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Perdersi per riscoprire l'Uomo - Conversazione con Simone Massi

Una chiacchierata sull'est-etica di uno dei più grandi animatori contemporanei

Ho incontrato il regista e animatore Simone Massi in occasione di Alice nella Città, sezione parallela della Festa del Cinema di Roma che ha dedicato due omaggi ai suoi corti e che, dopo la première mondiale a Venezia, ha mostrato al pubblico Invelle, il suo primo lungometraggio. 

 

Simone Massi ha anche condotto una masterclass di circa un'ora in cui ha ripercorso alcune tappe della propria carriera, inaugurata con Immemoria nel 1995. 

 

Ultimata la trascrizione di quella che più che un'intervista è stata una lunga conversazione, io e Simone abbiamo definito a quattro mani una versione conclusiva, dotata di lievi correzioni e di aggiunte rilevanti: per segnalare la composizione in due tempi e marcare contemporaneamente il passaggio di un periodo parecchio denso e significativo per Massi - a livello artistico e umano, come dimostra La strada dei Samouni - le postille più incisive sono segnalate graficamente in corsivo. 

 

"Animatore resistente", Simone Massi è uno dei più premiati registi dell'animazione italiana contemporanea e vanta un percorso esistenziale e lavorativo assolutamente singolare.

 

Per uno sguardo introduttivo sull'uomo e l'autore potete consultare il suo sito, specie la sezione Manifesto; minimum fax ha pubblicato nel 2014 Nuvole e mani (a cura del critico Fabrizio Tassi), che raccoglie 19 cortometraggi e contiene, oltre a svariati saggi, un contributo scritto di Massi, mentre nel 2021 ha pubblicato Libro di disegni.

 

 

[Simone Massi

 

 

Mattia Gritti 

Il saggio è di nove anni fa e tutto è smentibile, ma in Nuvole e mani dici di non trattare della morte. 

 

È vero che rimane rilegata nel fuori campo, anche se fuori campo non è l'espressione più corretta: parli di foglio-mondo, concetto dai legami filosofici piuttosto importanti e infatti non si dà propriamente un fuori campo come nel Cinema di finzione, non c'è segmentazione, semmai la prospettiva di una creazione totale, ex nihilo

La violenza emerge propriamente solo attraverso il sonoro, anche se - come hai ricordato nella masterclass - il rapporto tra immagini e sonoro non è affatto univoco.

 

Nuvole e mani, qualcosa di terragno, di pesante e qualcosa di leggero, sono un'ottica interpretativa che forse può essere compresa nella relazione, più ampia, tra finitezza e infinito. 

Finitezza: il peso dell'esistenza sulle spalle, come in Io so chi sono magari il peso degli antenati, della terra e il peso della morte, della mortalità, un'esistenza singola che comprime ciò che è già venuto.

Insieme alla finitezza però anche qualcosa che va oltre: la memoria cerca di andare oltre ma non può ricostruire, può solo mediare.

In questi termini, la morte è presente nei tuoi lavori?

 

Simone Massi 

Nei termini tuoi non so, perché poi siamo diversi e parliamo lingue diverse [ride, ndr].

Sono più un uomo... mi verrebbe da dire d'azione, se non facesse ridere: parlo poco e disegno tanto, quindi non sono sicuro che la mia idea coincida con la tua. 

Quello che ti posso dire, sempre abbia capito bene, è che hai ragione.

Ho ragione anch'io nel senso che la morte non c'è, non è rappresentata. 

 

Francamente, oggigiorno tutto è morte, siamo assediati e in ostaggio dello spettacolo della morte, e io di contribuire ad alimentare un meccanismo che porta paura, frustrazione, odio e terrore davvero non ne voglio sapere. 

Però c'è [la morte, ndr], e non potrebbe essere altrimenti perché racconto un mondo che di fatto non esiste più, che è morto; racconto di persone che non ci sono più, di una lingua che non c'è più: è come entrare in vecchie fotografie, ad aspettarci sono dei fantasmi che non hanno la truculenza né il peso fisico di chi è su questa terra e con la morte ancora ha a che fare.

Nelle mie animazioni c'è la memoria di un mondo fatto di persone che quotidianamente si confrontavano con la morte ed erano capaci di darla, ad esempio agli animali. 

 

MG

Di sicuro manca la rimozione della morte che, nonostante la sua esplosione rappresentativa, caratterizza il contemporaneo.

