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in water - Recensione: trovare un posto - Berlino 2023

Recensione dell'ultimo film di Hong Sang-soo, dalla 73ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino

Dicesi zoom, citando il Dizionario Garzanti, un "obiettivo a lunghezza variabile, che permette di ampliare o ridurre l'inquadratura mantenendo sempre a fuoco l'immagine" e, per estensione, "l'inquadratura stessa effettuata con questo obiettivo": ma se a mancare - (in) in water, in un acquario, come presenta il film il sito della Berlinale - è proprio il fuoco, lo zoom che fine fa? 

 

Segno distintivo di Hong Sang-soo fin da Tale of Cinema, suo sesto lungometraggio uscito nel 2005, dopo diciott'anni e oltre venti (!) film lo zoom entra in conflitto con una novità sicuramente dirompente, almeno sulle prime: per quasi tutta la breve durata del film, le immagini di in water sono infatti fuori fuoco.  

 

[Il trailer di in water presentato dalla Berlinale]

 

 

Regredisce alle macchie, quest'ultimo racconto di Cinema, per aggiornare una ricerca ultraventennale che sembrava aver già toccato l'Impressionismo in quel rincorrersi di differenze e ripetizioni che poteva ricordare, ad esempio, le serie di Claude Monet.

 

In riferimento a un film che fa della riflessione meta-artistica uno dei propri perni (peraltro evitando il tedio attraverso una naïveté simile a quella mostrata nel concorso principale da Philippe Garrel), proprio Monet è tuttavia leva per problematizzare la corrispondenza pittorica, soprattutto in vista delle implicazioni filosofiche e del rapporto intrattenuto sia da Impressionismo che Espressionismo con il concetto di soggettivismo, altrettanto sfuggente.

 

Nell'anticipare la corrente espressionista astratta, è infatti il tardo Monet della serie delle Ninfee di Giverny a far vacillare - a posteriori: per il critico francese Jean-Dominique Ray è "la generazione [statunitense, n.d.r.] che negli anni '50 ci ha insegnato come guardare le sue opere" - una distinzione che concerne anche il nodo della figurazione.

 

Ma quando Hong opta per lo sfocato crea un diaframma rispetto a un mondo diegetico idealmente intatto oppure altera indelebilmente lo statuto delle immagini-mondo?

 

 

[Un frame da in water]

 

 

La distinzione teorizzata da Èric Rohmer tra spazio pittorico, spazio architettonico e spazio filmico può aiutare nell'abbozzare qualche risposta; di contro, il fatto che talvolta la nitidezza ritorni complica - annulla? - alcune possibilità di ragionamento: inizialmente sembrerebbero coincidere location e scelte di messa a fuoco, con il bokeh totalizzante assegnato alle riprese in esterni, ma l'avanzare dei minuti incrina la sistematicità.

 

È una rarefazione estrema quella a cui mira il prolifico Hong, al di là del minutaggio: in virtù delle strutture narrative architettate e delle strategie formali adottate, stava diventando quasi un gioco - un gioco intertestuale - analizzarne le fatiche, che già covavano in nuce un'attitudine ludica dalle implicazioni metanarrative (Hill of Freedom è un ottimo esempio recente, tenendo ferma la durata). 

Qui il carosello di ripetizioni imperfette, di norma ancorate a una dimensione non riducibile al solo relativismo soggettivistico (come testimonia The Virgin Stripped Bare by Her Bachelors), si prosciuga in un solo movimento interamente accolto nella diegesi: il protagonista Seoung-mo vede e fa alcune cose e decide successivamente di incorporarle, tramite reenactment sorvegliati, nel cortometraggio che sta girando e di cui è anche attore principale. 

 

In in water Hong non è allora chiamato in causa in veste di marionettista burlone, bensì come autore che deve rendere conto - nella mente del fruitore - di una mossa stilistica parecchio inconsueta (lo zoom già andava in questa direzione ma era certo meno marcato). 

