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La squisita trilogia del cattivo gusto di Peter Jackson

Uno sguardo agli anni d'esordio splatter del celebre regista neozelandese

Prima di portare a termine la sua celebre trilogia fantasy, Peter Jackson vagava tra gli oscuri e sanguinolenti meandri del gore, dello splatter e del comedy horror. 

 

Dalla fine degli anni ‘80 il regista neozelandese sembrava destinato al Cinema di genere, tanto l’interesse che le sue prime opere scaturirono nello spettatore e nella critica del tempo.

 

Pur mantenendo il suo inconfondibile stile, Peter Jackson scelse poi un percorso ben differente spaziando tra generi diversi e portando sullo schermo ciò che lo appassionava.

 

Fino ad oggi infatti, è indubbio che Peter Jackson abbia sempre scelto cosa e come dirigere in base agli interessi personali; ciò vale tanto per Il Signore degli Anelli, realizzato grazie al suo amore per J.R.R. Tolkien, quanto per King Kong e la più recente docu-serie The Beatles: Get Back.

 

Parliamo comunque di un regista formatosi da autodidatta che già da bambino sperimentava con l’8mm del padre realizzando simpatici cortometraggi con gli amici.

Una persona interessata fin da subito alla comprensione dei meccanismi che permettono di dare senso alle visioni, trasformando l’astratto in concreto e generando sorpresa, stupore e - perché no - profonda repulsione.

 

“Sono un regista egoista; i film che faccio sono esattamente il tipo di film che vorrei uscire a guardarmi. 

Penso che il Cinema sia un’estensione di fantasie infantili; ero un bambino che giocava sempre con i mattoni di legno, creavo castelli e giocavo con le macchinine, raccontando delle storie nella mia testa. 

Credo di non essere mai uscito da quella fase” 

[Peter Jackson in un’intervista all’interno del documentario Sex, Drugs and Soft Toys sul making of di Meet the Feebles

  

Da cinefilo incallito e avido spettatore, Peter Jackson nutrì la sua curiosità prima con il New Horror degli anni ‘70 di George A. Romero e Wes Craven, poi con lo splatter e il body horror di Sam Raimi e David Cronenberg.

 

Tali influenze sono più che evidenti tanto in Fuori di testa quanto in Splatters - Gli schizzacervelli e si riflettono a volte come omaggi, altre come rielaborazioni intelligenti di geniali intuizioni.

 

A Raimi in particolare Peter Jackson rubò la dissacrante ironia e l’iperrealismo grottesco delle sequenze gore, portando il genere all’apice delle sue possibilità; attinse alla commedia dei Monty Python saccheggiandola del suo squisito surrealismo e ripensò il Cinema muto, proponendo gag slapstick (o splat-stick) dal tono orrorifico.

 

 

[Peter Jackson in Fuori di testa mentre mangia dell'ottimo cervello]

 

 

Fuori di testa (in originale Bad Taste) uscì nelle sale neozelandesi nel 1987 e fu un inaspettato successo. 

 

Il film nacque in realtà come un cortometraggio di dieci minuti, ma attirò l’attenzione della New Zealand Film Commission che decise immediatamente di investire 235.000 dollari neozelandesi per la produzione di un vero e proprio lungometraggio. 

Realizzato in quattro anni con mezzi di fortuna e ambientato per la maggior parte nella città natale di Peter Jackson, Fuori di testa è una sorta di progetto tra amici e conoscenti contraddistinto dalla meravigliosa arte dell’arrangiarsi.

 

Con i suoi ex compagni di scuola e colleghi litografi, Peter Jackson si ingegnò per la creazione di effetti speciali artigianali, dilettandosi nella costruzione di modellini ad hoc e attrezzature in legno e alluminio rigorosamente homemade tra dolly, camera crane e steadycam.

 

 

[Nel documentario Good Taste made Bad Taste del 1988 sul making of di Fuori di testa, Peter Jackson ammette di aver concepito la dimensione delle maschere degli alieni esclusivamente in base alla dimensione del forno di casa dei suoi genitori, dato che sarebbero state cotte proprio al suo interno]

 

 

In Fuori di testa un gruppo di alieni ha invaso la città neozelandese Kaihoro e macellato gli abitanti allo scopo di lanciare la prelibata carne “homo sapiens” sul mercato delle catene spaziali di fast food; dall’altro lato un’improbabile unità speciale chiamata The Boys e costituita da sgangherati poliziotti in borghese cerca in tutti i modi di evitare che il piano malefico dei nemici si realizzi.

 

Caratterizzato da un tono prevalentemente infantile e farsesco, Fuori di testa partirebbe da una premessa tematica puntuale, una denuncia - se vogliamo - contro il cibo spazzatura delle multinazionali, contro l’omologazione e le gerarchie del lavoro.

 

In realtà il messaggio alla base del film lascia giustamente lo spazio a una serie di notevoli accorgimenti visivi che vale la pena ripercorrere insieme.

