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Arancia meccanica: si può cambiare un uomo?

Riflettere sul libero arbitrio attraverso la violenza

A chi non è mai capitato? Di camminare in un MediaWorld o in un vecchio Blockbuster, alla ricerca di un film da noleggiare o di un videogame da acquistare, ed essere all’improvviso attratti dalla copertina di un DVD?

Magari perché particolare o suggestiva, o magari per la sua capacità di trasmettere istantaneamente una sensazione di curiosità.

 

La prima volta che entrai in contatto con Arancia meccanica fu proprio in una circostanza del genere. Camminando per gli scaffali pieni zeppi di titoli fui incredibilmente colpito dalla copertina del film, una delle più iconiche della storia del cinema, raffigurante il primo piano di Alex DeLarge: bombetta alla Charlot, completo bianco, occhio truccato, coltello in mano, ghigno ferino stampato sul viso e sguardo mefistofelico, che incrocia inevitabilmente il nostro.

Impossibile da dimenticare.

 

 

 

 

 

A volte basta già questo per far entrare un film nella leggenda; la sua capacità di colpire lo spettatore e far parlare di sé, indipendentemente dal fatto di averlo visto o meno.

Arancia meccanica fa parte di questa cerchia: tutti lo conoscono, tutti ne hanno sentito parlare almeno una volta nella vita e in molti casi, come nel mio, sono stati rapiti da quella celebre posa del teppista londinese stampata come cover.

 

Dopo l’uscita di 2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick aveva già in mente quello che sarebbe stato il suo prossimo progetto: un kolossal biografico su Napoleone Bonaparte, dal titolo Waterloo.

 

Il regista newyorkese era sempre stato affascinato dalla storia e attratto dalle figure dei grandi condottieri, con cui sentiva di condividere l’ambizione smisurata e il desiderio di successo.

Ma per una serie di motivi, primo tra i quali la difficoltà a trovare finanziatori dovuta agli insuccessi commerciali in cui i precedenti film su Bonaparte erano incappati, l’opera non avrebbe mai visto la luce.

Nel 1969 Kubrick si convinse quindi ad abbandonare l’idea e a focalizzarsi su qualcosa di più realizzabile.

 

Fu allora che si ricordò di un romanzo che aveva letto anni addietro durante le riprese de Il Dottor Stranamore, dietro consiglio dello sceneggiatore e amico Terry Southern (ideatore, tra le altre cose, del soggetto di Easy Rider).

Quel romanzo si intitolava Arancia meccanica, di Anthony Burgess; il film omonimo, destinato a diventare uno dei titoli più controversi di tutta la storia del cinema, sarebbe uscito nel 1971. 

 

 

 

 

 

Il clamore mediatico e l’impatto socio-culturale furono incredibili.

La figura del delinquente con la bombetta nera e il completo bianco (il candido che contrasta con il nero dell’anima, per questo ancora più efficace) è entrata nell’immaginario collettivo.

Nemmeno si contano le citazioni che si sono susseguite nel corso degli anni dalla tv al cinema, delle quali le due più famose sono probabilmente riscontrabili in Funny Games di Michael Haneke (l’intero film è di fatto ispirato all’opera di Kubrick) e in C’era una volta in America di Sergio Leone (la spassosa scena dello scambio dei braccialetti dei neonati nella nursery ospedaliera).

 

Inoltre, il rivoluzionario utilizzo del soundtrack che attinge in toto dalla musica classica (con eccezione di Timesteps, unico pezzo originale) e che era già stato messo in atto da Kubrick nelle sue opere precedenti, 2001: Odissea nello spazio e Il Dottor Stranamore su tutti, ha fatto scuola fino ai giorni nostri.

Il regista Rob Reiner, ad esempio, ha dimostrato tutta la sua gratitudine a Kubrick e al suo capolavoro quando decise di utilizzare il magnifico “Sonata al chiaro di luna” (di Beethoven, fai caso) come accompagnamento musicale della disturbante scena del martello in Misery non deve morire.

 

Ancora oggi, a quasi cinquant'anni di distanza, Arancia meccanica conserva intatta la sua forza espressiva dirompente.

 

Il significato filosofico e gli spunti di riflessioni offerti dal film, su società, politica e giustizia, uniti al lato prettamente tecnico della realizzazione, dalla regia al montaggio, hanno contribuito a elevarlo a capolavoro immortale e a lanciare definitivamente Kubrick nell’Olimpo dell’Arte, appena tre anni dopo l’Odissea.

 

 

 

 

 

Se 2001 esordiva con la schermata completamente nera, Arancia meccanica, al contrario, inizia con uno sfondo di un rosso acceso; rosso come il sangue, rosso come la passione.

Per definizione, il colore che colpisce maggiormente l’occhio umano e che trasmette una sensazione a metà tra l’irrequietezza e la gradevolezza, un contrasto questo che sarà riscontrabile lungo tutta la pellicola. 

 

Non è meno rilevante mettere l’accento sul fatto che il rosso è anche il colore della tavolozza a cui è attribuito il maggior numero di significati e simbolismi associati, metafora dell’eterogeneità contenutistica del film, che è in effetti un effervescente cocktail di interpretazioni e crogiuolo di generi diversi: drammatico, fantascientifico, grottesco, thriller, satirico.

