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Ancora un'estate - Recensione: reggere lo specchio al desiderio

L'incontro tra una donna adulta e il figliastro adolescente, la messa a nudo di un mondo 

Che il Cinema non debba essere interpretato a-priori in maniera univocamente pedagogica è accettato; che non possa essere, anche volendo, adesione piena al discorso dominante sembrerebbe invece meno chiaro.

 

Al di là di ogni intenzione, qualsiasi film - meglio: qualsiasi produzione segnica - è soprattutto azione in quel discorso e, radicalmente, da quel discorso: non può essere gesto pienamente libero, ignaro dei limiti (storici) in/da cui si costituisce, degli scarti che lo abitano. 

 

Finzionale in ogni sua manifestazione, ma non più delle altre produzioni segniche, il Cinema può, come scriveva Shakespeare nell'Amleto a proposito del teatro, "reggere lo specchio alla natura" solo se chi lo osserva, lo anima, (rac)coglie questa natura necessariamente plurivoca in un dispiegarsi che può parlare anche il più radicale antinaturalismo.

 

[Il trailer di Ancora un'estate]

 

 

Dinnanzi alle opere di Catherine Breillat, dallo scandaloso iperrealismo di L'adolescente ad Ancora un'estate, remake che arriva a un decennio dalla precedente fatica, a sua volta collocata dopo un favoloso trittico tutto in costume, il nodo primario riguarda la rappresentazione del desiderio.

 

Une vieille maîtresse, apertura di quel trittico posizionata nella Parigi di metà Ottocento, si apriva e si chiudeva sulle parole di due personaggi secondari, un visconte e una contessa, che incarnavano la chiacchiera pubblica, menschen (uomini) dissolti nel man (si) impersonale, parafrasando Martin Heidegger.

Era la chiacchera di una pruderie ipocrita che, dopo l'ancien régime, circolava tra la nobiltà, chiacchera di cui Breillat presto esponeva la delimitazione storica: attraverso le parole della più anziana marchesa de Flers - significativamente interpretata da Claude Sarraute, giornalista che lì era però dedita all'ascolto, interlocutrice grazie a cui poteva svilupparsi una sostanziosa analessi - e il suo riferimento al libertinaggio poteva infatti emergere un contrasto a suo modo relativizzante.

 

La prospettiva di Breillat sulla rappresentazione del desiderio passa per la parola anche in Ancora un'estate, che peraltro si impianta su una dimensione narrativa che, come rivela il titolo francese (L'été dernier, l'estate scorsa), tanto rimanda a un simil-flashback quanto evoca il racconto come momento intrinsecamente posteriore.

 

Un accenno di trama, tramite il paratesto fornito dalla casa di distribuzione italiana, Teodora Film:

"Anne, avvocata di successo, accoglie in casa Théo, il figlio diciassettenne che il marito ha avuto da un matrimonio precedente. Tra i due nasce un'intesa imprevista, ma quando Théo dice al padre che lui e Anne sono diventati amanti, la donna nega tutto…".

 

Non è la prima volta che Breillat affronta una simile differenza anagrafica, testimone il non così riuscito Brève traversée del 2001, anche se allora mancavano le implicazioni incestuose (o comunque para-incestuose: ora il nocciolo della questione non è il sangue ma le parole anonime che circondano le relazioni familiari) e quelle adulterine assumevano una piega ben diversa; è l'ennesima occasione, invece, in cui la spinta del desiderio è deviata.

 

Si parta da un presupposto generalissimo, parzialmente sovrapposto al pensiero della regista: l'oscenità è una costruzione moral-moralistica che va soppesata in rapporto a una teoria dell'essere umano (universalistica o meno, centrata su un concetto di Uomo o meno) e alla contingenza storica, ai suoi assetti strutturali (anche in chiave filo-marxiana), al suo orizzonte discorsivo.

Il primo punto concerne anche il ruolo del desiderio, e ovviamente - soprattutto visto il nostro appartenere alla tradizione occidentale: come si vede il secondo punto non può essere autonomo - la proposta aristotelica secondo cui, oltre a essere politico (zoon politikòn), l'uomo è animale dotato di parola (zoon logon èchon: la traduzione impiegata elude il più problematico riferimento alla razionalità).

