire molto e molto poco di quanto sia avvenuto falliscono quindi nella più specifica descrizione situazionistica e vanno giocoforza a discapito di un altro elemento: l’approfondimento dei personaggi.

 

Che sia una questione di carisma cinematografico o meno, i protagonisti sono semplicemente abbozzati: di essi ci viene offerto quel tanto che basta a inquadrarli all’interno di un topos narrativo specifico, privandoli però di un’introspezione necessaria.

 

 

 

 

A soffrirne non è esclusivamente l’empatia, ma le stesse dinamiche dei rapporti umani, ed è difficile che il genere distopico possa funzionare privandoci dell’immedesimazione - quanto meno a livello personale - con i suoi personaggi chiave.

 

I sentimenti e i legami che il film sembra volerci proporre sono in realtà poco sentiti e raramente arrivano al pubblico per come erano stati progettati.

 

Il pathos è messo in scena eppure non ci raggiunge, risulta ininfluente e sembra ci venga presentato ancora una volta come un’ulteriore informazione aggiuntiva, come un dato di fatto da tenere in considerazione nel corso della visione, ma nulla di più.

 

Il risultato è una forma blanda di costruzione narrativa che ci lascia in un stato di indifferenza generale.

Hugo Weaving offre come sempre un’ottima interpretazione e le sue doti recitative arricchiscono il suo personaggio di una diversa dimensionalità, dotandolo di sfumature e di complessità che riescono in qualche modo a svincolarlo dalla banale posizione di “cattivo senza redenzione”.

 

Gli altri elementi vengono però mescolati in un melting pot che sembra davvero privo di un tratto incisivo.

 

 

 

 

Macchine Mortali non è nel complesso un film inguardabile come queste considerazioni potrebbero far pensare, ma risulta purtroppo un film confuso, abbozzato e frettoloso, che non diventa mai davvero distopico, non approfondisce a dovere i suoi aspetti cardine, che avrebbe potuto essere un Mad Max con qualche sfumatura teen ma che purtroppo non decolla, adagiandosi tra i già noti Hunger Games, Divergent series, Maze Runner et similia.

 

La dimensione adolescenziale non è poi un elemento (più che rispettabile) su cui sindacare, ma è piuttosto quanto rimane sul fondo del barattolo una volta che il compendio di potenzialità è andato definitivamente perduto.

Le premesse allegoriche che i primi minuti avevano introdotto vengono disattese, sebbene i temi da affrontare fossero molteplici.

 

Il film sembrava voler giocare su numerosi messaggi di riflessione legati al rapporto tra l’uomo e le guerre, la pericolosità delle corse agli armamenti, l’etica in ambito bellico, l’effetto disastroso delle politiche sulla natura, l’assoluta incapacità di imparare dalla nostra storia, lo sconfortante homo homini lupus che cova dentro ciascuno di noi ed è pronto a riemergere in caso di disgregazione sociale, la titolarità sulle risorse del pianeta, il colonialismo e le sue conseguenze, il rapporto nei confronti dello straniero e dell’accoglienza.

Tutti temi dalla portata infinita di cui però non rimane che un breve accenno, schiacciati come sono dal peso dell’eccessiva ambizione del progetto.

 

Macchine Mortali è un classico film che delude perché in qualche modo ha lasciato trasparire l’enorme e inespresso potenziale andato sprecato nell’impossibilità di rielaborare il tracciato e nella fallacia di una storia costruita su schemi già raccontati.

Il film diventa un mero susseguirsi di eventi dai contorni prevedibili, e quel dialogo originariamente instaurato con lo spettatore si riduce a qualche battuta umoristica legata al nostro mondo contemporaneo, che strappa un sorriso ma che, purtroppo, non va oltre.

 

Macchine Mortali ha in parte subìto oneri e onori del pesante nome cui è stato associato, soffre insomma della sua stessa genealogia di provenienza.

 

Il marketing martellante, le aspettative imposte con largo anticipo e un vasto interesse per il genere hanno appesantito il film di un obiettivo probabilmente irraggiungibile, tutte attenuanti che però non bastano a giustificare la triste insufficienza del risultato finale.

 

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