 

Si tratta di un’opera talmente grande e che affronta temi così universali, inerenti alla natura dell’uomo, al ruolo guida della società, alla violenza come denominatore comune dell’intera esistenza umana, tale da non poter essere ricondotta sotto un’unica etichetta.

 

Con in sottofondo la solenne “Funeral of Queen Mary”, il film si apre con l’indimenticabile primo piano di Alex DeLarge, che abbatte il sacro muro della quarta parete con un’irruenza degna della sua personalità, già presagio della spirale di violenza che si andrà consumando.

 

La violenza ha sempre rappresentato un campo di predilezione particolare per il regista, affrontata in tutti i titoli da lui diretti con sfaccettature leggermente diverse di volta in volta.

Se in 2001: Odissea nello spazio l’atto di violenza (la scimmia che uccide un animale con un osso) assumeva un significato metaforico in quanto simboleggiava il raggiungimento del successivo stadio evolutivo (l’essere cosciente visto come essere violento) e in Full Metal Jacket sarà utilizzato come metro di indagine storica per mostrare la follia dell’uomo in guerra, in Arancia meccanica essa viene totalmente esplicitata per fungere da manifesto per il suo opposto: la violenza come specchio dell’antiviolenza.

 

Mostrarla in maniera palese e senza fronzoli è l’unico modo per poter colpire le coscienze collettive e far cadere le maschere degli spettatori.

 

Quale modo più efficace per far riflettere sulla violenza e sui confini del male, se non quello di mostrarla ferocemente in tutte le sue forme e di sbatterla in faccia al pubblico?

Coloro che hanno criticato l’opera di Kubrick, accusandola di alimentare il focolare dei soprusi, non hanno mai afferrato questo punto.

Criticare la violenza mostrata nel film significa negarne l’esistenza.

 

 

 

 

 

La violenza è forse la più grande costante della storia dell’uomo, esercitante un ruolo chiave sin dai tempi antichi; per quale motivo, dunque, dovrebbe essere limitata?

È bene che tutti, spettatori innocenti e puritani compresi, siano testimoni di cosa l’uomo sia, sia stato e sarà in grado di fare.

Impedire nell’arte in generale la sua rappresentazione, libera dai vincoli della censura, sarebbe come impedire che venga ripresa una qualunque altra azione, forza o emozione che sia, presente nella quotidianità umana.

 

Per i moralisti più indolenti, l’idea che l’opera di Kubrick incoraggiasse il crimine tra i più giovani era un comodo rifugio per poter scaricare responsabilità e nascondere la polvere sotto il tappeto, senza sentirsi con questo tirati in causa.

La critica di Kubrick alla società medio-borghese si registra anche qui, nell’aver messo in luce come la maggior parte dei cittadini non si sentisse toccata dal problema della violenza nelle strade delle grandi città, come se essi non fossero davvero consapevoli del loro ruolo (decisivo) nel plasmare il mondo in cui tutti vivono e decidessero volutamente di allontanare quelle immagini scomode, per potersi concentrare su ciò che più li avrebbe egoisticamente soddisfatti nel breve periodo.

 

Dopotutto, tale critica di stampo sociale viene suggerita già dagli indumenti dei drughi, che ricalcano quelli dei cosiddetti Roaring Boys, bande di giovani aristocratici del tardo ‘600 inglese che si divertivano ad andare in giro per Londra a molestare i cittadini.

 

L’incipit del film, dicevo, ci presenta Alex e i suoi compagni di scorribanda adagiati su un divano del Korova Milk Bar, luogo prediletto dai drughi in cui rilassarsi e fare libero uso di droghe; una sorta di pubblico quartier generale, insomma.

 

Interessante notare come il locale sia una sorta di rappresentazione miniaturizzata di una società intera, all’interno della quale malviventi e uomini di potere, quest’ultimi raffigurati in abiti eleganti e accompagnati dalle loro signore, convivono e si mescolano tra loro (cambiano gli abiti, ma le responsabilità del male che ci sono nel mondo sono divise equamente), condividendo gli stessi divani e lo stesso latte, in un’omertosa alleanza sociologica il cui picco sarà raggiunto nei minuti finali della pellicola.

Ma su questo specifico punto tornerò più avanti.

 

 

 

 

 

Quello che ora mi preme dire è che il Korova Milk Bar costituisce sempre il primo step di un qualcosa di rilevante che sta per accadere all’interno della narrazione; è la stessa storia che si ripete in passaggi uguali tra loro, secondo un ciclo predefinito: una sosta al Korova porta poi al compimento di un'azione violenta; e il ritorno al Korova (per riposarsi) pone i presupposti per una nuova azione violenta, e così via secondo un loop apparentemente infinito.

È la vita di Alex, è la sua routine. 

 

A tal riguardo, c’è un momento particolare che trovo emblematico.