 

Lungo la sua filmografia Breillat ha affrontato il desiderio ricorrendo spesso a immagini di carattere sessuale assenti nella quasi totalità della fiction, a scene decisamente esplicite (oltre che al sesso non simulato tra gli attori, che però non interessa, non può interessare direttamente): con un piccolo detour, Sex is Comedy, ha addirittura problematizzato in maniera metacinematografica (scopertamente autobiografica e intertestuale: alla base una sequenza di A mia sorella!) il suo stesso processo creativo-produttivo.

 

L'amore ha però assunto forme differenti, non di rado connotate in senso negativo, almeno in alcuni frangenti: al fondo, perno di ogni deterioramento, la possibilità (storicamente fondata) di oggettivazione; ancora più al fondo, una lettura filosoficamente discutibile di uomo e mondo, l'istituzione di una scissione che ovviamente rispecchia quella di anima e corpo. 

Anche in un carosello di genitali Breillat non ha tuttavia mai fatto un Cinema di corpi, di soli corpi: la smodata verbosità prevalentemente femminea ha sovrastato, interpretato, combattuto, illuminato le carni in un costante corps à corps assai fecondo; che poi in Sex is Comedy la sua alter ego abbia detto che le parole sono menzogne e i corpi verità andrà vagliato (sul campo) a oltre vent'anni di distanza.

 

Oltre ai dialoghi, talvolta cechoviani nel rassomigliare a somma di monologhi, a essere concettualmente pregnante nella sua filmografia è soprattutto il voice-over, se si usa questo termine potendolo biforcare in extra-diegetico (voce narrante) e diegetico (voce interiore di un personaggio): questo procedimento demanda proprio alla parole una funzione interpretativa che, in connessione con il resto del progetto estetico, incorona come centro una soggettività.

In questo senso, il caso di Pornocrazia o deflette o spinge al limite tale lettura, la sua essenza: lì la voce narrante era quella della stessa Breillat e si confondeva con le identità dei due protagonisti grazie alla deissi.

 

Il desiderio, in qualche maniera, sembra pertanto essere una questione strettamente soggettiva, individuale e privata nel senso più comune; e non è un mistero che il trincerarsi (possibile, ma il problema risiede proprio nell'apertura di questa possibilità) nel soggetto, nel cogito poi idealistico, abbia favorito l'innescarsi o il consolidarsi di processi di oggettivazione.

 

 

[Un frame da Ancora un'estate]

 

 

In Ancora un'estate il quadro non è così fosco, e parecchie delle questioni menzionate riemergono sotto una nuova luce. 

 

Un primo presupposto che distingue il film è il carattere smaccatamente borghese (in epoca contemporanea): il profilmico, le basi narrative, alcune soluzioni stilistiche restituiscono in modo plastico un cosmo che anzitutto pertiene al piano cinematografico, e ne è conferma indiretta pure il fatto che Breillat avesse scritto il ruolo di Anne avendo in mente Valeria Bruni Tedeschi (ma "ha avuto paura e ha lasciato il film"), tanto associata a quello stereotipo da esser divenuta oggetto di parodia per mano di Virginia Raffaele.

 

Ma quanti film anche validi sono andati all'attacco dell'establishment (estetico) e subito sono stati inghiottiti da un sistema culturale che (quasi) tutto sa digerire perché (quasi) tutto sa ridurre a spettacolo!

Basti pensare che quello stereotipo si regge - almeno in superficie - su una continua spinta autocritica che, poggiando su soggettivismo solipsistico, risulta (ormai?) pienamente innocua.

 

Ancora un'estate ha qualcosa di diverso, di più incisivo?

Un film non può aderire pienamente al discorso dominante, che è necessariamente abitato da scarti, al di là delle intenzioni; con il concetto di discorso, di estetica, voglio tenere insieme l'estetica nel senso più tradizionale e la politica, seguendo Jacques Rancière e il suo debito nei confronti di Michel Foucault, senza perciò identificarle e facendo intanto intravedere anche il nucleo alla base delle tesi aristoteliche summenzionate.

