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La strada verso il successo e la gloria di una giovane band finlandese nel contesto più grottesco, esagerato e volutamente demenziale (in senso positivo) possibile.
Detto così sembra un film da evitare come la peste ma, credetemi, ho visto raramente una sala intera ridere così di gusto, dai giovani metallari come me alle signore sulla sessantina, passando per tutti i generi, gli stili e le età.
Quando un film riesce a mettere d'accordo un pubblico così eterogeneo e cinefilo/appassionato da presentarsi in sala alle 9.30 di sabato mattina, evidentemente qualcosa di buono sotto deve esserci.
Il film di Juuso Laatio e Jukka Vidgren è infatti un film che vive totalmente della sua grandissima scrittura, offrendo una sceneggiatura che, nella sua follia e nella sua esagerazione, riesce a essere sempre puntuale nello scandire atti e figure fondamentali.
Cosa piuttosto rara, soprattutto nel mondo della commedia demenziale.
Ancora più rari sono tempi comici così azzeccati, perchè se è vero che provocare una risata con un gesto stupido come vomitare sul pubblico è becero, è altrettanto vero che è difficile farlo per due volte nello stesso film senza sembrare posticci o risultare fastidiosi.
Ancor più divertente è il modo in cui i due registi finlandesi giocano con i cliché di un mondo così dogmatico e chiuso come quello dei metallari (lo dico con affetto, non in senso negativo).
Infatti, i tòpoi utilizzati convivono costantemente con un amore viscerale degli autori del film per il mondo che stanno prendendo in giro: da un lato abbiamo un metallaro che - con la maglia dei Cannibal Corpse, capelli fino alla vita e chiodo d'ordinanza - porta in graziella un mazzo di fiori ad uno degli ospiti dell'ospizio in cui lavora; dall'altro un membro della band che cita a menadito centinaia di pezzi storici dell'heavy metal.
E poi ancora il folle viaggio su un pullman viola glitterato con sopra la bara del batterista morto.
Tuttavia, il film non è solo un insieme di situazioni grottesche e luoghi comuni, ma ha anche un paio di spunti - seppur molto semplici ed abbozzati - di tutto rispetto.
Ad esempio il modo in cui il piccolo paese cambia completamente opinione sulla band o come, seppur in maniera sovraccarica, vengano mostrati l'energia violenta e repressa della polizia e il cameratismo tipico dei movimenti underground (prima proposto all'interno della band e poi ripresentato durante il festival).
Inoltre è interessantissimo il modo in cui i membri della band si costruiscano un'immagine e, successivamente, riescano a garantirsi l'accesso al festival da trionfatori solo per una serie di dicerie ed equivoci, mostrandoci come la fama e le possibilità siano effimere e difficilissime da raggiungere.
Anche la messa in scena è mirabilissima e qui ritorno sul gioco di cliché di cui abbiamo già parlato.
Una scena in tal senso è emblematica: il frontman della band finge di suonare nei corridoi della casa di cura in cui lavora.
In un'immagine così semplice possiamo osservare come basti pochissimo a chi sceglie come riprendere una data situazione per cambiarne completamente l'effetto: prima, con la musica di sottofondo e con l'immaginazione che va mille, il ragazzo sembra il più figo degli Alexi Laiho; poi, in un attimo, la musica viene stoppata e, con un taglio di ripresa diverso sulla sua figura (semplicemente un angolo e uno sfondo "meno potenti"), diventa improvvisamente l'ultimo degli sfigati.
Ogni anno al Torino Film Festival incrociamo almeno una commedia esilarante, di altissimo livello tecnico e di scrittura, che potrebbe tranquillamente accaparrarsi un posto nelle sale e ottimi incassi... se non fosse australiana o finlandese.
Quest'anno credo proprio sia il caso di Heavy Trip.
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6 commenti
Mattia Malaspina
3 anni fa
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Sebastiano Miotti
3 anni fa
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