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#top8

8 insoliti film disturbanti - Vol. II

In questa seconda parte, assieme alla proposta di 8 nuovi - e insoliti - titoli conturbanti, vi proponiamo un'altra domanda sul tema

In una precedente Top 8 pubblicata su CineFacts.it ho provato a ragionare insieme a voi lettori sulla ''nuova'' tendenza che, da qualche anno, porta gli spettatori a ricercare e cimentarsi in proiezioni votate all'eccesso visivo, all'efferatezza morale e al disturbo sociale.


Insieme a un fiume di titoli e nomi di registi emotivamente (e forse mentalmente) squilibrati ci siamo chiesti quali siano le pellicole che raschiano davvero in fondo all'anima, perché lo facciano e se sia possibile individuare produzioni di questo tipo che esulino dal classico stereotipo di "film disturbanteh!1!" costruito su immagini e contenuti tanto violenti quanto gratuiti.

 

Ad accompagnare la mia proposta di 8 titoli che seguissero questo pensiero sono arrivate le vostre risposte e commenti sul tema, fra le quali ho trovato particolarmente azzeccata quella di Jude, un'utente del sito che ha così descritto il suo pensiero in merito:
"Un film è definibile "disturbante" quando non solo ti fa soffrire per tutta la durata del film (mettendo alla prova la tua capacità di resistenza mentale) ma anche quando, dopo la visione, riesce a cambiare in modo irreversibile (o quasi) la tua percezione di una qualche realtà/situazione."

Direi che questa prospettiva (e quella di tutti coloro che la pensano allo stesso modo) sia più che condivisibile e "centrata" rispetto l'argomento. 


Ma se la chiave del "quale/come" può essere questa, allora vi propongo un altro quesito: perché sentiamo la necessità di imporci una visione di 90 minuti di disagio?

 

Per quale motivo vedere film che ci scombussolano le budella invece che godersi un po' di relax, tranquillità e allegria davanti a una commedia leggera?

 

[Esatto, stiamo parlando di quei tipi di film che ti fanno esplodere la testa]


La motivazione è completamente ascrivibile al nostro cambiamento percettivo rispetto alle realtà presentate dalle narrazioni a cui assistiamo, come ipotizzato da Jude?

 

Oppure c'è dell'altro?

Abbiamo qualche altra "giustificazione"?

Noi, creature nottambule, cinefili amanti dei deliri della carne, appassionati di miseri, quotidani orrori sociali e druidi di onirici orrori popolati da feti brutti e storti proviamo un immane piacere nell'investigare tra i prodotti che si celano sotto la superficie del Cinema commerciale, o siamo solo una maledetta razza di psicopatici deviati?

 

Futuri serial killer che Dexter spostati?

A voi l'ardua sentenza. 

 

["Kiri, kiri, kiri!"]

 

 

Nel frattempo, per rifletterci meglio, vi lascio con una seconda selezione di 8 Insoliti Film Disturbanti, stilata ovviamente seguendo le mie percezioni di dolore e disagio provate durante le visioni.

Se state cercando pellicole à la Vomit Gore Trilogy e A S****n film, sappiate che qui non le troverete.

 

Quindi, nel caso: fuori dai piedi. 



Posizione 8

Tideland - Il mondo capovolto 

Terry Gilliam, 2005

 

Jeliza-Rose (Jodelle Ferland) è una vispa bimbetta di undici anni costretta a fronteggiare gli orrori di una vita - per utilizzare un eufemismo - difficile: la madre è morta di overdose e suo padre Noah (Jeff Bridges), un rocker hippie fallito, non se la passa troppo meglio.

 

Dopo il lutto patito, i due si trasferiscono da Los Angeles in una desolata casa nel bel mezzo del nulla texano.

 

Quando la piega degli avvenimenti che la riguardano diventa davvero insostenibile, Jeliza inizia a perdersi in un mondo nascosto e meraviglioso fatto di teste di bambole e scoiattoli parlanti che le danno consigli.

 

Il film si apre con la piccola protagonista che legge un passaggio da Alice nel Paese delle Meraviglie.

 

Se a Lewis Carroll è affidato il prologo, ci pensa Mr Gilliam a farci vedere quanto è profonda e oscura (ma anche buffa e divertente) la tana del Bianconiglio.

Non servono tuttavia fauni inquietanti o mostri con gli occhi sui palmi delle mani per rappresentare le fantasie di Jeliza: il mondo capovolto è già qui, ogni giorno, in tutta la sua splendida e orribile follia.

 

Colori sgargianti e movimenti di macchina da presa orgasmici accompagnano alla perfezione la narrazione favolistica degli avvenimenti presentata dal cineasta britannico.