 

Non è possibile uscire integralmente dal discorso, librarsi verso il cielo, né sedersi in un posto storicamente già occupato: questo il punto di vista qui adottato.

Come agire dunque in e da quel discorso?

 

Impiegando il concetto di dominanza, di discorso dominante, si presuppone ovviamente una generica pluralità di discorsi, e di conseguenza parrebbe erroneo affermare che non è possibile uscire integralmente dal discorso: invero questa dominanza, lungi dal ridursi a registrazione empirica della diffusione di un concetto o di una Weltanschauung, sfugge dai parametri di una scelta completamente consapevole.

Non vado oltre, non è la sede adatta, rimangano solo sul tavolo queste proposte quantomeno come confusi abbozzi.

 

Guadagnato un senso del posto occupato/occupabile nel discorso, il che non può significare oggettivare il discorso e razionalizzarlo in modo distaccato ma solo muoversi per interpretazioni delimitate (non imposte) da un sostrato mai problematizzabile nella sua totalità, le strade - ma si sta decisamente semplificando, il guadagnare un senso non è premessa lineare - sono grossomodo tre: forzare un sostegno pedissequo, battagliare per negazione (punto-a-punto), scorgere (non costruire assolutamente - ab-solutamente - ex novo) sentieri poco battuti.

 

Se la prima vorrebbe rimediare - e la prima enfasi è posta su questo volere, senza contemplare necessariamente un soggetto - alla già esposta impossibilità di aderire pienamente al discorso, definendo un conservatorismo che già denuncia la mancanza di una conservazione completa o soddisfacente, la seconda si attua nella maggioranza delle prassi estetico-politiche di tipo oppositivo e risulta invece afflitta dal medesimo equivoco che indebolisce la posizione di Foucault, il quale - come scrive Carlo Sini pensando anche all'Heidegger de La questione della tecnica - rimane "catturato da una contraddittoria relazione alle cose proprio per il modo in cui pretende di liberarsene".

 

Dovessimo tracciare un veloce equivalente in ambito cinematografico, isolando strumentalmente un solo piano di lavoro e sostando nel campo in cui si muove Breillat, potremmo dire che non basta essere osceni per contrastare il concetto moral-moralistico di oscenità, non basta capovolgere la superficie della pruderie: non è infatti una novità che la pornografia - meglio: una certa pornografia - possa essere funzionale a un simile disegno, come in effetti è.

 

 

[Un frame da Ancora un'estate]

 

 

Breillat magari è talora inciampata, soprattutto nei momenti in cui le sue altre armi, la parola e - soprattutto - il dispositivo messo a punto, con attenzione al versante fruitivo, hanno assunto un ruolo troppo marginale nell'economia del senso. 

 

Questo non è però accaduto in Ancora un'estate, senza dubbio tra i suoi lavori meno espliciti ma non per questo meno controverso.

 

Per attaccare frontalmente il côté borghese, il percorso più frequentato ha sovente implicato la costruzione di un dispositivo centrato sul distacco dal narrato, su una non-identificazione - ma la questione non si risolve a questo livello, né lo richiede necessariamente - che consentiva di mostrare agevolmente (e dimostrativamente) situazioni-limite che incrinavano la tenuta ipocrita di quella visione del mondo: parlando de La zona d'interesse avevo rimandato, non accettandolo in toto, al saggio Sadomodernism, e ora rinvio similmente a un altro contributo in cui Jonathan Rosenbaum rifletteva (nel 1990: qui una versione del saggio leggermente modificata, The Lynch-Pin Fallacy) sull'eventuale applicazione delle categorie di xenofobia e puritanesimo alle opere di David Lynch

Percorso che, va detto, non coincide con il Cinema iper-borghese a cui si faceva riferimento, il quale di norma evita estremismi e (vorrebbe) vive(re) solo nelle parole.

 

In Ancora un'estate riaffiorano le vestigia di quel(la forma del) regno logocentrico: non è un caso che Anne sia avvocata, non è un caso che la sola scena di sesso con il marito la veda esibirsi in uno pseudo-monologo, non è un caso che il negare la relazione col figliastro si estrinsechi tanto in ambito familiare, parlandone, quanto in ambito giudiziario (per di più sprovvisto di prove, di possibili approdi materiali: è proprio la protagonista a premurarsene, eliminando delle parole registrate).

