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Il grande carro - Recensione: racconto di due stagioni con tempesta - Berlino 2023

Recensione dell'ultimo film di Philippe Garrel, dalla 73ª edizione del Festival internazionale del Cinema di Berlino

Con Il grande carro, il settantaquattrenne Philippe Garrel riappare in competizione alla Berlinale a tre anni da Le sel des larmes e, soprattutto, torna a girare un film a colori dodici primavere dopo Un été brûlant, avvalendosi alla fotografia di un Renato Berta in forma smagliante.

 

Come in in water di Hong Sang-soo, presentato nella stessa kermesse in Encounters, siamo davanti a un autore con un corpus consistentissimo di opere che affronta una fase anagrafica autunnale con un piglio sì corrispondente, autunnale e senile, ma di un autunno che sfuma in un principio di primavera, più che nell'inverno esanime. 

(L'ampiezza del corpus è un fatto rilevante di per sé soprattutto dal punto di vista critico-cinefilo, secondo un'ottica consapevolmente ipertestuale: a tal proposito può essere utile convocare il concetto di "Nom-de-l'Auteur" delineato sui Cahiers du Cinéma nel 1971 in un'analisi di Morte a Venezia da due giganti come Serge Daney e Jean-Pierre Oudart.)

 

In tandem con una sceneggiatura (alla cui stesura ha collaborato anche il compianto Jean-Claude Carrière) che spinge a rifiutare la connessione biunivoca di significati e codici Pantone, il pastoso naturalismo di Berta abbraccia questa doppia natura spingendo verso una leggerezza che non è più quella di rottura (esibita) della Nouvelle Vague giovanilistica - di cui Garrel è certamente un erede, se non un esponente di seconda generazione - ma quella, semmai, dell'Éric Rohmer dei Racconti delle quattro stagioni.

 

Come dichiarato dal diretto interessato quasi un decennio fa, la carriera di Garrel può essere suddivisa in un periodo iniziale segnato da ristrettezze economiche che hanno determinato un approccio "più poetico", maggiormente autorialista in senso truffautiano, e in un periodo successivo di stabilità - il momento di svolta risale al 1983 grazie a Liberté, la nuit - "più di finzione"; e oggi, come da alcuni anni a questa parte, il tentativo "è mixare questi due stili, dipingere la vita con tocchi poetici".

 

[Il trailer di Le grand chariot]

 

 

Ne Il grande carro Garrel si pensa nei panni di un marionettista che guida un piccola compagnia assieme ai tre figli, (interpretati da) Louis Garrel, Esther Garrel e Léna Garrel, con la vecchia madre e l'aspirante pittore Peter a completare il quadro finzionale. 

 

Quella che vediamo è una famiglia deliziosa, che si barcamena tra un'anima artistica, un'anima imprenditoriale e un'anima artigianale (l'ambientazione è peraltro contemporanea, ma potrebbe benissimo non esserlo).

Quando la morte di Simon, alter ego del regista, bussa alla porta - assieme alla premonizione onirica di una distruzione del teatro a opera di una tempesta - gli equilibri vacillano soprattutto in superficie, ma non cala la notte, non arriva il freddo. 

 

Quest'ultima fatica non è un commiato, Simon/Philippe non è Prospero: la tempesta non colpisce gli avversari come scrive il Bardo, ma le persone più care, demolendo senza rabbia per permettere di ripartire proprio da quelle macerie gentili, materia prima preziosissima (di cui sono fatti i sogni). 

 

Le figlie, per ripartire, si domandano che fare appena il teatro entra in una crisi che, lungi dall'avere l'unica causa nella scomparsa del genitore, testimonia al contempo il mutare della sensibilità collettiva: per la prima - in apparenza più vicina al padre - la modernità è già nei copioni, nei classici; per la seconda è invece necessario rinnovare, senza che questo equivalga a rincorrere inautenticamente comode mode.  

 

Ma sostenere la modernità dei classici significa ripeterne senza soluzione di continuità ogni aspetto?

E voler rinnovare, d'altro canto, implica il ripudio dell'intero patrimonio esistente?

 

Il regista non è orientato da un paternalismo anacronistico, né da una malinconia conservatrice, né da una furia iconoclasta, né da un nuovismo inautentico: lo sa fin troppo bene, le forme si trasformano e non possono perire in una teca, come Pulcinella vincono sempre la Mietitrice, gli inverni, cominciando a rinverdire nel loro stesso imbrunire. 

 

Anche perché ciò che conta davvero per un umanista raffinato come Garrel non può che essere mostrato in una manciata di stacchi, da artigiano, dimenticandosi le marionette - lo spazio della finzione, la visione frontale - nel momento topico in cui queste fanno parlare millenni grazie alle mani che le muovono e agli occhi che le osservano. 

 

Quello che possiamo vedere è giusto il loro cadere, come le vedono quegli occhi non più creduli, quando a cadere sono quelle mani, quelle di Simon, e il dialogo si tronca.

 

 

[Léna, Philippe ed Esther Garrel alla 73ª edizione del Festival internazionale del Cinema di Berlino]

 

 

Nel complesso, Le grand chariot (d'or) non è tuttavia un discorso esplicitamente teorico, perlomeno non in maniera intellettualistica o (verbalmente) urlata: il pensiero sull'arte vive interamente sulla pelle dei personaggi, nelle pratiche, dovendosi rapportare alle loro traiettorie. 

 

Ecco allora che è il discorso estetico a emergere, con una lievità matura che - anche al di là delle frequenti spruzzate di ironia - sa essere superficiale per profondità (le parole sono quelle di un aforisma di Friedrich Nietzsche dedicato all'ethos greco) senza riproporre alcunché di rotondamente classico.

 

Garrel salta di ellissi in ellissi e allarga le maglie della narrazione, senza cercare la scarsa intelligibilità quanto, piuttosto, l'armonizzazione formale ed emotiva di questo andamento sincopato, il che produce effetti rilevanti sul versante contenutistico. 

 

Certo, per chi scrive la pellicola spunta qualche difetto proprio in tal senso: il saltuario ricorso al voice-over aggiunge poco e alcuni sviluppi sul fronte sentimentale paiono non troppo credibili (sulla scrittura dei personaggi talvolta aleggia un generico spettro di misoginia, che si dissolve non appena lontani dal campo della caratterizzazione strettamente psicologica). 

 

Eppure la lievità rimane; sarebbe bene - ancora con Nietzsche - "onorare assai di più il pudore con cui la natura [come il Cinema, n.d.r.] si nasconde dietro gli enigmi e le variopinte incertezze"

 

La tempesta non pulisce il cielo, ma lo ridipinge (anche nello spazio di una sola vita) scordandosi di un solstizio.

 

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