Rappresentata, ma scomparsa nella vita quotidiana; in quel mondo invece non è rappresentata ma, appunto, è quotidiana. 

 

Simone Massi

C'è una sorta di svuotamento, di pacificazione: ci sono delle cose che in vita ti hanno dato tanto fastidio, tanta rabbia, che hai vissuto come ingiustizie, ma quando la vita non c'è più credo (anzi sono abbastanza sicuro leggendo le testimonianze di quelli più anziani, anche quando parlavano di cose enormi come gli eccidi nazifascisti) che proprio la morte in sé è stata in qualche maniera svuotata.

È come se, alla conclusione della vita, certi accadimenti venissero ridotti a poca cosa; è come se non importasse più, o comunque non così tanto come in precedenza.

 

Questo l'ho riscontrato in tante persone, in quasi tutti i vecchi che ho conosciuto e quindi il mondo che racconto è un mondo che ha avuto a che fare tantissimo - forse troppo - con la morte. 

Già le generazioni che seguono non solo non sono più capaci di dare la morte, ma neanche di guardarla in faccia: vanno al supermercato, in macelleria, prendono la parte di animale che gli interessa...

 

MG 

Senza vedere quello che c'è prima.

 

Simone Massi 

E senza saperlo fare.

 

MG

Senza avere il coraggio di farlo.

 

Simone Massi 

Oggi - ripeto - ci viene concesso di assistere allo spettacolo della morte. 

A patto che tutto avvenga a debita distanza e tocchi sempre agli altri, sia chiaro: c'è la paura di sentire le grida della creatura che muore, di guardarla negli occhi mentre l'ammazzi.

Sarebbe comodo per la nostra coscienza vedere le vittime farsi assassinare in silenzio e senza tante storie, come fanno alcuni pesci.

Ma è un'ipocrisia recente. Fino a quarant'anni fa i bambini aiutavano i grandi ad ammazzare le creature che poi si ritrovavano a pranzo e cena.

 

Nell'epoca attuale non siamo in grado di procurarci quel pezzetto di animale che c'interessa mettere su un piatto, mentre in passato c'era un mondo che la morte l'aveva al fianco.

Ho fatto delle ricerche abbastanza approfondite sulla genealogia della mia famiglia: fino a un secolo fa i bambini morivano come mosche; una famiglia ha messo al mondo quattordici figli e nessuno ha superato l'anno di età, una cosa straziante.

Quindi come faccio a negarla [la morte, ndr]

Semplicemente mi rifiuto di mettere in scena lo spettacolo della morte, perché non sento il bisogno di unirmi alla schiera dei tanti macellai compiaciuti dal terrore e da fiumi di sangue. 

 

MG 

Magari non c'è la morte, ma c'è il senso della morte, forse.

Altrove c'è la morte, ma manca un senso.

 

Simone Massi 

Ho scritto in quella maniera sul libro perché, nonostante passi per autore tragico e venga cercato come autore tragico (i lavori che mi vengono commissionati hanno sempre a che fare con la violenza, l'efferatezza, le stragi, la morte), non ricordo - per assurdo - di aver mai disegnato una goccia di sangue.

 

MG 

Solo del vino.

 

Simone Massi 

La violenza e la morte non mi interessa disegnarle, devono obbligatoriamente rimanere fuori dall'inquadratura e ridursi a trucco, a sensazione: è una suggestione che do attraverso la colonna sonora e con piena consapevolezza. 

Un trucco che evidentemente ha funzionato benissimo visto che sono stato bollato come autore tragico avendo sempre trattato di poesia.

 

MG 

Forse è più un segno degli altri: manca il rapporto pacificato con la morte e quindi questa viene proiettata, mentre se tu non senti questo disagio...

 

Simone Massi 

I miei lavori sono senza dubbio malinconici. La malinconia la sento e ci navigo, perché fra tutti i sentimenti è, per me, quello che lascia più spazio alla creatività.

Non so dirti per quale motivo, credo sia anche poco importante. La malinconia mi permette d'afferrare dei legni galleggianti, d'arrivare in punti che alla fine mi commuovono.

La commozione e la rabbia tengono insieme il mio piccolo cinema artigianale. 

Però, se devo dire che vedo la morte, non la vedo. Forse si sente; se ci fosse la maniera per renderla nel Cinema come odore… 

 

MG

I film profumati di Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi facevano qualcosa del genere.

 

Simone Massi 

Fra i tanti pensieri che ho avuto, uno dei più sognanti è proprio questo: associare immagini, suoni e profumi. 