 

Qui può insinuarsi una lettura teoretica che rifiuto, ovvero che le parole sono finzioni in senso morale, sono intrinsecamente menzognere - perché condannate a essere prodotto di una soggettività separata dal mondo, dagli oggetti da conoscere - e tendono a occultare (se non occludere) la verità delle passioni, di un pathos separato dalla ratio che viene dunque ricondotto al corpo; appunto, quello che poteva trasparire in Sex is Comedy.

 

Oggi Breillat opera con attenzione su questo fronte: sceglie di non ricorrere al voice-over e di attenuare la connotazione monologica dei dialoghi, ma non per questo sposa il naturalismo; il filosofeggiare autoriflessivo rimane ben presente, e anzi si riempie - come consuetudine - di incrostazioni che ne rendono palese la carica anti-naturalistica, comunque non tanto marcata da essere primariamente parodica o da inibire ogni possibilità di immedesimazione.

Le parole ora raffreddano un rapporto coniugale, ora servono per sedurre, ora possono indicare una realtà giudiziaria come, in assenza di referenti verificabili, costruirne una ad hoc: in ultima analisi, nella visione della regista non sono un problema di per sé.

 

Nella scansione registica, spesso ellittica, che approfondisce la messinscena dei drammi borghesi e già (scansando gusti teatrali) stratifica la ricezione delle parole, le scene di sesso - come consuetudine, di nuovo - si stagliano in virtù della loro durata e continuità: sono evidentemente segmenti il cui tempo reale impone anzitutto a noi un cambio di ritmo, di postura spettatoriale; e se quello che coinvolgeva Pierre si sofferma sul volto (parlante) di Anne pur restituendo una sorprendente intimità, quelli dedicati alla donna e a Théo manifestano variazioni che poi interpreteremo.

 

Come intravisto il sesso, il desiderio, il corpo non proclamano tuttavia una verità che scardina il linguaggio raziocinante: sarebbe fin troppo semplice figurarsi una dimensione dionisiaca diametralmente opposta alla controparte apollinea, travisando peraltro - posta la legittimità del riferimento - le tesi di Friedrich Nietzsche.

Due questioni si fanno quindi pressanti: una già incontrata, relativa alla lettura individual-individualistica del desiderio, l'altra focalizzata sulla coappartenenza (già adombrata riflettendo sul/con il deleuziano Coma di Bertrand Bonello) delle categorie nicciane.

 

In un giocoso frangente di Ancora un'estate, Théo pone una domanda a una delle due figlie di Anne: "Se potessi portare una cosa con te su un'isola deserta, cosa sarebbe?"

Comprensibilmente e teneramente Angela indica la sorella, che subito però risponde, sorridendo: "Ma io non sono una cosa".

 

Da questo scambio non si tragga solo uno spunto contenutistico, peraltro ovvio quando esaminato sotto questa luce (come a dire: a parole l'oggettivazione è generalmente ricusata): si osservino invece anche il sentimento che informa pragmaticamente le parole altrimenti cadaveriche e soprattutto la dimostratività tipica della scrittura di Breillat (e Pascal Bonitzer, storico sceneggiatore di Jacques Rivette).

 

Oltre il primo elemento, che potremmo estendere alla pragmatica in toto e dunque indirizzare all'evento della parola, strappandola dalle grinfie del formalismo da laboratorio, vale la pena soffermarsi sul secondo, spesso bersagliato dalla critica: ora, la dimostratività è uno strumento retorico-narrativo che tendenzialmente sottende una pedagogia unidirezionale, una prefigurazione del fruitore che risulta infine - al di là delle intenzioni - (filo)autoritaria.

 

Tante volte il paternalismo sembrerebbe essere adoperato a fin di bene, ma proprio in quel preciso istante conviene domandarsi se il fine possa giustificare i mezzi, se il fine (meglio: l'effetto previsto) non sia influenzato - potremmo dire: nella sua essenza - dai mezzi.

