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Parthenope nasce dal mare, come una sirena. Parthenope non è né un mito, né una leggenda, ma una ragazza bellissima che osserva il mondo che la circonda, cercando di capirlo e provando da lui a farsi capire.
Paolo Sorrentino firma il suo decimo lungometraggio e torna in concorso al Festival di Cannes a nove anni di distanza da Youth - La giovinezza.
Sulla Croisette il regista partenopeo aveva già presentato Le conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006), Il divo (2008), This Must be the Place (2011) e La grande bellezza (2013).
Oltre al dittico su Loro (2018), all’appello mancano soltanto il suo esordio L’uomo in più (2001) e il precedente È stata la mano di Dio (2021), presentati alla Mostra del Cinema di Venezia e curiosamente gli unici due film ambientati a Napoli di tutta la sua carriera.
Almeno fino a Parthenope.
[Gli applausi di Cannes al termine della première di Parthenope]
Dopo averci raccontato se stesso nel potentissimo È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino sceglie ancora Napoli come anima della sua pellicola, per raccontarci le sue contraddizioni, tra luci e ombre, sacro e profano, speranze di fuga e desideri di ritorni.
Si apre nel 1950 e arriva fino al 2023 questo lungometraggio in cui si attraversa la vita della protagonista come metafora dell’evoluzione di una città e di un paese che passa dal boom economico alla crisi, dalle speranze sessantottine di un mondo diverso alla disillusione degli anni successivi.
Per arrivare poi alla vecchiaia e alla necessità di guardarsi indietro.
Il Cinema di Sorrentino è sempre stato (anche) un Cinema di corpi, forse mai così tanto rappresentati come in questa pellicola con una chiave ancora una volta totalmente ossimorica, tra lo splendore della giovinezza e la marcescenza fisica e morale di figure che fungono da contraltare all’universo conosciuto da Parthenope.
Ombre in un mondo inizialmente luminosissimo e che poi si fa sempre più cupo in questo lungometraggio che parla molto di speranze deluse, descrivendo l’età dell’adolescenza con una spensieratezza che viene sempre attraversata dal velo della malinconia, come se quel tempo presente che si sta vivendo fosse già, irrimediabilmente, passato.
Attraverso numerosissimi sguardi in macchina Sorrentino chiama di continuo lo spettatore a partecipare al film, stimolandolo con lunghe inquadrature estremamente poetiche e con scelte sonore perfettamente coerenti con quanto stiamo guardando.
Se, dopo l’ottimo incipit, Parthenope fatica un minimo a carburare, quando l’azione si sposta a Capri (molto presto nella narrazione) il film cresce subito di livello e non si ferma più, arrivando a offrire sequenze sempre più emozionanti e spunti di riflessione che passano dalla filosofia esistenziale all’antropologia.
Parthenope non sa cosa sia l’antropologia, ma ha una capacità di studio e di comprensione dell’argomento impressionante, tanto da vedersi offrire una carriera universitaria dal suo professore (straordinario Silvio Orlando), che è tra le figure più azzeccate di una pellicola in cui i personaggi secondari entrano ed escono dalla scena di continuo.
Eccezionale l’esordiente Celeste Dalla Porta nei panni della protagonista, ma nel cast ci sono anche, tra gli altri, Gary Oldman (che interpreta lo scrittore John Cheever!), Luisa Ranieri e Isabella Ferrari.
[Gary Oldman in una scena di Parthenope]
Stilisticamente parlando è un’opera misuratissima Parthenope, in cui Sorrentino si concede alcuni sprazzi grotteschi qua e là, ma in cui si sente soprattutto il suo desiderio di raccontare, in particolare grazie a una serie di frasi a effetto che diventano una delle ragioni di vita del personaggio principale.
"Sono diventata adulta", dice la prima protagonista femminile di tutto il Cinema del regista napoletano, sottolineando come quello a cui stiamo assistendo è anche un potentissimo racconto di formazione.
Non è certo un caso che il film si apra, esattamente come La grande bellezza, con una citazione che arriva da Louis-Ferdinand Céline relativa al senso della vita, perché ciò che Parthenope racconta è anche quella “grande bellezza” ricercata vanamente da Jep Gambardella nel film del 2013 e che lo portava solo a ripensare al passato, sul mare, affrontando la sua giovinezza.
Dall’acqua della nascita a un’ultima onda azzurra nella conclusione (vedrete in autunno quando il film uscirà in sala di cosa stiamo parlando) Parthenope è un viaggio liquido nell’esistenza, in cui le coordinate si perdono per dare vita a un mosaico di situazioni, i cui tasselli rappresentano gioie e dolori, vita e morte.
Perché il Cinema di Sorrentino è stato anche spesso un Cinema di traumi da cui è necessario rialzarsi per continuare ad andare avanti, nonostante tutto.
Traumi che però neanche l’acqua può far scorrere via e che finiscono per far parte del nostro stesso essere, che ci riporteranno costantemente a guardarci indietro.
Come in È stata la mano di Dio, un giovane avrà bisogno di un mentore per potercela fare, proseguire nel cammino, su un treno o per mare, fuggendo per poi ritornare.
Disuniti, forse, ma solo agli occhi degli altri e in realtà più consapevoli di quello che si è davvero. In questo Cinema che rappresenta un’umanità a tratti mostruosa e a tratti estremamente commovente, è il contatto con gli altri e qualche parola capace di entrare nel profondo a farci rialzare o a farci nuotare, per sempre, verso l’orizzonte.
Come una splendida sirena nata dall’acqua.
[articolo a cura del nostro ospite Andrea Chimento - Direttore Responsabile di Longtake]
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