In seguito allo stupro notturno della moglie dello scrittore, Alex e i drughi fanno tappa al Korova per ricaricare le batterie, perché stanchi della visita appena compiuta (cit.); e anche in questo caso sentiamo partire in sottofondo l’austera melodia di Purcell, che aveva già aperto il film.

In tale occasione, Alex fa notare come una delle signore dell’alta borghesia presenti al Korova in quel momento sia (o sembri) totalmente noncurante dei mali del mondo.

È il primo indizio che ci sta offrendo Kubrick, per farci arrivare al cuore del problema: Alex è davvero più colpevole degli altri individui attorno a lui?

 

I personaggi di Alex e dell’appariscente signora sono molto più simili di ciò che si pensa, e un'indicazione di prova ci viene offerta direttamente da lei, nel momento in cui inizia ad accennare un’aria di Beethoven, l’altra grande passione di Alex insieme all’ultra-violenza e al latte+.

Il Korova Milk Bar rappresenta allora anche questo: l’evasione dalla realtà di Alex.

 

In effetti, fino a prova contraria, nessun’azione violenta si è mai consumata all’interno del bar, visto appunto come luogo etereo al di fuori del tempo e dello spazio; quasi un posto sacro, come fosse una chiesa.

A pensarci bene, episodi di violenza, in qualsivoglia forma, sono stati registrati un po’ ovunque, dalla strada alle abitazioni private, passando per il parco fino addirittura all’istituto carcerario in cui Alex viene sottoposto alla cura; ma mai nei pressi del Korova.

E mi piace pensare che non sia un caso il fatto che prima di far visita all’attempata proprietaria della clinica per dimagrire, i quattro drughi decidano di non fare sosta nel locale a causa di mancanza di tempo.

 

L’aver saltato quello step è come se simboleggiasse la fine del loop sopracitato e il venir meno della tradizione, e fosse quindi l’anticipazione di quello che sarebbe successo subito dopo.

 

 

 

 

 

L’interruzione delle abitudini, come può esserlo la tappa al Korova secondo copione, è quindi presagio del fatto che qualcosa di nuovo e strano stia per verificarsi di lì a poco; come se quello facesse venire meno il cuore pulsante del gruppo, che si sarebbe sfaldato quella sera stessa con il tradimento dei compagni e l’arresto di Alex.

Sarà l’inizio del dramma personale per il capobanda.

 

Nel momento in cui viene catturato dalla polizia, il drugo è ufficialmente solo, abbandonato da tutti; ed è incredibile come una volta arrivato in prigione, egli acquisti definitivamente tutta la nostra simpatia e solidarietà, in netto contrasto con la scarsa empatia provocata invece da guardie, direttore del carcere e tutori della legge.

È anche questa la provocazione del regista, il mostrarci cioè un violentatore seriale senza scrupoli e, in seguito, farcelo diventare simpatico; l’ennesimo e sublime paradosso kubrickiano.

 

Lo spettatore non riesce a godere dell’arresto di Alex, ma anzi pare proprio essersi dimenticato del tutto i terribili crimini da lui commessi in precedenza.

L’Alex che risponde “Sir” in giacca e cravatta, con tono pacifico e dallo sguardo ubbidiente ci sembra lontano anni luce dall’Alex a cui eravamo abituati fino a pochi minuti prima. È proprio da questo momento in poi che il film acquisisce il vero significato sociologico, cambiando radicalmente registro.

 

E Alex da personaggio attivo si tramuta in pedina, vittima di un sistema corrotto più grande di lui, all’interno del quale egli non è più un uomo, ma viene svuotato di tutta la sua linfa vitale, per diventare… un’arancia meccanica.

 

 

 

 

 

Ma qual è il significato che si cela dietro a questo titolo, uno dei più affascinanti e misteriosi di sempre?

 

Come accennato più sopra, quando uscì nei cinema Arancia meccanica venne censurato un po’ ovunque e Stanley Kubrick accusato di incitamento alla violenza.

Le persone non avevano afferrato all’epoca la grandezza, ma soprattutto la genialità dell’opera di Kubrick: mostrare in maniera esplicita la violenza, in tutte le sue forme (omicidi, stupri, ecc.) per farne, come già detto, un manifesto della contro-violenza.

 

All’uscita del film si registrarono numerosi casi di emulazione di Alex e dei suoi compagni di scorribande, da parte di molti adolescenti dell’epoca.

Quello che una certa fetta di critica e pubblico non capì (e che fa fatica ancora oggi a capire) è che tutti quei casi delinquenziali non fecero altro che esaltare ancora di più il messaggio del film di Kubrick: il male è dentro ciascun uomo, tutto sta nella nostra capacità (e volontà) di saperlo arginare, senza farlo esplodere al di fuori. 

 

Il significato metaforico del titolo trova la propria ragion d’essere lungo questo solco.  

 

La famosa “Cura Ludovico” che viene somministrata ad Alex provoca una reazione innaturale: il drugo non smette di fare cattive azioni perché ha trovato la bontà dentro di sé, ma perché gli viene imposta una scioccante sensazione di nausea, provocata in modo coercitivo attraverso una reazione chimica aggressiva; Alex quindi non diventa buono, ma è “costretto” a diventare buono.

La differenza è sottile, ma decisiva.