In quel caso, l'avrei associata [la morte, ndr] a un odore acre che non so spiegare a parole, che ho sentito diverse volte. 

Non era l'odore acre del dopo, dell'ammazzamento, o della polvere da sparo dei cacciatori che scendevano per ammazzar le prede.

Era un qualcosa che c'era nell'aria, che c'è ancora in determinate stagioni, e che per qualche motivo associo al sacrificio animale; delle giornate d'autunno o d'inverno in cui sento qualcosa e mi richiama automaticamente gli ammazzamenti animali.

 

Da dove viene non lo so.

 

 

[Dettaglio da un frame di Invelle]

 

 

MG

Per quanto riguarda l'infinito, invece, c'è questa figura del mare che torna, da Il mare di Pavese a (nel 2020, dopo Nuvole e mani) L'infinito di Leopardi. 

 

Anche Icaro in Invelle vede il mare, ricompare quel poggio da cui si cerca di scorgere il mare senza riuscire. Quindi il mare è l'infinito e anche qualcosa d'altro. 

Ma Ottorino dice con sarcasmo: cosa pensi che sia questo mare? È qualcosa da raggiungere, da rincorrere, per scoprire l'Altro?

Cos'è questo mare?

 

Simone Massi 

Il mare probabilmente è la molla che ci spinge avanti, che ci fa crescere. È il sogno, il desiderio di uscire, di lasciare tutto. 

Lo associo alla crescita e ti posso dire anche che in diversi lavori, compreso Piccola mare

 

MG 

Partiva anche quello da Pavese, no?

 

Simone Massi 

Sì, partiva da Pavese ma non solo.

Mi piace così tanto quel racconto breve perché non era solo Pavese, non ero solo io, non era solo mia nonna [che è centrale in Invelle, ndr]: era proprio un territorio, il mio.

Tutti noi potevamo riconoscerci: Pavese non narra solo la sua esperienza o quella delle Langhe, ma racconta anche di noi.

Quindi è un nostro racconto anche se l'ha scritto un autore che in linea d'aria abitava lontano.

 

Ti dico questo perché diversi anziani che ho interrogato sul mare lo raccontavano in maniera epica, più o meno nella stessa maniera con cui ho provato a raccontarlo nel film.

Veraldo, un mio amico di novantaquattro-novantacinque anni mi raccontava di questo viaggio al mare con una cugina di sua moglie, perché non l'avevano mai visto; e lui dice "andiamo al mare".

 

Ha un'Ape, non guida la macchina, e mi ha raccontato di questo viaggio straordinario, con queste due donne che vengono stese sul cassone dell’ape e coperte per evitare di essere fermati dai carabinieri.

E poi il resto s'è dimenticato di raccontarmelo: non è importante come lui o queste due donne hanno visto il mare, l'importante è l'idea del mare, quello che ti spinge a fare un viaggio del genere, in quelle condizioni. 

Lo stesso signore (che ha lavorato come contadino e muratore, praticamente semi-analfabeta; è l'ultimo che parla esclusivamente dialetto, che non sa l'italiano) ha un ricordo di lui bambino che interrogava i vecchi - quindi si parla di tantissimi anni fa, più di 85 - nei campi in cui lavoravano, nei punti più alti delle colline intorno a Pergola.

Si rivolgeva a questi contadini anziani che gli indicano, dai colli più alti, una strisciolina; non è proprio il mare, è una strisciolina…

 

MG 

Appunto, l'idea del mare…

 

Simone Massi 

Lui racconta che questi vecchi utilizzavano, riferendosi al mare, l'espressione "campo di spagna".

La spagna è un tipo d'erba che si dà ai conigli, alle bestie, e che evidentemente ha quel colore verdastro. 

Loro sapevano che era il mare, e dicevano: "guarda che campo di spagna!", come a dire che è infinito.

Non so se sottintendessero che con un campo del genere sarebbero stati apposto per l'eternità, ma è meraviglioso: non c'era l'ironia di prendere in giro il mare, c'era l'ammirazione di un miraggio, di un qualcosa di irraggiungibile.

 

Perché? Perché la vita dei contadini era quella, era impossibile anche solo pensare di prendere l'autobus per fare - vuoi ridere? - quei 35 minuti che ci separano dal mare.

Era davvero, per delle barriere invisibili che ancora abbiamo dentro, una distanza incolmabile.