Il buon Terry, in un intro (extra) di circa un minuto, suggerisce allo spettatore di assistere alla proiezione con "gli occhi del bambino".


Grazie al c***o, dico io.

 

Sennò ci sarebbe da spararsi in bocca. 


Tideland è un film che raschia - e stranamente allo stesso tempo conforta - a fondo.

 

Posizione 7

Benny's Video

Michael Haneke, 1992

 

Benny (Arno Frisch) è un adolescente di buona famiglia che adora le immagini in movimento.

 

Camera sua sembra la sala di montaggio di Blob del buon Enrico Ghezzi: un oscuro rifugio stracolmo di videocamere e monitor che simultaneamente trasmettono filmati differenti.

In stato di semi-abbandono familiare il ragazzetto esce di rado dal suo covo e, quando lo fa, è prevalentemente per andare ad acquistare nuove videocassette in videoteca o per effetture riprese della realtà che lo circonda.


Un giorno, rivedendo il suo girato di un maiale abbattuto in un mattatoio, deciderà di diventare protagonista della stessa azione, entrando personalmente nel campo dell'inquadratura per uccidere un altro essere vivente.

L'aspetto più morboso della ripresa cinematografica - che imprime vita e morte in pellicola conferendo loro un moto perpetuo - e l'alienazione che porta all'autodistruzione del nucleo familiare moderno (elemento presente anche ne Il Settimo Continente, primo lavoro del regista austrico) sono i cardini ideologici su cui è costruito Benny's Video, secondo lungometraggio di Michael Haneke.

Io di Haneke ho sempre avuto paura.

Ma paura vera, eh.

La sua cinematografia trasmette da sempre l'immagine di un uomo metodico, un regista/stalker che, insinuandosi nelle case del mondo per riprendere i vizi e le perversioni dei loro abitanti, cattura immagini di rara crudeltà ed efferatezza. 

La cosa più spaventosa - soprattutto nelle sue prime produzioni - è come il regista di Monaco di Baviera riesca a spogliare la narrazione da qualsiasi aura di fiction legata a soggetto e sceneggiatura: i tempi sono lunghi, dilatati, i movimenti di macchina quasi impercettibili e le musiche assenti.

Il risultato finale - e probabilmente desiderato da Haneke - è quello di catapultare chi siede davanti allo schermo dentro all'orrore che gli viene mostrato.

Lo spettatore è trasfigurato, non è più se stesso.

Ormai è Michael Haneke.

È l'obiettivo della macchina da presa.


È Benny stesso.

 

Posizione 6

Haze (ヘイズ

Shin'ya Tsukamoto, 2005

 

Un uomo (Shin'ya Tsukamoto) si risveglia in un claustrofobico spazio buio e angusto.

 

Non è una bara.

 

Non è un cubicolo. (Ma è questo mondo, almeno?)

 

Un'entità invisibile comincia sbatacchiare e a torturare lo sfortunato, perennemente immerso fra quest'oscurità senza via di fuga e dolorosi e frammenti del suo passato.

 

Ricordo perfettamente come i primi minuti di questo mediometraggio mi avessero fatto pensare che - insieme a Eraserhead di David Lynch - Haze fosse la migliore rappresentazione di un incubo che avessi mai visto.

 

Se la conclusione del film lascia lo spettatore confuso e frastornato, è anche vero che un'analisi a mente fredda ci consegna un ragionamento inusuale sulla morte e sulla coscienza dell'essere umano.

 

L'animo dell'uomo - secondo il regista di Tokyo non nuovo a sperimentazioni di questo genere - è luogo oscuro, torbido, dove frammenti di esperienze passate, traumi, distorsioni sociali e manie personali cozzano fra di loro generando ansia e alienazione.

 

Tsukamoto inoltre, come spesso accade, oltre a dirigere monta, cura la fotografia, scrive e produce il suo lavoro: un mostro creativo!

 

Posizione 5

Bad Boy Bubby

Rolf de Heer, 1993

 

Imprigionato fin dalla nascita in un appartamento misero e sporco, Bubby (Nicholas Hope) è un un uomo di trentacinque anni che, in seguito ai reiterati soprusi sessuali e psicologici subiti dalla madre (Claire Benito) e a una formazione socio-culturale assente, si ritrova con l'avere la mente di un bambino.

 

Convinto da 'Mam' che l'aria del mondo esterno sia irrespirabile a causa di gas letali, Bubby non ha mai messo piede fuori dalle mura domestiche, vivendo di conseguenza un'esistenza meschina e perennemente sul filo della pazzia.