 

Così facendo, egli tradisce la sua vera natura, il suo io e perde la sua libertà; la libertà di decisione e autonomia, ciò che ci rende uomini invece che bestie.

 

Kubrick vuole quindi battere chiodo innanzitutto su questo punto: un uomo deve cambiare da solo e deve avere diritto di migliorare quanto di sbagliare, non gli si può imporre il cambiamento con la forza.

Perchè questo non sarebbe essere sani, ma ancora più malati di prima. 

 

 

 

 

 

Alex smette dunque di essere uomo per diventare altro: quell’arancia meccanica del titolo, espressione inventata da Anthony Burgess, autore del romanzo originale, che sta a indicare una persona che agisce meccanicamente; senza più libero arbitrio. 

 

È proprio dell’uomo in generale la peculiarità di essere un’arancia meccanica; apparentemente innocuo e indifferente all’esterno, ma pronto a essere azionato al suo interno da forze e influenze terze.

L’individuo che dinnanzi all’opera di Kubrick ha sentito il bisogno e soprattutto il desiderio di rievocare nella realtà quelle azioni efferate non ha fatto altro che rivelare la propria natura definitiva ed effettiva di criminale.

Il film non è stato quindi la causa, ma piuttosto uno strumento di smascheramento; il problema sta sempre negli occhi di chi guarda, mai negli occhi di chi mostra.

 

È proprio per questo che Arancia meccanica meriterebbe a priori il plauso universale, per non aver fatto altro che sbattere in faccia al mondo la verità, cioè che la realtà in cui viviamo è fatta di crimine e violenza; quelle persone che hanno commesso delitti sul modello di quelli commessi dai drughi nella finzione non sono diventate inclini alla violenza per colpa di Kubrick, ma aspettavano solo l’occasione giusta per essere scatenati, o meglio “azionati".

 

Tutti noi rischiamo di diventare delle arance meccaniche; ciò che ci distingue gli uni dagli altri è la diversa capacità di resistenza interiore e controllo degli istinti peggiori.

 

Tale concetto viene parzialmente, ma con discreto anticipo sussurrato allo spettatore nel corso della storia per bocca del personaggio del prete della prigione, il quale, suggerendo ad Alex di riflettere bene sulla possibilità di intraprendere o meno il programma di rieducazione messo in piedi dal nuovo governo, afferma che quando un uomo non ha più scelta, cessa di essere tale per diventare qualcos’altro, cioè un'arancia meccanica. Messa in moto da qualcuno o qualcosa, come fosse un giocattolo.

Che poi l’agente esterno scatenante in questione sia Dio, il potere pubblico o terzi, non ha alcuna importanza, perché ciò che conta è il regresso dell’uomo, che smette di essere indipendente e autonomo, e finisce per diventare uno schiavo.

 

La bontà deve essere trovata dentro ognuno noi: nonostante si tratti di un sentimento positivo, essa non può essere imposta.

Questo è il rischio (e poi l’effetto) della cura Ludovico: ti cambia, ma al prezzo di farti perdere la tua identità e la tua libertà come essere umano, senziente e razionale.

 

 

 

 

 

La tragedia personale di Alex si inserisce in quella collettiva della società in cui vive. Il mondo descritto da Kubrick e nel quale si muovono i personaggi in gioco non potrebbe essere più distopico.

 

C’è un dettaglio che il regista mette in mostra nel descrivere la sequenza del numero “visita a sorpresa” ai danni dei coniugi Alexander, che è significativo ai fini dell’analisi.

L’ubicazione della casa dello scrittore presso cui giungono Alex e i drughi a bordo della Durango 95 è evidenziata da una semplicissima insegna, che recita esclusivamente “Home”, totalmente asettica e priva di altri riferimenti nominativi.

La ragione è presto detta; nella società descritta nel film non c’è alcun bisogno di nomi e/o tratti identificativi, perché quella casa che vediamo sullo schermo potrebbe essere la casa di chiunque: la mia, la vostra o quella appunto di uno scrittore sposato e sulla sessantina.

Non possiede alcun interesse, perché nel mondo descritto da Stanley Kubrick l’anarchia ha preso il sopravvento su tutto, su ogni singolo aspetto della società civile, quindi anche sulle singole identità dei cittadini.

 

La vera protagonista è la violenza, allo spettatore non occorrono informazioni o dettagli aggiuntivi sui personaggi in gioco, che subiscono le angherie di Alex e che sono volutamente poco approfonditi; hanno la mera funzione di vittime sacrificali, per poter dar sfogo agli istinti omicidi della banda e far concentrare lo spettatore sul vero nocciolo della questione.

 

La visione di una città sporca e abbandonata, con le strade coperte da immondizia e popolate da barboni, sono il sintomo di un degrado che si estende fino all’interno delle abitazioni, al punto da non riuscire a capire se Alex e gli altri delinquenti siano la causa principale di quella società malata e senza regole, oppure la loro conseguenza.