Corrono in nostro soccorso almeno due indizi, che qui vogliamo unificare: la nota autobiografica - che potrebbe valere anche per il cameo vocale di Kim Min-hee - e un semplicissimo "if she goes with the alley" pronunciato in fase di location scouting.

 

Alcuni tratti di Seoung-mo giustificano l'interpretazione come alter ego, dal sacro fuoco di natura non economica allo scarso budget, dal ruolo della sceneggiatura alla stessa vocazione autobiografica del film-nel-film.

 

In una filmografia ripetutamente attraversata dalla medesima tensione, questi si rivela forse come il doppio più fedele, se non altro perché in in water è riservata una posizione centralissima al momento creativo. 

 

In questo senso, peraltro, potrebbe essere interessante paragonare la concezione artistica di Hong con quella/e formalizzata/e in seno alla Nouvelle Vague, sovente richiamata vista la vicinanza - variabile e comunque più relativa a fasi tarde - del cineasta sudcoreano a Rohmer e Alain Resnais: il rapporto con la dimensione strettamente tecnica e la matrice filosofica del loro autorialismo, da parametrare soprattutto rispetto all'eventuale sostrato romantico, paiono ottimi banchi di prova. 

 

 

[Un frame da in water]

 

 

Oltre a quella fondamentale ripetizione prosciugata e scoperta, che continua sul leitmotiv arte/vita, una frase innocua come "if she goes with the alley" apre uno scenario di (meta)pensiero estetico che investe il campo ontologico.

 

Nonostante diversi cenni al buddismo e nonostante la ronde di ripetizioni e variazioni si possa prestare a letture così orientate, Hong non ha finora trovato un proprio tratto distintivo in una sensibilità olistico-animistica, e non compie questo passo neppure con in water; tuttavia, se relata a tema creativo e sfocatura, quella battuta può illuminare un progetto stilistico che, al di là della portata delle increspature visibili, ha saputo mantenersi dinamico.

 

Quest'ultima prova si inserisce in pieno in quel filone emotivamente/discorsivamente più grave e formalmente più contemplativo ben rappresentato da On the Beach at Night Alone, con cui condivide anche il ricorso (non marcato: emerge con Woman on the Beach e passa, tra gli altri, per In Another Country e La caméra de Claire) al topos della spiaggia e del mare, rilevante in senso simbolico: da qui l'affievolirsi delle componenti romanzesca e ironica da un lato e la maggior attenzione al piano plastico (e/o allo spazio pittorico) dall'altro.

 

 

 

Nello specifico, la scomparsa dello zoom e la preminenza di scene fisse piuttosto lunghe (in cui movimento corporeo e verbale sono ridotti) indirizzano l'esperienza dello spettatore verso la paziente perlustrazione di composizioni dai contorni non netti, peraltro in assenza di inquadrature eccessivamente ravvicinate che avrebbero annullato ogni possibilità di ricostruzione spaziale.

 

Proprio in questa possibilità, che è una possibilità di figurazione, abita l'interpretazione qui proposta: in water è evidentemente un tentativo di asciugare le tipiche strategie hongiane preservando la profondità discorsiva, ponendo allora il focus tanto su un film che funziona anche se prelevato da questa rete intertestuale quanto sulla stessa operazione semplificante; cionondimeno, lo sfocato interviene anche sulle consuete strutture di ricezione della figurazione.

 

È forse possibile, pertanto, avvicinare il film a un insieme eterogeneo capace di comprendere il tardo Monet e quegli espressionisti astratti in cui è nonostante tutto ritracciabile (e/o inseribile: qui agiscono le consuete strutture di ricezione) un principio flebile e controverso di figurazione: sul piano degli esiti non è il caso dell'action painting di Jackson Pollock ma, semmai, delle prospettive di Mark Rothko e Barnett Newman.