 

Da un verso è stato meglio così, almeno per i sognatori, perché il mare te lo sei potuto immaginare.

 

 

[Dettaglio da un frame di Dell'ammazzare il maiale]

 

 

MG

Passiamo a considerare la mancanza di fondali fissi che caratterizza tutti i tuoi lavori, soprattutto dai graffi in poi [la tecnica introdotta nel 2006 con La memoria dei cani, ndr]: questa vibrazione pone, a mio modo di vedere, il problema dell'identità. 

 

In Tengo la posizione, prima della panoramica conclusiva, ci avviciniamo al soldato che regge il fucile e il suo viso cambia parecchio da un fotogramma all'altro, più di altre volte, davvero tanto. 

In Invelle, in un momento fondamentale che è una cesura Zelinda [il nome della nonna di Massi, ndr] scrive il suo nome nella stalla, afferma la propria identità. 

Questo traballare è un traballare anche esistenziale, che si riallaccia al discorso sulla finitezza, a maggior ragione in Invelle, in cui tante generazioni vivono ogni volta il dramma della propria epoca.

Sempre in Nuvole e mani dici di sperare che lo spettatore, nel rapporto col film, smarrisca temporaneamente la propria identità; quindi mi chiedo: globalmente, in questo rapporto con un film che già di per sé rinnova in maniera evidentissima la propria identità, forse perdendola alla stregua del fruitore, quali opportunità possono sorgere?

 

Simone Massi 

Dove può portare un discorso del genere non sta a me dirlo. 

Da spettatore mi trovo molto bene - anche se purtroppo succede di rado - nel momento in cui mi viene tolto il terreno sotto i piedi, nel momento in cui non ho le informazioni di base che sembrano obbligatorie.

Tutta una serie di informazioni che noi chiediamo, altrimenti sembra che non riusciamo a seguire il film; o forse è effettivamente così: non riusciamo a seguirlo. 

Io invece amo solo quel tipo di film, e sono veramente pochi: quando mi vengono chiesti i riferimenti ne so dare appena un paio, Andreij Tarkovskij e Theo Angelopoulos. 

Mostrano personaggi senza identità; sappiamo che sono in Russia o in Grecia, ma è una nostra associazione, siamo noi che colleghiamo le cose (anche perché poi con il doppiaggio si perdono veramente le informazioni di base).

 

Siccome il Cinema che amo è quello, nei miei progetti provo - principalmente per me stesso - a cercare quel tipo di effetto. Nei cortometraggi ho sempre tolto la parola ai miei personaggi, non ci sono dialoghi, non ci sono identità; ci sono luoghi che, certo, vengono riconosciuti come la campagna marchigiana, ma potrebbe essere anche la campagna umbra, toscana e di chissà quanti altri posti che non ho visto. 

Esiste, c’è, e comunque non è così importante: c’è la vibrazione che fa sì che una linea possa essere ora più curva, ora meno.

Non è quello: è un luogo ideale in cui vengono calati questi personaggi. 

 

MG 

Un nessun-luogo. 

[mi riferisco al significato della parola "invelle" in marchigiano e uso questa formulazione bizzarra per evitare sovrapposizioni con il non-luogo di Marc Augé, concetto dal significato peculiare che Massi ha sorprendentemente sfiorato in questa intervista in un modo che, tuttavia, non mi pare esaurisca il discorso sull'identità, ndr]

 

Simone Massi 

Non mi interessa farlo, non sono né un intellettuale né un antropologo.

Più ancora che questo: non sono un curioso, non indago le ragioni che mi spingono in una direzione o a fare delle scelte.

Come logica conseguenza non ho nessun messaggio alla nazione, niente da dichiarare, men che meno da insegnare.

Mi interessa uscire dal meccanismo del tempo e dello spazio, avvicinarmi al sogno, al pensiero e al ricordo.

 

Per questo, credo, nei miei lavori ci sono tanti invelle e non-personaggi.

Questo mi consente di creare un vuoto, la sensazione di spaesamento di cui si parlava e in cui lo spettatore ha due possibilità: alzarsi e andarsene oppure lasciarsi guidare; come dire: "lascia perdere tutto, smetti di ragionare, di annodare i fili!"

Non saprei come meglio spiegarlo: lo spettatore che si siede e ha davvero voglia di vedere i miei lavori deve accettare di darmi la mano e seguirmi.

 

È una sorta di camminata nei luoghi della memoria e si deve essere capaci di stare in silenzio, di guardare senza fare collegamenti, senza giudicare, forse senza neanche pensare.

