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Beau ha paura è un’affermazione.
Ma di chi e di che cosa? Forse, dopo aver visto l’ultima fatica di Ari Aster, verrebbe da dire che Beau è paura, ovvero uno stato che indica un’appartenenza.
D’altronde il film si apre con dei vagiti di un bambino che viene al mondo, perciò una nascita che di gioioso non ha nulla.
Midsommar, precedente lavoro del regista, metteva in scena la fine di una storia d’amore, la conclusione di un rapporto che corrispondeva a un trauma.
Anche Beau ha paura, a suo modo, è una rappresentazione allucinata di un rapporto che si sta per concludere, quello tra il protagonista e la propria madre.
[Il trailer di Beau ha paura]
Beau ha paura
Ari Aster sviluppa attorno a questa idea un racconto che vuole intercettare più generi (commedia e horror) e più istanze riguardo il contemporaneo, non riuscendo però a mio avviso a creare l’alchimia necessaria per amalgamare tutto.
Il viaggio di Beau per raggiungere la propria madre il giorno dell’anniversario della morte del papà si tramuta fin da subito in un incubo a cielo aperto, un teatro dell’assurdo che rispecchia tutte le idiosincrasie del personaggio interpretato da Joaquin Phoenix.
Sono tante le cose che spaventano Beau e che si possono collegare a quelle di un qualsiasi statunitense medio: la paura di uscire dalla propria casa, dalle malattie, dei rapporti umani. Una condizione che è figlia - per l’appunto un’appartenenza - dell’educazione della madre, che da quando Beau era piccolo l’ha sempre protetto ossessivamente da ogni cosa che potesse arrecargli un danno, spaventandolo a morte anche sulla natura dei rapporti sessuali.
L’edificio dove vive Beau rappresenta ipoteticamente una condizione mentale, il suo appartamento è il luogo che è meglio non lasciare per non affrontare i traumi infantili.
Ma che cosa succede se a un tratto non si può più accedere a questa salvifica bolla di vetro? Ari Aster procede per tappe, per quattro macroblocchi che corrispondono a quattro incubi differenti, collegati dalla figura ingombrante della madre e di conseguenza della famiglia.
Così come Hereditary e Midsommar anche Beau ha paura riflette sulle conseguenze di un trauma, derivato proprio da ciò che ci è più vicino in termini di rapporti umani, almeno inizialmente.
Ma se la determinazione stilistica del regista non è in discussione, la struttura del racconto dopo la prima ora arranca, perdendo gradualmente attrattiva.
Ari Aster guarda al Cinema di Charlie Kaufman in un’ottica freudiana, sviluppando costantemente situazioni kafkiane attorno al sempre insofferente Joaquin Phoenix.
[In Beau ha paura ritorna il tema legato alla famiglia tanto caro ad Ari Aster]
Beau ha paura
Il problema - a mio avviso - è il voler giocare per accumulo, creando mondi differenti che sulla carta sarebbero molto interessanti, non raggiungendo mai l'equilibrio che possa renderli tali.
La commedia è forse il genere più vicino all’horror per costruzione dei tempi narrativi, per lo sviluppo di una reazione nello spettatore.
Ari Aster con il suo film sembra però aver paura lui stesso della sua creatura - come la madre di Beau - non affidando mai completamente al genere, e perciò alle immagini, il compito di farsi carico di ogni allegoria, di ogni simbolismo, di rendere il proprio Cinema la cartina tornasole per parlare “di” e “per”.
Il risultato è un film che non ha il passo della suspense di Midsommar né l’ilarità per l’assurdo che sembra tanto agognata dal regista.
Alcune situazioni nelle tre ore di durata riescono a restituire il paradosso del loro intento, ma sono solo singoli momenti che non possiedono il peso specifico necessario a sostenere tutto l’apparato produttivo ingombrante di Beau ha paura.
Quello messo in scena da Ari Aster sembra un Cinema puramente dimostrativo, ovvero di sviluppo di una determinata teoria. Specchio di ciò è dato anche dai personaggi che popolano il film, semplici pedine che parlano e agiscono per uno scopo, senza quindi nessun tipo di spessore identitario.
Se questa scelta può esser vista come una rappresentazione ipotetica all’interno della mente del protagonista, la voglia di Aster di costruire persino una storia d’amore non trova nessun spazio sentimentale, restituendo il sapore di una finzione teatrale.
[Il mago di Oz e Beau ha paura]
La composizione del puzzle da parte di Beau per cercare di risolvere i propri problemi familiari smarrisce lungo la strada i pezzi, forse per il loro numero eccessivo, sovrabbondante.
Poco importano i vari riferimenti culturali che Ari Aster dissemina lungo il film per ispessire il valore interpretativo di ciò che ha abilmente messo in scena, se il risultato è un pachiderma che a fatica regge i 179 minuti di durata.
A fine visione, purtroppo, il viaggio compiuto da Beau trova una risposta che ha lo stesso suono del nome del suo protagonista: “Boh”.
Vi rispettiamo: crediamo che amare il Cinema significhi anche amare la giusta diffusione del Cinema.
1 commento
Nic Cage
11 mesi fa
Forse se si fosse snellita un pò la parte centrale del film senza sovraccaricarlo troppo sarebbe sicuramente stato più "digeribile".. la somiglianza per esempio con Kaufman (sto pensando di finirla qui) è proprio questa: un'opera quasi prolissa che per arrivare al dunque perde più tempo del necessario
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