 

 

[Un frame da Ancora un'estate]

 

 

Il discorso è tuttavia più complesso di quanto potrebbe apparire, in quanto la scrittura non può essere concepita a-priori in maniera monolitica, specie se la dimostratività vorrebbe riguardare la sola narrazione e/o il solo contenuto e - in secondo luogo - in quanto la scrittura per il Cinema, com'è evidente, non può darsi nella sua purezza letteraria.

 

Sul primo punto: già sancendo che la separazione (nella scrittura) di forma e contenuto interviene solamente a-posteriori, il che consente di non incorrere nel problema di dover riunificare (kantianamente) ciò che è, in un modo da indagare, già unito, risulta chiaro come si diano delle opportunità di contrastare una dimostratività che agirebbe a livello astrattamente contenutistico; in aggiunta, assegnare la categoria alla narrazione tutta, concependola come piano evenemenziale interamente occupato da circostanze e svolte, elude ogni considerazione globale che possa tener conto delle resistenze incarnate dai personaggi (il che dipende da scopi e qualità della loro scrittura).

 

Sul secondo punto: il personaggio non è (solo) questione di scrittura, ma di traduzione cinematografica della scrittura, che ne risulta contaminata e si spera arricchita attraverso il lavoro con e degli attori; nondimeno questi non possono mai esaurire le riserve di senso perché a entrare in gioco sono gli elementi propriamente filmici: vale qui un discorso analogo a quello sulla separazione forma/contenuto nella scrittura e va rimarcata la possibilità di lavorare efficacemente con e/o dalla dimostratività.

 

Qualche esempio può aiutare: i Cahiers du Cinéma coltivano da anni una condivisibile avversione nei confronti di una certa dimostratività, e sono ad esempio pervenuti a valutazioni negative delle opere di Ken Loach: ho scritto su Io, Daniel Blake sostenendo la presenza di una logica kafkiana che aiuterebbe a indebolire la nettezza del percorso del protagonista, e insieme rinvio anche alla dimostratività in relazione a Neorealismo e Neo-neorealismo considerata a proposito de Il signore delle formiche di Gianni Amelio e alla possibilità di sviluppare sottilmente altre forme di narrazione in Killers of The Flower Moon di Martin Scorsese.

Come stanno le cose per Breillat, apprezzata dalla rivista transalpina nonostante la schematicità che ne ha definito molte delle opere?

 

Due opere del trittico in costume sono esemplari: in Barbe Bleu il riferimento alla fiaba di Charles Perrault intensifica questa tensione e pure viene elevato al quadrato, con una cornice che sia funge da commento sia esibisce una netta e feconda teleologia; nel successivo La belle endormie il nuovo rimando a Perrault è invece inaspettatamente arricchito dal riferimento onirico a La regina delle nevi di Hans Christian Andersen, tramite una duplicazione che favorisce una prospettiva estetica più anarchica e istituisce connessioni di senso originali.

 

Circa dimostratività e scelte narrative in Ancora un'estate è poi da ricordare il titolo originale: la sottolineatura della divaricazione temporale ribadisce la presenza di una teleologia che quantomeno acciuffa il presente di chi sta narrando, e la dimensione del racconto (che potremmo immaginare come autobiografico) invita - ma questo invito andrebbe dissezionato - a individuare il punto di vista originario.

 

Impiegando una ratio tradizionale che conserva delle valide ragioni, la protagonista del film è senza dubbio Anne, una straordinaria Léa Drucker a cui potremmo attribuire la responsabilità (fittizia) del racconto o - se si rifiuta la tesi autobiografica - con cui potremmo sincronizzare una prospettiva di altro tipo, quella che poggia sulla nostra identificazione (secondaria) anche in virtù della sua iniziale connotazione morale.

 

 

[Un frame da Ancora un'estate]

 

 

Una serie di fattori, tuttavia, rende ancora più sfumata la questione. 

 

Gli eventi che interessano Anne e le sue (re)azioni, ma soprattutto le (re)azioni di Théo, che quasi non esiste in autonomia, sono inequivocabilmente dimostrativi: le azioni lo sono ancor di più se isolate e intese (astrattamente) come unità di base che in un secondo momento - rigorosamente: il nodo riguarda la priorità ontologica - potranno andare a costituire frasi narrative più ampie.