Questo tipo di esperienza è alla base dei miei lavori: è quello che provo a fare ormai senza nemmeno troppi artifici, perché mi viene naturale concepire le storie in questa maniera.

 

Per quanto riguarda il lungometraggio la fatica più grossa è stata proprio dover scrivere, essere obbligato a scrivere - cosa per me nuova - pensando non tanto al film che avrei fatto (perché ero sicuro, al di là di tutto, che lo avrei ripreso in mano per farne esattamente ciò che volevo) ma a come quel mucchio di fogli di carta sarebbe finito nelle scrivanie dei burocrati o delle persone che decidono ogni giorno se un film si fa o non si fa, se lo sostengono o non lo sostengono.

Quello è stato drammatico, perché - per come ero abituato a lavorare - era la negazione della libertà; quello che chiedevo allo spettatore non potevo chiederlo al Ministero.

Però ho preso quest'occasione con lo spirito giusto, accettando di uscire dalla mia comfort zone per vedere se ero in grado di fare un film come l'avevo in testa pur partendo da un modo di lavorare completamente diverso rispetto al passato.

 

MG

Ritorno su un punto della domanda precedente, su quanto il discorso sull'identità, sul perdersi, sia incorporato direttamente nel film. 

Questo rincorrersi e cercare un'identità o non trovarla mai, ad esempio in Invelle.

 

Simone Massi  

La questione dell'identità per me assomiglia molto al discorso fatto sul mare, con l'idea che il valore stia nell'essere costretti a muoverci e a perdere nel senso più ampio del termine.

Lasciare andare, rinunciare, smarrire, essere sconfitti: è quello che mi preme ma non ho una formula o una mappa utile a raggiungere lo scopo; e che si possa ritrovare nel film o meno non sta a me dirlo. 

Quello che posso dire è che in Invelle delle concessioni in più rispetto ai cortometraggi ci sono, perché i personaggi talvolta parlano.

Ma come parlano? Spesso con la voce fuori campo, altre volte senza lip-sync, quindi con le parole che non seguono il labiale.

Ho cercato veramente, dove potevo, di riprendermi tutta la libertà che il linguaggio del lungometraggio andava a togliermi.

 

L'identità [in Invelle, ndr] è praticamente quella dei tre bambini; gli stessi protagonisti, diventati adulti o anziani, non vengono più chiamati per nome. Zelinda bambina ha diritto a un nome, mentre quando diviene adulta - al pari dei tanti fantasmi che la circondano - non ne ha più bisogno, in qualche maniera appartiene al passato.

 

Il protagonista è il bambino, e il bambino - pur con mille dubbi all'inizio - non mi dispiace abbia un nome, mentre agli adulti davvero non serve. 

 

 

[Dettaglio da un frame di A guerra finita]

 

 

MG

In Nuvole e mani dissenti apertamente con Calvino in merito al rapporto tra opera e autore.

 

Ti definisci narratore, e lo spaesamento è sicuramente creato dalla narrazione con l'assenza di riferimenti; lo crea anche uno stile parecchio impattante, qualcosa che va al di là della comune accezione di narrazione e che - per così dire - arriva tutto insieme [forma e contenuto, ndr].

Lo spettatore si trova però davanti a uno schermo: quando dici l'uomo prima dell'opera, cosa intendi? L'autore o il luogo in cui può nascere quell'arte, perché sussiste un retroterra pratico, etico?

 

Simone Massi 

Lo spettatore si trova davanti a uno schermo, è vero; ma lo schermo per definizione non è un ostacolo, anzi: diffonde, riflette, lascia passare e vedere. 

E sullo schermo non passa solo una storia, si mostra anche il suo autore. 

Per questo sostengo che per me l'Uomo [d'ora in poi sarà impiegata la maiuscola per marcare il particolare impiego della parola, attingendo anche da tutto ciò che di verbale e non-verbale inevitabilmente sfugge in una trascrizione, ndr] viene indiscutibilmente prima del mestiere che fa e delle opere che produce, non può essere altrimenti. 

Non posso pensare di fare un buon lavoro se non sono onesto, cioè se non conosco a fondo la materia di cui parlo, se non la sento fortemente mia: insomma, se l'opera non dice di me. 

 

Vale anche per lo spettatore: non mi interessa piacere o essere capito da tutti, è folle soltanto pensarlo.