 

L'improvviso ritorno a casa dopo una lunga assenza del padre 'Pop' (Ralph Cotterill), fa germogliare in Bubby il seme del dubbio e dell'autocoscienza di sé che lo condurranno alla sua liberazione e ad assaggiare il mondo esterno.

 

Se Oltre il giardino ci aveva proposto un Chance Gardner (Peter Sellers) nei panni di novello esploratore del mondo dopo anni di autoreclusione, Rolf de Heer propone una storia per certi versi molto simile, eliminando però dalla narrazione di Hal Ashby quell'aura magica e poetica che ammantava le disavventure di Chansy, caricandola invece di dinamiche molto più crude, feroci e disturbanti.

 

Bad Boy Bubby è stato presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1993, dove si aggiudicò il Premio FIPRESCI e il Leone d'Argento - Gran Premio della Giuria.

 

Il mito della caverna di Platone farcito con una spruzzata di blasfemia, complessi edipici, incesti, omicidi e feticismi per grosse mammelle...

 

Che volete di più?

 

Posizione 4

La grande abbuffata

Marco Ferreri, 1973

 

Ugo (Ugo Tognazzi), Marcello (Marcello Mastroianni), Philippe (Philippe Noiret) e Michel (Michel Piccoli) sono quattro amici annoiati e inappagati dalle proprie vuote esistenze che decidono di porre fine alle loro vite nel modo più vizioso possibile: mangiando fino alla morte.

 

Riunitosi nella villa parigina di Philippe, il gruppo di amici appassionati di arte culinaria e belle donne inizierà a cucinare portate pantagrueliche con cui ingozzarsi fino al collasso corporeo.

 

La critica alla società dei consumi e alla classe medio-borghese di Marco Ferreri è a dir poco caustica e disturbante: il trionfo dell'edonismo, lo sfogo di istinti animali - l'abbuffata, il peto e l'accoppiamento selvaggio - come mezzo per raggiungere l'auto-annullamento e la distruzione di un sistema sociale distorto e alienante sono le portate principali de La grande abbuffata.

 

Il sesso, le immagini disgustose, le volgarità verbali e scatologiche si innestano - come unghie sulla lavagna - nelle dinamiche quotidiane di quattro uomini di cultura che, tra un'ingozzata e una scop*ta, si intrattengono vicendevolmente con dissertazioni filosofiche e proiezioni di opere d'arte.

 

Il risultato finale presentato da Ferreri (un regista non estraneo alle provocazioni), come prevedible, è a dir poco straniante e conturbante.

 

Il film venne pesantemente fischiato al Festival del Cinema di Cannes dove fu presentato in concorso e, successivamente, fu oggetto di pesanti tagli da parte della censura.

 

La critica si spaccò nettamente fra detrattori e chi, come Pier Paolo PasoliniLuis Buñuel, ne cantò le lodi per la feroce critica alla "nuova società del benessere" nata negli anni '60.

 

Non è infatti un caso che la pellicola di Ferreri, nel corso del tempo, sia stata più volte accostata al pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma e che lo stesso Buñuel la definì:

 

"Un monumento all'edonismo"

 

Posizione 3

Antiviral

Brandon Cronenberg, 2012

 

In un futuro distopico non troppo lontano il divismo ha raggiunto livelli talmente elevati da condurre il pubblico sino a desideri morbosi mai visti prima.

 

Un selfie con il proprio attore preferito o l'autografo della top model che cerchiamo di emulare da anni non bastano più.

 

I fan bramano qualcosa di maggiormente intimo e biologicamente organico per potersi sentire in contatto con i propri beniamini: i virus.


Syd March (Caleb Landry Jones) è un dipendente/venditore della Lucas Clinic, un'azienda specializzata nel traffico di malattie e deformazioni dalle quali le celebrità più in voga del pianeta sono state affette in passato.

 

Il protagonista sarà costretto ad assaggiare la sua stessa medicina e a indagare sulla morte di Hannah Geist (Sarah Gadon), una star morta in circostanze misteriose.

 

Fotografato con un bianco quasi perpetuo che sa di ospedale e malattia, il primo lungometraggio del figlio d'arte Brandon Cronenberg (sì: il papà è proprio il Cronenberg a cui state pensando) potrebbe essere tranquillamente collocato in una delle prime stagioni del distopico Black Mirror di Charlie Brooker

Antiviral - che nel cast vede la partecipazione del vecchio "capo-drugo" Malcom McDowell - è stato presentato alla 65ª edizione del Festival del Cinema di Cannes nella sezione Un Certain Regard.

Non perfetto, ma cinico e disturbante quanto basta.

 

Proprio come piace a "papà body horror".