I genitori stessi del protagonista, dai quali si evince anche una sottile critica all’istituzione della famiglia, sono complici di quello stesso marciume; sintomatico in particolare è il modo con cui viene presentata sua madre, che appare sullo schermo con le sembianze peggiori e più ridicole possibili (ha i capelli viola e indossa lunghe calze gialle) per non essere volutamente presa sul serio. Lo spettatore non riesce proprio a schierarsi dalla sua parte, anzi provoca ribrezzo nei suoi confronti.

 

Perfino l’ispettore giudiziario minorile appare come figura ambigua e dal dubbio valore morale; tutto sembra tranne che un personaggio spinto da motivazioni lodevoli nei confronti del ragazzo. Pare che sia esclusivamente preoccupato per la sua reputazione, che subirebbe un duro colpo nel caso in cui non riuscisse a portare Alex sulla retta via; è un animale egoista che porta unicamente avanti i suoi interessi, come tutti gli altri.

 

Insomma, all’interno di questo ambiente marcio e imputridito non si salva nessuno.

E in mezzo alla cerchia di figure eccentriche e inconsuete che si alternano sullo schermo, viene quasi il pensiero (terribile) che uno stupratore seriale come Alex sia il più normale di tutti. 

Un pensiero che si farà preponderante soprattutto nella seconda parte del film.

 

 

 

 

 

Quando finisce in carcere, Alex si offre come volontario per testare la potenzialità della cura Ludovico, presentata come unica salvezza per gli individui malvagi.

La paternità del progetto appartiene al fresco ministro dell’Interno, che viene volutamente presentato come il classico stereotipo di politico mendace mosso esclusivamente dai propri interessi personali.

Alex ignora di essere un mero strumento politico, sfruttato dal ministro per due diversi scopi: prima affermare il suo potere decisionale e presentarsi come il salvatore del mondo; poi risollevarsi agli occhi dell’opinione pubblica offrendo di nuovo la piena libertà al drugo.

 

Il trattamento a cui decide di sottoporsi Alex è mostruoso.

I freddi medici dell’istituto si pongono sullo stesso piano del criminale di strada; essi appaiono melliflui e compiaciuti del dolore che il ragazzo è costretto a sopportare.

E anche la prova seguente, per i test post trattamento, non è meno disumana. 

 

Nel discorso introduttivo del ministro c’è tutta l’ipocrisia di una società e delle istituzioni che hanno sempre tenuto gli occhi chiusi, senza aver mai davvero fatto qualcosa di concreto per fermare la delinquenza e la deriva di violenza, e che oggi si presentano davanti al popolo come salvatori della patria avendo optato per la soluzione più semplice. 

Quale?

Quella della violenza, anche loro; la via più semplice e veloce, perché richiedente meno sacrificio e sforzo mentale.

Violenza per combattere la violenza, e i risultati non potranno che essere disastrosi.

 

Per testare i risultati della cura, la cavia-Alex viene quindi posta davanti a un minaccioso pubblico di giornalisti, autorità pubbliche e medici; tre categorie da cui dovremmo sentirci protetti, ma che invece qui appaiono dall’aspetto sinistro.

Se prima lo spettatore aveva assistito inerme alle azioni terribili fatte da Alex ai danni della comunità, ora deve affrontare quelle che lo stesso drugo subisce; sono due forme diverse di violenza, due facce della stessa medaglia.

Non c’è un cattivo meno cattivo e un buono più buono, sono tutti ugualmente colpevoli. La deriva drammatica della società, la società distopica nella quale è ambientata la storia del film è la conseguenza dei comportamenti di tutti, senza alcuna esclusione.

 

Quello di Kubrick è un mondo in cui non esiste una distinzione manichea tra buoni e cattivi.

 

Durante la simulazione post-cura, si risente per la terza volta Funeral of the Queen Mary, ma non siamo più dentro il Korova, luogo dove tutto è iniziato e dove la banda si sentiva al sicuro.

Sembra sia passato tantissimo tempo da quel momento, quando Alex assumeva con fierezza le droghe mescaline contenute nel bicchiere di latte ed era un individuo libero di trarre piacere dalle proprie azioni delittuose. Ora Alex si ritrova privato di tutto, anche delle sue pulsioni sessuali.

La libertà è dunque completamente compromessa; egli cessa di fare il male, ma cessa anche di decidere in libertà.

 

In sintesi: Alex non è più un uomo.

 

 

 

 

 

Il rientro nella società non andrà a buon fine, com'è facile immaginare.

 

In casa è stato addirittura sostituito come figlio, episodio che meglio simboleggia l’effimeratezza dell’istituzione famigliare, sulla quale Kubrick si era già scagliato in maniera più o meno velata durante il primo tempo della storia.

E lo spettatore non può che provare dispiacere nel vedere Alex rifiutato dai terribili genitori, impossibilitato a scaricare la propria frustrazione su Joe, il suo rimpiazzo in famiglia, o nello scoprire che il suo serpente domestico, unico amico che abbia forse mai avuto, è stato soppresso subito dopo la carcerazione.

 

Davvero straordinaria l’operazione di Kubrick, che spinge lo spettatore a provare pietà per un individuo che nella vita reale non ne avrebbe ricevuto da nessuno.