Per conto mio il pubblico può e deve alzarsi se non accetta il tipo di narrazione che propongo, il vuoto che gli apro sotto i piedi.

 

In sala a Venezia c'era un numero sconsiderato di persone - mi sembra che tenga 1200 persone, c'era chi parlava di 1000 presenze [si riferisce alla Sala Darsena, in cui è Invelle è stato mostrato per la prima volta al pubblico; dal 2014 la capienza è di 1400 posti, ndr] - e se ne sono andati veramente in pochi: ne ho contati sei o sette, quando il film tra l'altro stava per finire, sono usciti alla fine.

Al riaccendersi delle luci, una cosa veramente fuori dal mondo: sei minuti ininterrotti di applausi.

E poi la commozione: tante persone, li vedevo nel momento in cui hanno acceso la luce, avevano le lacrime agli occhi. 

Lì ho avuto la consapevolezza che il messaggio era arrivato esattamente come doveva arrivare, e quindi che c'erano degli Uomini che guardavano un film fatto da un Uomo, non degli intellettuali, dei professori, dei critici o dei contadini che guardavano l'opera di un regista.

C'erano degli Uomini che guardavano il lavoro fatto da un Uomo e che parlava di Uomini.

 

MG

Per il rapporto con la finzione, sicuramente l'animazione è un motore di libertà proprio perché si svincola dalla parte riproduttiva del Cinema tradizionale.

Probabilmente anche Pittore, aereo con quell'esplosione dalla foto [questa è la sinossi del corto scritta da Massi: "nell'istante in cui viene fotografato, il pittore Anton Raderscheidt fa il sogno della camicia rossa", ndr] segna il superamento esplicito di questo carattere mimetico.

 

Visto che siamo in tema [considerando anche che Massi nel 2018 ha animato La strada dei Samouni di Stefano Savona, ndr], Jean-Luc Godard ha affermato che la finzione è per gli israeliani e il documentario è per i palestinesi, tenendo distinte le due forme.

Qualcun altro ha però ribaltato la prospettiva: per Jacques Rancière [filosofo francese che interpreta così le parole di Godard: "significa che il documentario è per le vittime; per le vittime si fa un documentario, è la realtà, non la si abbellisce", ndr] è proprio con l'illuminazione caravaggesca che il regista Pedro Costa, ad esempio, riscatta gli oppressi, non rendendoli protagonisti di un documentario. 

Tu parli degli ultimi, di quelli che sono rimasti fuori dalla Storia (anche se magari non dalle storie, come ami sottolineare), e questo rapporto con la finzione o con un realtà che sarebbe precedente è un punto di intensità: quando devi criticare un tuo film, in Nuvole e mani, dici che è un film di finzione.

Come stanno insieme la libertà di espressione che supera la realtà e questa tipologia di critica della finzione?

 

Simone Massi 

L'ho detto solo su Adombra mi pare, perché in quella fase di ricerca [dal 1995 al 1999, ndr] - che è stata essenziale, non potevo risparmiarmela - c'è stato anche quel tentativo, subito abbandonato, di concepire l'animazione come fosse stato un film di finzione.

Sembra ridicolo dirlo, ma lo dico lo stesso: il problema a monte di tutto quanto era lo stacco.

Adombra è un film non riuscito, per quanto fosse andato bene ai festival e avesse vinto dei premi: non se n'è accorto nessuno, me ne sono accorto io che non era la mia strada, perché era l'animazione che simulava la finzione e quindi non aveva nessun senso; tanto valeva prendere attori in carne e ossa e filmare con la macchina da presa. 

 

Ma l'animazione non può essere quello: l'equivoco storico del Cinema di animazione è ridurlo a caricatura, quindi personaggini buffi, coloratissimi, che fanno cose per intrattenere e divertire i bambini.

L'alternativa era, come spesso hanno fatto le grandi case di produzione americane e giapponesi, fare un Cinema d'animazione che fosse iperrealista, che simulasse...

 

MG 

Nel libro scrivevi di questa frustrazione che sta al fondo, la frustrazione di non poter essere quello [riproduttivo, ndr], con la conseguenza di seguirlo troppo o storpiarlo.

 

Simone Massi 

Appunto: una volta che capisci che non va bene né l'una né l'altra strada, fai quello che non può fare il Cinema di finzione, il Cinema documentario e - mi permetto di dire - anche l'animazione 3D, perché ormai è talmente vicina alla perfezione del vero che non la distinguo più. 