 

Le performance degli attori (e la loro direzione) e alcune finezze che magari non saranno figlie legittime della scrittura, ma che si fanno comunque avanti nella scrittura scenica e filmica, con particolare attenzione alla temporalità, trasmettono nondimeno una maggior profondità.

Sono personaggi vivi in un ambiente non altrettanto vitale sulla cui natura sostiamo: lungi dal ridursi a esito univoco di questo processo e/o dal fungere da polo di una dicotomia dinamicità/stasi che non è (in questi termini) il perno concettuale, la scarsa vitalità richiama infatti tanto il contesto borghese diegetico - che Anne definirebbe normopatico - quanto la già indicata trama intertestuale in cui il film si posiziona.

 

Le scene di sesso tra Anne e Théo e alcuni stratagemmi dalla chiara funzione retorica approssimano a una risoluzione ipotetica.

Due esempi estremamente ravvicinati dei secondi, precedenti agli amplessi: nel primo capiamo che Anne e famiglia stanno facendo colazione tramite una sola inquadratura fissa insolitamente lunga che ritaglia la mezza figura della donna, il tutto finché Théo irrompe a torso nudo (ancora: il suo primo incontro con Anne e con noi era avvenuto così) costringendo a tagliare su un totale in cui il ragazzo si accomoda nel posto vuoto al centro del quadro; nel secondo, qualche minuto più tardi, Théo sta amorevolmente lottando con una delle bambine mentre le gambe di Anne (con tacchi rossi ai piedi) fanno capolino in un'inquadratura piuttosto statica.

 

Oltre alla durata e alla continuità già notate, nei momenti più intimi si riscontra poi una strutturazione presumibilmente studiata a tavolino: il viso di lui, il viso di lei e quelli di entrambi sono ciò che domina, in ordine, le tre scene, mai incentrate sui soli corpi e così adatte alla riflessione deleuziana sul primo piano (soprattutto rispolverandone le radici peirciane: sul banco la virtualità).

 

Dalla comunione di quanto detto si ricava qualcosa a proposito del desiderio: se gli esempi di stratagemmi sono smarginature, invasioni di campo che potrebbero mimare la non-autonomia del soggetto, le scene di sesso - soprattutto seguendo il tragitto che separa la seconda dalla terza - testimoniano il progressivo raggiungimento di una qualche verità.

Volendo essere troppo sintetici, molto di ciò che chiamiamo borghese implica una repressione - meglio: una deviazione, un mascheramento - di questa spinta desiderante e vive sulla centralità teorica del soggetto individuale.

 

In maniera altrettanto sintetica Breillat sembrerebbe denunciare entrambe le tendenze, tanto che si potrebbe essere portati a sostenere che la borghesia schermi culturalmente, in modo cioè apollineo, la naturale verità del desiderio dionisiaco (che comunque non si esprime solo a livello sessuale) e che il soggetto individuale possa formarsi solo a partire da una costitutiva dipendenza dall'Altro. 

Entrambe le ipotesi schivano però il fondamento della questione e poggiano su presupposti che invero hanno consentito di definire quella stessa ratio che avversano: la dicotomia natura/cultura nel primo caso, quella soggetto/oggetto-Altro nel secondo.

 

Ecco allora la tesi qui sostenuta: il dionisiaco non è la natura (spesso astorica) che verrebbe corrotta dalla cultura, soprattutto dalla (falsità della) parola, anche perché ciò vorrebbe dire augurarsi un chimerico ritorno allo stato edenico, posto come origine moralmente connotata in senso positivo. 

 

Dionisiaco e apollineo sono categorie extra-morali invero segnate da una sotterranea coappartenenza che sfilaccia qualsiasi dicotomia mutualmente esclusiva; su queste basi la parola non è un tappo che ostruisce l'orgia primordiale, ma semmai una sorta di sublimazione che non può mai abbandonare la dimensione naturale: il concetto nicciano di homo natura può mostrare bene, sostiene Vanessa Lemm, "l'animalità dell'essere umano come sorgente della sua creatività [apollinea, ndr]: come fonte di ciò che è umano e, nel suo modo di essere umano, naturale".