Questa capacità di influenzare lo stato d’animo del pubblico, a proprio piacimento e a seconda della circostanza, è una prerogativa che appartiene solo ai più grandi artisti di sempre.

 

Kubrick è il burattinaio, noi gli spettatori paganti.

 

Alex DeLarge, un tempo minaccia di una comunità intera, si ritrova ora a vagare solo e confuso, per una città che fino a qualche mese prima era teatro delle sue efferatezze.

Subisce la vendetta, in ordine: da un gruppo di senzatetto, dai suoi ex compagni di banda, ora corrotti e diventati poliziotti, e dallo scrittore che aveva subìto la terribile visita a sorpresa.

Alex è costretto a subire passivamente, senza possibilità e soprattutto diritto di reazione. 

 

 

 

 

 

Curioso come, non avendolo riconosciuto, lo scrittore si schieri in un primo momento dalla parte del drugo in quanto parte lesa di un trattamento disumano balzato agli onori della cronaca (la cura Ludovico) e poi, una volta scoperta la sua vera identità, anch’egli finisca per farsi dominare dalla violenza. 

Ancora una volta, dunque, ritorna il concetto del male punito con altro male, effetto di un mondo dominato dall’anarchia e in cui, in assenza di leggi e fiducia nelle istituzioni, per ogni singolo cittadino risulta più facile farsi vendetta da solo piuttosto che avere fede nella giustizia.

 

Vendetta dello scrittore, tra l’altro, che si compie nella maniera più crudele possibile: Ludwig van Beethoven, un tempo grande amore e fattore esaltante nella vita di Alex, viene utilizzato come arma di tortura e causa del suo definitivo crollo emotivo.

 

Incredibile come una delle più grandi opere d’arte della storia dell’umanità, la celebre Nona del compositore tedesco, che come ogni opera dell’arte non può che far bene all’anima, venga invece utilizzata dal regista per accompagnare esclusivamente sequenze di violenza dei protagonisti; ma come ho scritto anche in un altro mio articolo, non è forse anche questo il potere dell’arte?

La possibilità di essere divulgata e usufruita da chiunque e in qualsiasi circostanza, senza alcuna distinzione. 

 

 

 

 

 

Ho già fatto riferimento al rivoluzionario uso della musica messo in atto da Kubrick.

Arancia meccanica è forse il titolo della carriera del regista in cui si raggiunge l’apice della funzionalità del soundtrack rispetto alla storia. 

 

A differenza che nel precedente 2001: Odissea nello spazio, dove i valzer di Strauss avevano la funzione di accompagnare le immagini dello spazio, così da esaltare i movimenti eleganti e ordinati delle astronavi, qui il theme musicale classico, ora di Rossini, ora di Beethoven, si fa proprio protagonista e parte attiva prominente all’interno del racconto, determinandone andamento ed esiti, almeno alla pari di Alex. 

 

Nei primi minuti del film, l’ouverture de La gazza ladra di Gioacchino Rossini accompagna l’aggressione a una ragazza sconosciuta all’interno di un teatro abbandonato; teatro in rovina, un tempo luogo dell’arte per eccellenza, che simboleggia tra le altre cose il decadimento di una cultura intera, quella occidentale.

Si viene a creare un contrasto sublime tra quello che vediamo e quello che ascoltiamo: da una parte le nostre orecchie ringraziano per quella melodia così magica e soave, dall’altra i nostri occhi non possono godere dello stesso piacere, data la scena a cui sono costretti ad assistere; eppure non riusciamo a volgere lontano lo sguardo, perché le note di Rossini accompagnano il ritmo delle scene in una maniera tecnica esemplare, e lo spettatore ne è quasi compiaciuto.

 

Ed ecco qui l’esperimento riuscito di Kubrick: stiamo assistendo a violenza, a uno stupro in particolare, che però pare quasi ai limiti del grottesco. 

 

Che dire poi della musica di Beethoven?

Se nel caso sopracitato la gazza ladra di Rossini aveva una funzione meramente extradiegetica (fungeva da colonna sonora, di fatto), le note del compositore tedesco, soprattutto nei momenti critici della narrazione, convergono invece nel novero degli elementi diegetici, in quanto provengono dalla diegesi vera e propria ed essendo ascoltati non solo dagli spettatori ma anche dai personaggi sullo schermo, si collocano quindi nello spazio della storia narrata.

 

L’importanza di Beethoven dentro la storia viene resa nota direttamente dalla tagline del film:

“La storia di un ragazzo le cui più grandi passioni sono lo stupro, l’ultra-violenza e Beethoven”.

 

Certo, fa strano che il nome di uno dei più grandi musicisti di sempre sia accostato a delle espressioni così negative, ma il fine ultimo è sempre lo stesso: evidenziare tutta l’ambiguità di un personaggio che non solo è umano come noi, ma che sa anche apprezzare la musica più bella del mondo.

 

L’amore di Alex per la musica classica è genuino, e questo fa scattare nella mente dello spettatore una domanda necessaria: come può un individuo del genere, che compie azioni così atroci, avere contemporaneamente un animo artistico sensibile?

È una cosa che si fa fatica ad accettare.