Fin quando non entra in scena il personaggio non so dire se il vaso di vetro è vero oppure è 3D, perché è uguale. Però era importante confrontarmi con quel tipo di linguaggio prima di rifiutarlo.

 

MG

Qui entra in gioco lo stacco come figura concettuale.

 

Simone Massi

Avendo sempre fatto piani sequenza non riesco a ragionare per stacchi. 

Però, all'epoca, quasi venticinque anni fa, avevo anche il problema di far diventare il Cinema d'animazione un mestiere; e mestiere significa che alla fine del mese hai uno stipendio.

Non potevo pensare che avrei avuto sempre la libertà di fare il Cinema come pareva a me: avevo messo in conto che sarebbero potuti arrivare dei lavori su commissione che avrebbero richiesto un tipo di animazione ora vicino ai bambini, ora fatto con gli stacchi, con quel linguaggio classico che tutti conosciamo. 

 

In quell'ottica, sperimentando, ho voluto fortemente confrontarmi sia con il cartone animato classico, anche se non è finito nelle raccolte, sia con un film come Adombra, che segue il montaggio tradizionale con campi, controcampi e stacchi.

 

 

[Dettaglio da un frame di Fare fuoco]

 

 

MG

Per quanto riguarda i film su commissione, passiamo brevemente a Fare fuoco. 

 

Tu non eri convinto di questo esito, Fabrizio Tassi e Stefano Franceschetti - rispettivamente giornalista curatore di Nuvole e mani e maestro di Massi alla Scuola d'Arte di Urbino - sono invece sono molto positivi, come me. 

Per certi versi, mi pare quasi un Franz Kline animato, con quel colore, quel tratto. Non è a graffi, risponde a esigenze produttive diverse, tempi parecchio ristretti; quindi, mi rendo conto che dalla tua prospettiva ci sia qualcosa che non funziona, non avendogli dedicato il tempo che volevi.  

 

In Fare fuoco però, secondo me, il discorso sugli spazi, sul vuoto [che Massi sottolinea di frequente in relazione agli altri cortometraggi, ndr] e su queste macchie che si muovono in maniera estremamente significativa è centrale.

Hai cambiato idea sul film nel tempo?

 

Simone Massi 

Sì e no. Un autore come me per poter fare un lavoro buono, o che comunque ritiene soddisfacente, deve avere la libertà. 

Per un periodo, i lavori su commissione li ho tenuti fuori dal mio curriculum, li mettevo in un'altra sezione perché non riuscivo a considerarli totalmente film miei. 

 

Senza libertà faccio delle cose - non dico brutte: se fossero brutte non le farei e non le firmerei - che mi lasciano sempre un senso di incompiutezza, di insoddisfazione; se avessi avuto libertà piena, sono sicuro che avrei potuto fare meglio, non solo diversamente, ma meglio.

Spesso e volentieri chi commissiona è presuntuoso, e viene a dire a me come fare; una regista olandese ha riconosciuto che mettere il becco sulle scelte registiche, negarmi la libertà di interpretare anche le transizioni tra scena e scena, è una cavolata.

Dipende sempre dall'umiltà dei registi: chiedono, all'interno del loro film, un mio inserto e mi chiamano non come regista, ma come mano.

La mia mano serve per fare idee che non c'entrano niente con il mio mondo; e alla fine loro sono contenti perché vedono materializzarsi le loro idee con il mio segno dei graffi, solo quello gli importa. 

Però non è un film di Simone Massi all'interno di un film di un altro autore: è la mano di Simone Massi che interpreta il pensiero di altri.

 

MG

Il brand Simone Massi.

 

Simone Massi

Ecco, e io francamente non ci sto, non posso essere contento perché del mio mondo, del mio sentire, del mio stile, non c'è niente.

 

MG 

Fare fuoco entra nel curriculum?

Che libertà hai avuto innanzitutto per ideare quello stile così diverso?

 

Simone Massi

La libertà narrativa ce l'avevo, tranne il finale. 

 

MG

Che doveva essere positivo, o comunque più aperto.

 

Simone Massi

Il contrario: si doveva vedere la morte del protagonista.

 

MG

Appunto, intendevo questo, perché tu volevi realizzarlo senza la morte.

 

Simone Massi

Esatto, quello mi è stato imposto e mi ha dato un po' fastidio. Però il guaio maggiore è stato il tempo, l'aver avuto due-tre mesi per fare un lavoro che avrebbe richiesto un anno.