 

Ne consegue anzitutto che Ancora un'estate non attacca rigidamente (per opposizione punto-a-punto) il cosmo borghese, come del resto esplicitano la caratterizzazione di Pierre - solo qua e là troppo borghese: la scena di sesso in cui compare non è così fredda come si è scritto e presenta peraltro una temporalità affine alle altre - e alcune dinamiche familiari, che pare miope concepire solo come antitesi utili a far risaltare le rotture. 

Come a dire, senza che ciò voglia essere apologia della borghesia: non gettiamo il bambino con l'acqua sporca.

 

Nel mirino stanno semmai gli impieghi volutamente menzogneri della parola e quelli soporiferi da vernissage iper-borghese, in cui a essere addormentata è la vita, non la parola in sé, che potrebbe ancora servire la vita (altrui, di una ragazza maltrattata) ma nella stessa sede, quella giudiziaria, trasformarsi in dannoso esercizio di potere.

 

 

[Un frame da Ancora un'estate]

 

 

La possibilità di servire veramente la vita passa però anche da una presa di consapevolezza più radicale, che demolisce ogni sguardo ingenuo rivolto a una presunta purezza antidiluviana: il desiderio è infatti collocato, non può essere fonte limpida da cui è possibile attingere ora come allora.

 

Guardando al film si trovano due espressioni chiare di tale collocazione: in primo luogo il discorso di Anne sulla differenza tra la generazione sessantottina e la propria, la cui relazione col sesso è stata influenzata dalla catastrofe AIDS; in secondo luogo il modo di godere della protagonista, che porta le cicatrici di un trauma giovanile che ancora non riesce a tradurre in parola (salvifica? traditrice?).

Non si può cancellare la cacciata dal paradiso terrestre e lo stesso corpo non è davvero un Eden.

 

Ancora un'estate può però parlare ancora: la progressione delle scene di sesso, la loro estetica, le smarginature e ciò che ho scritto sul desiderio si complicano varcando la soglia del discorso sul soggetto.

Una considerazione preliminare concerne il come intendere la relazione tra Anne e Théo, ovvero il divario anagrafico e lo squilibrio di potere che si può individuare soprattutto applicando nozioni enciclopediche: che lei sia l'adulta e possegga più armi per ferire è indubbio, e tuttavia il film non consente di appiattire dinamiche più sfaccettate, non è né celebrazione né condanna di movimenti che sarebbe fin troppo comodo schiacciare attraverso quelle stesse griglie che obliquamente ne favoriscono la maturazione (moralmente connotata).

 

Le potenziali dinamiche di immedesimazione si inseriscono pienamente nel meccanismo e forse ondeggiamo nel reagire, interpretare ciò che vediamo, senza possibilità di aderenze convincenti.

Qui il discorso sul potere, che sembrerebbe toccare solo Anne, e quello sul desiderio si sfiorano non perché sia la teoria a imporlo, ma perché sono le immagini a suggerirlo (e la teoria serve semmai per accostarle): come scrive Foucault ne L'ordine del discorso, il potere - non così pacifico da definire - "Deve essere analizzato come qualcosa che circola […]. Non è mai localizzato qui è lì, non è mai nella mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene".

 

Il desiderio circola e indebolisce a tal punto la figura del soggetto da far percepire la presenza - meglio: la pressione - di un sostrato appunto intersoggettivo che certo non rende impossibile la formazione di individualità, solo ne illumina questa stessa (eventuale) formazione.

Ancora un'estate sembra diretto proprio a questo, contrastando-risignificando la dimostratività su cui paradossalmente poggia: a interpretare ciò che o non è mai messo in questione - così almeno si racconta chi ci prova - o è rigettato in toto, come se fosse possibile (e opportuno) estirpare ogni radice.

 

Assieme a una pars destruens che non ha gli eccessi in cui Breillat è già incappata e che si rivolge anche a un immaginario cinematografico definito, opera così anche una flebile pars construens che cerca di comprendersi nel discorso in/da cui si costituisce e ne approfondisce gli scarti.

 

Come reagiamo a quello che può arrivare teoricamente solo perché è espresso esteticamente dice qualcosa su di noi (a noi), o - meglio - dice qualcosa sulle nostre effettive interpretazioni, che non per questo sono tutte da buttare, anzi. 

 

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