Per il pubblico sarebbe molto più semplice che il protagonista non abbia gusti musicali così apprezzabili e degni di attenzione.

 

Il motivo di tale scelta è duplice: da una parte, si vuole sottolineare come la grandezza dell’arte sia tale da meritare di essere apprezzata da tutti gli essere umani, indipendentemente da come si comportano nel privato o nel pubblico (potere dell’arte che trascende ogni cosa); dall’altra, ribadire la natura umana di un personaggio in contrasto con le sue azioni, che sono invece bestiali.

Perché di questo si sta parlando. Alex è umano e ascolta la musica ad alto volume nella propria camera, esattamente come farebbe ciascuno di noi. 

 

Kubrick ci porta dunque a provare una sorta di empatia con il protagonista; questo provoca in noi una sensazione di disagio difficilmente spiegabile, ma che è inequivocabile.

Come facciamo davvero a empatizzare con un individuo del genere, che ci sembra così distante da noi e dal nostro modus vivendi?

 

Kubrick sembra suggerirci che in fondo così non è: la follia di Alex potrebbe essere la follia di ognuno di noi; solo comprendendo e accettando questa cosa saremmo davvero in grado di scindere ciò che è bene da ciò che è male, rigettare la sua condotta e adottare noi stessi il giusto atteggiamento nei confronti degli altri componenti della comunità.

 

L’uomo del secolo scorso (e di quello corrente) rischia di diventare come Alex in qualunque momento; Stanley Kubrick vuole che lo spettatore lo tenga bene a mente. Per questo motivo, nel delineare il personaggio, gli viene attribuita la passione per Ludwig van Beethoven.

Lo si vuole far percepire come essere umano dotato di sane e rispettabili passioni, per mantenerlo il più vicino possibile all’animo dello spettatore medio e permettere così, soprattutto nella seconda parte della pellicola, dopo la cura Ludovico, la piena immedesimazione Alex/pubblico.

 

 

 

 

 

Nella stanza di Alex, la musica sacra di Beethoven scorre sullo sfondo di immagini profane, come la statuetta del Cristo danzante o il disegno di una donna nuda appeso alla parete.

E la macchina da presa indugia sullo sguardo severo di un ritratto del compositore tedesco, unica personalità in grado di influenzare in qualche modo l’esistenza di Alex.

Che il drugo nutra per lui un’adorazione smisurata lo si deduce proprio da due frangenti particolari.

 

Il primo è quando Alex riprende Dim, uno dei componenti della banda, reo quest’ultimo di aver offeso una traccia musicale di Beethoven, in quel momento usata come sottofondo musicale del Korova.

Il secondo, ben più significativo, è quando Alex realizza ciò che sta effettivamente subendo con il trattamento chimico sottopostogli in modo disumano; nella prima sessione della cura Alex aveva già il sentore di quello che il suo corpo stava patendo, ma è solo nella seconda seduta, quando ai filmati che è costretto a vedere viene accompagnata la Nona sinfonia di Beethoven, che egli si rende conto di quelle che saranno le tragiche conseguenze e che chiede, con espressione dolorosa, che venga fermato il video.

 

Ma è ormai troppo tardi.

Alex non sarà più in grado di godere della sua musica preferita. La pena che lo spettatore comincia a provare per il drugo nasce da qui.

 

Curioso come Alex dichiari che è un delitto utilizzare quella straordinaria aria in quel modo (cioè come accompagnamento delle immagini di violenza), quando poi è la stessa cosa che ha fatto Kubrick con lo spettatore: imporre bellezza sonora e immagini disturbanti nello stesso tempo.

Il contrasto che ha dovuto subire il pubblico per tutta la prima parte del film, ora lo subisce anche Alex.

Ecco perché spettatore e personaggio da questo momento in poi si ritroveranno assieme sulla stessa barca, come vittime del medesimo artificio.

 

Beethoven passa da essere il fattore esaltante dell’azione di Alex a essere la sua principale causa di follia: ciò che prima gli rendeva gioiosa la vita, adesso gliela sta rovinando.

 

Può sopportare di rinunciare a reagire alla violenza (e infatti così è, quando viene assalito dal gruppo dei senzatetto), ma non può tollerare che l’ascolto di Beethoven gli possa procurare del male; è troppo anche per lui.

Questo causerà il suo definitivo crollo mentale, che lo porterà a tentare il suicidio e a risvegliarsi in ospedale, vivo per miracolo.

 

Alla luce di tutto questo discorso, risulta chiaro come il titolo-quesito che mi sono posto nel titolo dell'articolo non possa trovare una risposta soddisfacente, perché posto (volutamente) in maniera inesatta. 

Si può cambiare un uomo?

No, non si deve.

 

Si può provare, ma si è destinati a tornare al punto di partenza, secondo quel concetto filosofico dell’eterno ritorno tanto caro al regista e già affrontato in 2001.

 

 

 

 

 

Sulla scia di questa convinzione, il film giunge alle sue battute finali, quando il patto sociale tra l’individuo e le istituzioni trova la sua più efficace esplicitazione.