 

Così come per gli effetti speciali, Peter Jackson si occupò anche della realizzazione delle maschere e dei numerosi prop utilizzati nel film spesso in modo insolito e anticonvenzionale: dal disgustoso (ma a quanto pare buonissimo) vomito blu che è sostanzialmente yogurt, muesli e colorante alimentare, alla maschere con l’imbuto fino agli ingegnosi sistemi per far esplodere il sangue finto nelle scene più raccapriccianti.

 

 

[L’espediente geniale di Derek: uno dei personaggi interpretati da Peter Jackson perde pezzi di cervello a causa di una brutta caduta e cerca di tenere chiusa la sua scatola cranica prima con un cappello e poi con una cintura di pelle]

 

 

I personaggi sono perfettamente inseriti all’interno di gag sapientemente costruite: ciò vale sia per i goffi e barcollanti extraterrestri che sembrano venire “da un pianeta pieno di Charles Manson” ma quando si annoiano giocano a battimani, sia per il gruppo di scappati di casa che cerca di dargli la caccia.

 

Prevalgono allora situazioni al limite della catastrofe, rappresentate - per esempio - dalle numerose scene ambientate sugli strapiombi delle montagne in cui i personaggi rischiano continuamente di cadere.

 

Ricco di omaggi cinematografici e riferimenti all’Inghilterra (alla corona inglese e ai Beatles), Fuori di testa è ormai un cult affermato.

Nonostante infatti rappresenti il bad taste all’ennesima potenza tra smembramenti e cervelli spappolati, l’esordio di Peter Jackson mostra una regia solida nella sua rozzezza caratterizzata spesso da primi piani deformanti e carrellate dal basso.

 

Un grande lavoro di montaggio, sostanziato nel ritmo serratissimo che distingue la successione delle scene, una gestione sorprendente dell’azione considerando i mezzi e una colonna sonora di tensione eclettica e citazionista rendono Fuori di testa un progetto anarchico fondamentale per la Storia del Cinema horror indipendente e del Cinema neozelandese.

 

In effetti, l’identità nazionale - una costante nella filmografia del regista - sembra essere stata il motore anche per le sue produzioni successive, realizzate sempre in Nuova Zelanda da professionisti neozelandesi ma finalizzate a raggiungere un pubblico al di là del proprio Paese di produzione.

 

 

[Peter Jackson insieme a un Feeble]  

 

 

L’artigianalità di Fuori di testa riuscì finalmente a formalizzarsi attraverso la fondazione di Weta Workshop, compagnia di fornitura di materiale di scena e servizi cinematografici specializzata in scenografie ed effetti speciali fisici fondata da Richard Taylor.

 

Uno dei primi lavori di Weta - che diventò famosa solo successivamente con la trilogia de Il Signore degli Anelli e con la sua divisione digitale che si occupò, tra i tanti, della realizzazione di Avatar - fu proprio Meet the Feebles, secondo lungometraggio di Peter Jackson, nonché prima collaborazione del regista con la sua futura partner Fran Walsh.

 

Originariamente concepita come una serie televisiva e con un budget di soli 750.000 dollari, Meet the Feebles è un’irreverente commedia musicale di pupazzi che non segue una vera e propria linearità narrativa.

 

Allo spettatore viene presentata una sorta di versione misantropa dei Muppets di Jim Henson, pupazzi membri di una compagnia teatrale estremamente scorretti, inseriti in un mondo - quello dello spettacolo - fatto di odio e degrado.

 

Il focus è principalmente su un tenero riccio novellino di nome Robert e su Heidi, una diva ippopotamo costantemente maltrattata; ma in realtà il film esplora una vasta quantità di personaggi tremendi tra cui un giornalista mosca bramoso di feci, un manager tricheco approfittatore e un viscido scagnozzo ratto. 

C’è tristemente tutto nella satira perversa, sovversiva e sfacciata di Meet the Feebles: sesso, imprecazioni, scene di stupro, disordini alimentari, dipendenze da droga, veterani del Vietnam, battaglie per la paternità, pornografia, omicidi, tentativi di suicidio, spiritualità ridicolizzata e malattie sessualmente trasmissibili compresi i sintomi correllati quali vomito, pus e fuoriuscita di liquidi non identificati.

 

Meet the Feebles è il calderone del cattivo gusto per eccellenza e allo stesso tempo è la più demitizzante e provocatoria rappresentazione del settore mai realizzata.

 

Un film certamente non adatto ai deboli di stomaco, ma ancora più maturo nella regia, nella cura degli effetti speciali e nella gestione incredibile dei pupazzi in scena.  

Peter Jackson ha infatti raccontato di averlo girato per due volte: la prima quando si è recato per tre giorni consecutivi in studio a registrare e dirigere le performance vocali degli attori, la seconda quando ha dovuto comporre l’aspetto visivo di ciascuna scena. 

 

Un esercizio interessante che l’ha costretto a visualizzare il film solo nella mente, immaginando tutti i 90 minuti sincronizzati con le tracce audio.  

 

[Il finale di Meet the Feebles è pura poesia dissacrante di Peter Jackson: un numero musicale incentrato sulla sodomia con statue falliche e cori femminili si alterna a una terribile sparatoria di massa]

 

 

L’ultimo capitolo splatter per Peter Jackson arrivò con la realizzazione di un progetto definitivo, manifesto della maturità ormai raggiunta del regista neozelandese nel Cinema di genere.