 

Allontanatisi dal geometrismo di Piet Mondrian, entrambi guardano alle espressioni primitive sia sul versante formale sia per quanto riguarda, come scrive Rothko, quel "profondo senso spirituale sotteso a ogni opera d'arte arcaica".

 

L'orizzontalità delle più celebri opere del primo e la verticalità delle tipiche zip (linee) del secondo cercano di intercettare una dimensione spaziale che punta proprio ai fondamenti: per esempio, il filosofo Giancarlo Lacchin sostiene che i quadri di Newman attirino a sé il fruitore "anche attraverso un'esperienza «locativa» che, in virtù delle zip, si definisce in primo luogo secondo la verticalità, segno primario dell'«essere nel mondo» dell'uomo".

 

 

[Un frame, uno dei pochi non sfocati, da in water]

 

 

Ovviamente il legame con Hong non è diretto, anzi: mi pare però che (intertestualmente) in water punti a un'essenzialità dalle sfumature liriche e, appunto, spirituali; e che ciò passi anche per il piano strettamente visivo, sicuramente supportato dal ritmo (questione sì di tempo misurabile, ma anche di tempi e architetture narrative).

 

Visto il tono complessivo e visto l'"if she goes with the alley", molte composizioni sembrano farsi carico del discorso di fondo: nella staticità (che però deve confrontarsi con possibilità diverse rispetto a quelle di un quadro) o nel movimento, le macchie - certo riconoscibili - possono e non possono raggiungere una consonanza con il mondo del frame, delimitato da margini immobili, in virtù dell'indeterminatezza delle linee. 

 

Se il problema è insieme estetico e ontologico, l'obbligato meditare è quello dello spettatore così come quello del tramite Seoung-mo, non a caso attento al proprio posizionamento nel mondo in un rispecchiarsi di piano esistenziale e piano fisico che non è solo un trucchetto del marionettista.

 

È il pensare (artistico) di Seoung-mo che interpreta il suo essere a metà tra due mondi morali, quello di un gruppo di turisti e quello di un'autoctona che spontaneamente ne raccoglie i rifiuti, anche a partire dalle effettive collocazioni spaziali dei primi e della seconda; un pensare artistico che necessariamente interviene a posteriori, dopo un evento che non può essere ripetuto se non stravolgendone statuto e significato.

 

Quasi di sfuggita, accanto al tentativo di creare un reenactment fedele dell'attimo clou, Hong ci dice tra l'altro qualcosa in più su queste ripetizioni nel momento in cui Seoung-mo, nel mettere in scena il suo stesso scorgere la donna da un promontorio, esclude dall'inquadratura le due persone che prima lo accompagnavano.

 

L'intenso finale dai contorni narrativi incerti parla ancora di trovare un posto nel mondo - in un'opera che rifiuta un consunto pessimismo pseudo-esistenzialista - per mezzo di un movimento che davvero lavora nell'incertezza, la nostra, quasi raccogliendo uno dei pensieri del filosofo Jean-Luc Nancy.

 

Com'egli ha scritto pensando ad Abbas Kiarostami (e Gilles Deleuze), "il movimento non è lo spostamento o la traslazione, che possono aver luogo tra posti dati in una totalità essa stessa data. 

Esso è al contrario ciò che ha luogo quando un corpo è nella situazione e nello stato di dover trovare il suo posto. 

Io mi sposto (materialmente o mentalmente) quando non sono - ontologicamente - là dove sono - localmente.  

 

Il movimento mi porta altrove, ma l'«altrove» non è dato preliminarmente".

 

 

[Un frame da in water]

 

 

Nulla di teleologico, nessuna chiusura né messa a fuoco definitiva: magari l'evocare un mondo di cose che non vediamo, un reame di fantasmi, un urlo confinato in una soggettività, punta proprio verso un'apertura ontologica, acquatica. 

 

Come Seoung-mo, anche noi siamo chiamati a confrontarci con la sfocatura e a rispondere - anche in maniera inconsapevole, ma partendo prepotentemente dalla percezione - esteticamente.

 

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