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Un couple - Recensione: più di un monologo - Venezia 2022

Recensione dell'ultimo film di Frederick Wiseman, da Venezia 79  

Novantaduenne, campione del documentario e solito a minutaggi importanti, Frederick Wiseman sbarca da habitué alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia con un progetto di finzione dalla durata di soli 64 minuti: Un couple.

 

Non si tratta del suo esordio assoluto nella finzione, in quanto la qualifica spetta a quel The Last Letter che, invero, condivide con Un couple diversi tratti, come la lunghezza atipica, l'importanza della dimensione teatrale (il film del 2002 risulta addirittura coprodotto dalla Comédie Française, compagnia su cui Wiseman ha realizzato anche un documentario) e monologica, la coproduzione francese e la presenza di una sola attrice.

 

Se in quel caso il materiale di partenza era costituto da un monologo di Vasili Grossman, ora è il diario, il journal intime di Sòf’ja Tolstaja, moglie di Lev Nikolàevič Tolstòj, a fungere da base, rielaborata a quattro mani da Wiseman e Nathalie Boutefeu - attrice francese protagonista del film - durante la pandemia, momento in cui la pluridecennale indagine sulle istituzioni del regista statunitense è giocoforza incorsa in una battuta d'arresto.

 

Dall'analisi - profondamente foucaultiana - sull'antropico e sull'ánthrōpos, sulla loro interazione, Wiseman passa, senza stravolgere la propria estetica distintiva, a un esame incrociato di uomo e mondo naturale, termini la cui interazione è tipologicamente differente rispetto alla precedente.

 

Un couple è interamente ambientato nella suggestiva isola bretone di Belle-Île, e in ambito cinematografico non si può dire Bretagna, specie quella costiera o insulare, senza pensare a Jean Epstein, allo stadio conclusivo della sua carriera; in questo senso, l'apertura dell'opera è emblematica: l'indugiare sul rifrangersi delle onde sugli scogli, quegli scogli così riconoscibili, rinvia difatti obbligatoriamente a capolavori come Le tempestaire (che potete vedere gratuitamente).

 

 

[Un frame da Un couple] 

 

 

L'associazione con Epstein supera il livello della citazione iconografica, andando a toccare alcuni dei nodi fondanti della speculazione teorica e della prassi del cineasta transalpino, attivo tra anni '20 e '40 e riconducibile, obliquamente, alla stagione dell'impressionismo: in particolare, è la complessa nozione di fotogenia a suggerire qualche proficua chiave di lettura per interpretare un oggetto alieno come Un couple, sicuramente lontano dai canoni del concorso veneziano.

 

Rispetto alla lettura del concetto proposta da Louis Delluc, il focus che Epstein, virtuoso del montaggio, pone al contempo (anticipando Gilles Deleuze, come nota lo studioso Roger Odin) sul movimento e sulle qualità morali "delle cose, degli esseri e delle coscienze" apre la strada ad una visione estetica modernissima, capace di oltrepassare brillantemente il limite riproduttivo del mezzo cinematografico.

 

Wiseman, come preventivabile, conserva un gusto che potremmo (superficialmente) definire "documentaristico" tanto nella composizione del quadro - e nella selezione dei soggetti - quanto nel ritmo impresso dal montaggio, da lui curato: i monologhi recitati da Boutefeu sono infatti intervallati da successioni di brevi inquadrature di flora e fauna, e (quasi) ogni movimento della donna si compie in questo "giardino in piena fioritura primaverile".

 

Come dichiarato dal regista, "gli animali, gli insetti, i fiori, gli alberi e i suoni […] sono anch'essi protagonisti del film", e la relazione istituita rispetto ai monologhi - trasformatisi in dialoghi - non si limita a connessioni puramente concettuali mediate dal simbolico, dall'enciclopedico o, sia mai, da una logica illustrativa.

 

Più che il figurato, il gioco concerne - marcando una discrepanza tra i due termini - il figurativo e la risonanza creatasi, ponendo l'accento sulla sensibilità (che ingloba anche il sonoro), tra parole, audio e video: adottando tale prospettiva, l'approccio fruitivo indicato tende, per l'appunto, verso una dimensione quasi ludica che, in maniera decisiva, interroga la fotogenia e sposta il discorso sul piano dell'intreccio tra le dimensioni concettuale, letterale, sensibile ed emozionale.

 

I nessi in grado di rapportare il senso delle parole di Sòf’ja e Lev, le immagini (di Boutefeu e del giardino) e le emozioni sono ciò che tiene insieme il film, che si rivela essere, in fin dei conti, la rappresentazione di uno spazio mentale.

 

La costruzione formale cela una notevole profondità di pensiero: il montaggio, ad esempio, oltre ad avvicinare misteriosamente monologhi e immagini in nome dell'interiorità, mostra una certa tendenza alla frammentazione e alla ricomposizione traslata, mentre la stessa impostazione generale delle scene sorprende a più riprese.

 

Sòf’ja parla, parla traducendo il proprio diario e parla citando quello del marito (una volta legge - a chi? - una sua lettera), parla al passato, e parla senza la propria metà: spesso si rivolge direttamente a Lev, consorte assente; spesso è immobile, seduta qui o lì, lontana da qualsiasi artefatto umano, immersa nella natura.

Spesso guarda dritto in camera, come fosse intervistata o come se la cinepresa (e dunque lo spettatore) fosse il marito, e se non lo fa è comunque disposta inequivocabilmente a favor di camera.

 

E sempre, non spesso, manca un controcampo.

 

Quest'assenza, espressa anche tramite il ricorso alla figura del riflesso (o dell'ombra), ben si collega al principale argomento dei monologhi, la difficile vita sentimentale dei coniugi Tolstoj, argomento il quale consente di toccare a sua volta punti come il ruolo della donna nella Russia ottocentesca e, su tutti, il rapporto arte-vita.

 

 

[Il regista Frederick Wiseman

 

 

In un film in cui il montaggio, nelle sua invasività quasi vertoviana, svolge un compito ancor più nodale del solito, la sua capacità riordinante e interpretante va a legarsi proprio a un'idea di mediazione artistico-concettuale che, specie in riferimento a Tolstoj, trova nella scrittura il proprio mezzo d'elezione.

 

Non è affatto un caso che, in un'opera in cui l'antropico farebbe altrimenti capolino solo nei panni di un muretto di pietre - relabile al concetto di limite o a quello proprio di riordino, con tutti i relativi corollari - i monologhi siano sostanzialmente cinti dalle uniche due scene girate in interni, in cui Sòf’ja è dinnanzi a un tavolino pronta a vergare una lettera.

 

Scritture e riscritture, letterali e figurate, sono allora l'orizzonte entro cui va letta quell'autoriflessività che caratterizza tanto la protagonista quanto la traduzione estetica della sua interiorità, ovvero il film, questo film profondamente letterario che, approssimandosi anche al teatrale, finisce per guadagnare un valore esclusivamente cinematografico di rilievo.

 

In poco più di un'ora, con un'opera dal ritmo bizzarro in cui la narrazione riveste un ruolo marginale, con un oggetto alieno, Wiseman riesce insomma a proporre una visione, pur rivolgendosi a pochi: verosimilmente Un couple, che potrebbe sembrare piccolo o minore, non riscuoterà un successo diffuso né competerà per i premi maggiori (francamente, la stessa scelta di collocarlo in concorso risulta quantomeno singolare).

 

Tuttavia il giudizio, in un caso simile, sembra poter lasciare spazio al riconoscimento di uno spessore autoriale riconfermato a cinquantacinque anni da Titicut Follies.  

 

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