 

Nel 1992 uscì nelle sale Braindead, stavolta realizzato con più di due milioni di dollari e interpretato da attori non troppo avvezzi al genere ma comunque abbastanza pratici del mezzo cinematografico come Diana Peñalver, star della soap opera latina alla prima esperienza con un film neozelandese di questo tipo.

 

In Italia il film subì un violento processo di adattamento sostanziato nella trasformazione del titolo nel più didascalico Splatters - Gli schizzacervelli e nella scelta del doppiaggio.

Operazione di discutibile gusto che tuttavia potrebbe trovare giustificazione a partire da una volontà - o necessità - di alleggerire in qualche modo la violenza espressa nella maggior parte delle scene.

 

In effetti, alla sapiente gestione della messa in scena e dell’elemento comico delle sue precedenti produzioni, Peter Jackson aggiunge 500 litri di sangue finto in più, realizzando un’opera che supera decisamente le altre in quanto a impatto visivo. 

 

 

 [Timothy Balme in una scena di Splatters - Gli schizzacervelli]

 

 

A conti fatti il film si presenta come uno zombi movie incentrato su una storia d’amore sancita da una misteriosa profezia e ostacolata dalla presenza di una madre ossessiva; ma come sappiamo, nel Cinema di Peter Jackson sono spesso le modalità a rendere tutto decisamente più interessante.

 

Il film è ricco di spunti stupefacenti, propone ancora l’utilizzo di armi anticonvenzionali (basti pensare al super tagliaerba utilizzato da Lionel) e reinventa assurde forme di contagio per cui gli zombi si moltiplicano e muoiono con una rapidità inaudita esplodendo, finendo decapitati, smembrati o spezzettati.

 

In Splatters la padronanza della messa in scena acquisita si sposa con una regia ancora più matura, definita dall’uso del grandangolo nella deformazione dei primissimi piani e dalla scelta di specifici movimenti di macchina tesi ad una maggiore profondità di sguardo.

 

È con questo terzo e ultimo lungometraggio, ultima tappa di un folle viaggio nel genere, che Peter Jackson sancisce il suo primato di artigiano dell’horror, curando con perizia oltre 650 modelli di maschere e parti del corpo.

 

Allo stesso tempo gestisce la naturale avversione dello spettatore nei confronti delle immagini attraverso l’utilizzo di un raffinato umorismo, purtroppo assente nella versione italiana del film che opta per una trivialità più ingombrante e sfacciata.

 

 

[Il Ninja di Dio è chiaramente l’eccezione che conferma la regola del discorso di cui sopra]

 

 

Un alto livello di maturità è intuibile anche nella stessa costruzione delle gag, adesso inserite in una linearità narrativa più convenzionale e marcatamente slap-stick.

 

La maggior parte delle scenette comiche, dalla corsa scivolosa sul pavimento di sangue al tentativo di ammansire gli zombi nutrendoli con normali esseri umani, sono affidate ovviamente allo sbadato protagonista Lionel e al suo degno interprete Timothy Balme.  

 

Grazie alla sua capacità di rappresentare il ridicolo, Balme si muove in bilico tra il Cinema muto e la commedia di serie B: un contrasto un po’ assurdo e tuttavia perfettamente in linea con la tendenza del regista.

 

Anche in questo caso, l’elemento di genere - l’invasione zombi - è per Peter Jackson un pretesto per inscenare uno spettacolo scioccante di matrice profondamente iconoclasta.

 

Ecco perché la carneficina finale non può essere intesa esclusivamente come mero intrattenimento splatter, ma anzi il suo significato deve essere identificato nell’intenzionalità eversiva di un regista che ama mescolare il gore al romanticismo, celebrando la macellazione del corpo e gettando luce su una serie di problematiche sociali relative alla famiglia, al sesso e alla religione. 

 

 

[L’invenzione più folle di Peter Jackson in Splatters è certamente il neonato zombi, probabilmente il primo infante morto vivente della Storia del Cinema]

 

 

Riunendo in sé le straordinarie peculiarità di Fuori di testa e Meet the Feebles, Splatters rimane il film che più rappresenta i primi passi di Peter Jackson nel Cinema.

 

In questo modo il regista ha potuto allontanarsi serenamente dal genere, sfruttando la propria esperienza e espandendo i propri confini oltre le lande desolate della fantastica Terra di Mezzo. 

 

L’intera trilogia comedy horror è stata per lui materiale prezioso attraverso il quale affinare la propria tecnica, inventando un particolare stile registico e dando forma al suo personale (dis)gusto. 

I primi lungometraggi di Peter Jackson ci hanno mostrato quanto l’apparenza rozza e approssimativa di un’opera possa in realtà nascondere tutt’altro che dilettantismo.

 

Esattamente come in Fuori di testa, alla fine ci siamo ritrovati ad assaggiare un impasto nauseante e abbiamo scoperto, con estrema sorpresa, un sapore inaspettato di yogurt e dolcissimo muesli.   

 

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