Sono abbastanza abituato ad arrangiarmi con quello che ho a disposizione, però una povertà simile, in questo caso non di mezzi ma di tempo, è abbastanza spiacevole. 

 

MG

Quindi il tratto è figlio semplicemente di questa necessità?

 

Simone Massi

Non solo il tratto, ma anche delle scelte registiche, come i cicli, che vanno avanti il più possibile.

 

MG

Per guadagnare tempo, appunto.

 

Simone Massi

Per prendere tempo, per riuscire a coprire la durata che mi era stata richiesta. 

Da un lato mi si chiedeva una durata che implicava due anni di lavoro e poi mi venivano concessi tre mesi di tempo.

Non credo che sia possibile in nessun'altro mestiere: non chiedi ai piloti della Ferrari di guidare la macchina se ha solo una ruota montata, non vai al supermercato con un euro e riempi il carrello, non è possibile.

Nel mio caso c'è invece questo paradosso: i committenti dicono di capire quello che c'è dietro al mio lavoro, ma evidentemente (inconsciamente) non riescono ad andare al di là del luogo comune che vuole il disegno come un gioco per bambini.

"Mi fai un disegno? Dai, che ti costa? Uno come te in tre minuti mi fa un disegno".

 

Quindi probabilmente è per quello, altrimenti sarebbe una mancanza di rispetto molto grave, perché con pochi mezzi a disposizione non vai a chiedere cose che non sono alla tua portata.

 

 

[Dettaglio di un frame della sigla realizzata da Massi per la Mostra di Venezia (2012-2016)]

 

 

MG 

Questo pregiudizio è forse più italiano che francese [Arte-France e Sacrebleu hanno prodotto La memoria dei cani e Nuvole, mani, ndr]: la questione è culturale.

 

Simone Massi

Penso di sì.

 

MG

Vedi qualche luce all'orizzonte?

 

Simone Massi

Invelle a Venezia ha preso il premio Lizzani, assegnato dagli esercenti coraggiosi. 

Quelli sono Uomini, sono gestori di sale cinematografiche che vengono premiati da una commissione e ricevono un premio dal Presidente della Repubblica perché hanno fatto scelte coraggiose, diverse da quelle che fanno tutti gli altri gestori, diverse dai multisala che pensano unicamente a monetizzare.

È un premio che per me vale triplo, dato da persone che sento molto vicine.

 

MG

Premio a cui si aggiungono le lacrime degli spettatori che non sono usciti, il che a Venezia non è scontato, perché so che capita di prenotare un film solo per riempire un buco e poi, dopo aver visto che non fa per te, di uscire. 

Che non sia uscito praticamente nessuno per un film del genere, nonostante tu non sia affatto uno sconosciuto, è in qualche modo già un traguardo. 

 

Simone Massi

Ti dirò di più: la cosa che ha sorpreso tanti, me compreso, è il fatto che all'ingresso sono stato salutato dagli applausi.

Pensavo fosse scontato, un gesto abituale, di cortesia: mi hanno detto che non è così. Poi c'è stato un secondo momento, quando tutti sono seduti, in cui la voce annuncia il titolo del film e fa alzare per un saluto il cast: nel mio caso hanno fatto alzare soltanto Marco Baliani [una delle voci di Invelle, ndr] e il secondo e ultimo nome è stato il mio.

Al mio alzarmi, e c'erano diversi testimoni…

 

MG

C'ero anch'io in sala.

 

Simone Massi

Ah, allora hai sentito… [ride, ndr]

Mi hanno dedicato circa tre minuti di applausi, una cosa incredibile… E degli amici critici mi hanno detto che non è proprio una consuetudine.

Torno al discorso in contrapposizione a quel pensiero di Italo Calvino: l'ho preso come un applauso all'Uomo.

Non potevano aver visto il film, non sapevano quello che avevo prodotto: avevano capito il tipo di persona, il tipo di percorso che aveva fatto, la scelta che aveva fatto e quello che gli era costato questa scelta.

Sono abbastanza sicuro che una parte - certo non tutti - delle persone che hanno applaudito così tanto stava applaudendo l'Uomo; io di questo ne sono sicuro.

 

Per assurdo, è stato quello che mi ha emozionato, mi ha toccato anche più dei sei minuti finali. 

I sei minuti erano al film - "bello, bravo, hai fatto un buon lavoro, mi hai commosso" - ma quell'applauso iniziale era alla persona, all'Uomo. 

 

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