 

Alex sul letto di ospedale appare come indifeso e innocuo, ma è solo fino all’azionamento successivo, quando l’uomo di stato, politico di professione, si presenterà al suo cospetto per sancire la nuova alleanza e restituirgli la libertà; libertà di tornare a essere se stesso, con tutte le conseguenze del caso.

È cristallino dunque come il film sia rivolto contro la società, piuttosto che contro un singolo individuo.

 

Alex DeLarge è solo uno specchietto per le allodole, messo al centro della storia per distrarre gli spettatori più disattenti; solo un cieco potrebbe pensare che il cattivo del film sia lui.

Egli è solo il risultato di una società malata, un bordello all’interno del quale non esistono vergini capitate per caso.

 

Ed è per questo che a un certo punto i ruoli si invertono e il carnefice diventa vittima di quello stesso sistema. 

 

Lo spettatore è stato oggetto di continui scombussolamenti emotivi: dal prendere le distanze dalle azioni terribili di Alex nel primo tempo, è via via portato a socializzare con il protagonista, a prendere le sue parti e a sentirsi quasi dispiaciuto per il suo miserabile destino.

Come si fa a odiare un uomo a cui vengono tolte tutte le sue libertà?

La figura di Alex è dunque solo un pretesto, utilizzato da Kubrick per dimostrare che il male si nasconde ovunque; spetta poi a ciascuno di noi il dovere di non farlo scatenare e di resistere, nel caso sussista, al cosiddetto “agente esterno” in grado di azionarci come un’orologeria.

 

Le persone che hanno commesso nella realtà gli stessi crimini commessi da Alex nel film hanno fatto la loro scelta.

E voi?

Se le scene di omicidio o stupro perpetuate dai drughi non vi hanno lasciato indifferenti, allora il film di Kubrick ha fatto il suo dovere; suscitando nello spettatore tale sensazione di malessere, lo stesso è portato a rigettare con il pensiero qualunque azione che anche lontanamente si avvicini a quello che viene mostrato sullo schermo.

 

Ecco il doppio scopo del film di Kubrick: pone l’uomo davanti a uno specchio e gli fa chiedere

“Io sarei capace di fare una cosa del genere?”.

 

Se ci pensate bene, questa è una domanda che tutti inconsciamente ci siamo posti guardando il film; a Kubrick non interessa la risposta, ma il fatto che ci sia stata l’occasione per porsela.

Cosa fa l’uomo nell'assistere a violenza? La rigetta?

Dovrebbe essere così, ma sappiamo di essere lontani dalla realtà.

 

Se la violenza mostrata in tanti film ha la mera funzione di scioccare lo spettatore, qui invece essa assume una valenza estetica e allegorica.

Il che significa che essa non sia una cosa piacevole da vedere, bensì necessaria, in quanto parte del nostro mondo. Perché limitarla, censurarla o annullarla?

Come già detto, è bene, anzi fondamentale che venga mostrata, per permettere il passo riflessivo successivo.

 

Porre la violenza esplicita davanti all’uomo è l’unico modo, o comunque il più efficace per diventarne uno specchio di rigetto.

 

Quelli che criticano la messa in scena della violenza nel film non sono altro che impauriti dall’effetto che essa possa avere su di loro.

Prima di un qualunque tipo di merito cinematografico (che comunque non è poco) l’importanza dell’opera di Arancia meccanica risiede proprio in questo aspetto sociologico/antropologico.

 

Anche se fosse sprovvisto di dialoghi, il film manterrebbe intatto il proprio potere dirompente; è uno di quei capolavori che riesce a comunicare anche solo per immagini, già di per sé sufficienti per trasmettere l’idea di una violenza incontrollata, ma appunto imprescindibile.

 

È come se Kubrick mettesse alla prova la coscienza di ognuno e allo stesso tempo indagasse a fondo la nostra anima.

Noi siamo come Alex? Cosa proviamo nel vedere quella immagini?

La risposta è dentro ognuno di noi, che si tratti di ribrezzo o piacere è irrilevante; il solo fatto che una tale domanda venga ispirata è il segnale della grandezza dell’opera, che stimola dunque una riflessione universale. 

 

 

 

 

 

L’ultima sequenza è una delle più potenti di tutti i tempi.

 

Il confronto tra il delinquente e il politico si sostanzia in un tacito accordo di reciproca coalizione.

Alex da carnefice diventa vittima del sistema a tutti gli effetti; il processo è ora completato.

 

Il silenzio e il perdono di Alex vengono comprati dal politico, che in cambio gli concederà non solo la libertà, ma soprattutto il ritorno alla vita precedente, questa volta però con il benestare della legge e del potere pubblico, vero trofeo di risarcimento.

 

Ecco come si spiega allora la visione finale del drugo, il suo sogno più bello, nonché appagante futuro che lo attenderà fuori dall’ospedale e simbolo della legittimazione criminale: Alex che fa sesso con una donna, in mezzo a un mare di cocaina, davanti agli occhi omertosi della folla, complice silenziosa e inerme, come a ripristinare i ruoli originari.

Ah sì, tutto avviene naturalmente sotto le note del buon vecchio Ludwig… 

 

“Ero guarito... eccome!”

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