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Ombra di fuoco - Recensione: le fiamme del peccato - Venezia 2023

Il Giappone post-atomico negli occhi e nel corpo di un bambino 

Nel 2014, Fires on the Plain, rifacimento del capolavoro antimilitarista di Kon Ichikawa del 1959 (già tratto dal romanzo omonimo di Shōhei Ōoka) e presentato nel concorso principale a Venezia, ci portava nelle Filippine per mostrarci le fasi finali del secondo conflitto mondiale, aggrappandosi al corpo e allo sguardo di uno Shinya Tsukamoto che, per sineddoche, incarna l'agonia dell'Impero nipponico. 

 

La crudezza classicheggiante di Ichikawa lascia spazio allo stile iper-cinetico di un autore che, tra montaggio e macchina a mano, restituisce l'urto anzitutto sensoriale della guerra, in un eterno presente che partendo dal corpo non può che inscriversi anche nella mente: con una significativa variazione rispetto al suo antecedente, Nobi si conclude con una serie di dissolvenze incrociate che fondono il viso di Tsukamoto/Tamura, ormai in salvo, e il fuoco (perenne).

 

Nel 2018, il jidai-geki Killing, presentato nel concorso principale a Venezia, sposta in avanti le lancette al secondo Ottocento per evidenziare il passaggio concettuale dallo shogunato Tokugawa al periodo Meiji.

 

Con un acuto cortocircuito intertestuale, Zan riprende idealmente dagli ultimi frame di Nobi: le fiamme che segnalavano l'insostenibile permanenza del conflitto ora forgiano una katana e introducono la parabola del giovane samurai Mokunoshin, incapace di uccidere e accompagnato da Tsukamoto - nelle vesti del mentore - verso il più terribile degli svezzamenti.

 

[Il trailer di Ombra di fuoco]

 

 

Nel 2023, Ombra di fuoco, presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 2023, si accomoda sotto il fungo atomico per definire una trilogia informale che ha ormai affrontato la catastrofe bellica sotto ogni prospettiva temporale.

 

Queste le parole del regista, che stavolta nega il proprio corpo attoriale:

"Il film narra di un fuoco e delle ombre in continuo movimento che questo proietta tutto intorno, ma soprattutto delle persone che vivono nascoste tra queste ombre. […] 

Dato che il mondo si sta allontanando dalla pace, mi sono sentito in dovere di girare questo film, come se fosse una preghiera".

 

La prima metà di Hokage è interamente ambientata in interni in una casa-ristorante-bordello del mercato nero, in un mondo in cui la devastazione definitiva è piombata dal cielo. 

Persa la propria famiglia, la protagonista interpretata da Shuri sbarca il lunario prostituendosi, e il primo incontro con questo dato segnala fin da subito la lettura di Tsukamoto: un cliente varca la soglia di una casa che non sappiamo ancora essere un bordello e si avventa con violenza sulla donna, visibilmente riluttante.

La sensazione immediata è quella di avere assistito a uno stupro.

 

Tsukamoto non percorre però la tragicità (e le potenziali promesse di empowerment) di questo sentiero: non dai diamanti ma dalla macerie architettoniche e umane nasce infatti un fiore fragilissimo, che richiama alla mente la poetica di Hirokau Kore'eda in Un affare di famiglia.

 

Un orfano di guerra (Oga Tsukao) e un soldato smobilitato (Hiroki Kono: d'ora in poi mi riferirò ai personaggi tramite i nomi degli attori), dapprima cliente di Shuri, si stabiliscono gradualmente nella casa-ristorante-bordello dove germoglia un equilibrio estremamente precario: va assemblandosi un sentimento familiare che prescinde da quei legami di sangue (anche idealizzati: il nodo è l'essenzializzazione) che su vasta scala oppongono in fondo alla valle due uomini con l'anima in spalle.

 

Tsukamoto si sofferma in prima battuta su questo miracolo che, comunque, non può rimarginare le ferite: Shuri piange regolarmente i propri cari e sviluppa una malattia che, d'origine radioattiva o sessuale che sia, trova negli eventi bellici la propria causa; Oge accusa sovente delle febbri notturne che lo mandano "a fuoco"; Hiroki non riesce a lavorare e non sopporta il rumore di quegli spari isolati che talvolta esplodono nel mercato.

 

 

[Shuri in Ombra di fuoco]

 

 

Proprio le debolezze di Shuri e Hiroki favoriscono l'ascesa di Oge a chiaro protagonista della seconda metà di Ombra di fuoco: il ragazzino che provvedeva a sostentare la neo-famiglia attraverso piccoli furti e che era anche riuscito a reperire una pistola, ora si trova collocato là dove ogni affluente discorsivo converge, diventando banco di prova per una società intera. 

 

Se le scorribande criminali prendevano ovviamente le mosse dalla devastazione, la sua contraddittoria educazione morale viene avviata da un reduce che lo trascina in un'impresa inaspettata: un barlume di speranza (eternamente destinato a spegnersi?) potrà eventualmente sorgere solo dopo una dolorosa presa di coscienza ben al di là delle responsabilità strettamente individuali. 

 

Ombra di fuoco affronta così il post-bellico senza abbandonarsi a determinismi discutibili, affiancando necessariamente al racconto degli effetti ciò che sul trauma - intersoggettivo - si può edificare.

Potrebbe sembrare un film a tesi, dimostrativo, e in effetti così è: gli strumenti della retorica però non sono impiegati in maniera ricattatoria e la dimostratività, che non è un concetto intrinsecamente negativo, riconosce che il livello su cui bisogna muoversi è quello estetico. 

 

Il sonoro espressionista e la mobilità della macchina da presa sono sì meno carichi rispetto ad altri lavori (senza che ciò sia motivato, per esempio nella prima metà, dalla prevalenza di scene in interni: Kotoko è già stato esplicativo), ma - assieme a squarci stilisticamente urlati - riescono ugualmente a veicolare quel senso di irrequietudine che solca la quiete dopo la tempesta. 

 

Nel suo indubbio rigore, Ombra di fuoco risulta straziante proprio grazie a una partitura emotiva che, nuovamente, arriva alla potenza della narrazione solo insieme al sensoriale, tenendo saldo il proprio nobilissimo scopo, perché l'umanismo è una questione estetica. 

 

Francamente incomprensibile l'esclusione dal concorso principale di un'opera che, al di là di una qualità da Leone, parla inequivocabilmente all'oggi europeo (volendo restringere l'orizzonte culturale di una Mostra che sotto la direzione di Alberto Barbera ha già imboccato questa strada, rispetto alla precedente gestione di Marco Müller). 

 

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