 

Posizione 2

Room

Lenny Abrahamson, 2015

Keiner kann hier unten stören | Niemand, niemand darf uns hören | Nein man wird uns nicht entdecken | Wir lassen uns das Leben schmecken | Und bist du manchmal auch allein | Ich pflanze dir ein Schwesterlein | Die Haut so jung, das Fleisch so fest | Unter dem Haus, ein Liebesnest | Seid ihr bereit? Seid ihr so weit? | Willkommen, in der Dunkelheit! | In der EinsamkeitIn, der Traurigkeit | Für die Ewigkeit | Willkommen, in der Wirklichkeit. 


[Nessuno ci può disturbare quaggiù. Nessuno, nessuno può sentirci. No, non ci scopriranno. Assaggiamo la vita e se qualche volta ti senti sola ti faccio una sorellina. La pelle così giovane, la carne così forte. Sotto la casa, un nido d’amore. Siete pronti? Benvenuti, nell’oscurità!
Nella solitudine, nella tristezza. Per l’eternità. Benvenuti, nella realtà]

Questi sono i terrificanti versi di Wiener Blut, la canzone con cui la band Industrial Metal dei Rammstein descrisse l'orrore del 'caso Fritzl', uno dei più angoscianti e terribili avvenimenti di cronaca nera dell'ultimo secolo.


Per chi non lo ricordasse, Joseph Fritzl nel 2009 è stato condannato all'ergastolo per aver segregato in cantina la propria figlia per 24 anni e aver ripetutamente abusato di lei sessualmente.

Dalle violenze di questo mostro (vittima lui stesso di soprusi indicibili da parte dei genitori) nacquero 7 bambini che fino alla loro liberazione non conobbero altra realtà oltre a quella dell'oscuro bunker sotterraneo.

Room di Lenny Abrahamson si rifà alla stessa vicenda, adattando il romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue


La storia è stata ampiamente rivisitata, spostando il setting dall'Austria alla provincia USA e trasformando il rapporto padre/figlia in rapitore/liceale sequestrata.

 

Il periodo di prigionia è inferiore e il frutto degli abusi subiti della protagonista Joy Newsome (Brie Larson) è 'solo' il piccolo Jack (Jacob Tremblay) e non sette pargoli come nel caso del 'Mostro di Vienna'.


Il punto di forza di Room è la volontà di non insistere - quasi per nulla - sulle mostruosità avvenute dentro la stanza/bunker che dà il titolo al film: l'orrore, l'angoscia (ma per fortuna anche la speranza) sono legati esclusivamente alle dinamiche post-liberazione delle due vittime.


Una ragazza privata della propria innocenza, un bambino che non sa cos'è il mondo e il loro incontro con le realtà incomprensibili dei tabloid, dei divorzi e di una società a cui è incredibilmente difficile riadattarsi.

Room fu candidato a 4 Premi Oscar nel 2016 - tra cui Miglior Film e Miglior Regia - il film che fece vincere a Brie Larson praticamente ogni premio possibile è in ogni sua componente (fotografia, script e cast) una perla amara e dolorosissima.

E, visti i fatti da cui prende spunto, non ci si poteva aspettare nulla di diverso.

 

Posizione 1

Polytechnique

Denis Villeneuve, 2009

 

Se il concetto di "cinematograficamente disturbante" è davvero associabile al dolore psicologico ed emotivo patito durante la visione, allora inserire in questa Top 8 il quinto lungometraggio di Denis Villeneuve è quantomeno sacrosanto.

 

Il film narra le vicende che si conclusero col massacro del Politecnico di Montréal il 6 dicembre 1989, quando il venticinquenne Marc Lépine uccise a colpi d'arma da fuoco 14 studentesse dell'istituto.

 

Girato in un bianco e nero maestoso, Polytechnique è un film lancinante.

 

La fotografia è al tempo stesso sbalorditiva e destabilizzante in quanto riesce a rappresentare una vicenda così drammatica sfruttando composizioni visive che rasentano la perfezione e il concetto di "opera d'arte".

 

Va da sé quanto sia potente l'antitesi fra orrore e bellezza che si crea all'interno della pellicola.

 

Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival del Cinema di Cannes nel 2009, ha vinto 9 Premi Génie, tra i quali Miglior Film e Miglior Regia.

 

Polytechnique vi farà male.

 

Tanto male.

 



Chi lo ha scritto

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2 commenti

Adriano Meis

4 anni fa

Grazie a te per il commento, Claudio! Se ti va, facci sapere se ti è piaciuta la follia di quel pazzoide di Tsukamoto!!

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Adriano Meis

4 anni fa

Grazie Ambra! Threads mi manca, quindi l'ho prontamente segnato sul listone!

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