“Giulietta Masina è un’attrice dalla mimica, dalla cadenza, dai modi clowneschi.
Ma è anche un personaggio abbastanza misterioso che può incarnare, nel rapporto con me, una struggente nostalgia di innocenza, di perfezione”.
Le parole di Federico Fellini nei confronti di sua moglie sono oggi sorprendentemente congeniali all’inquadramento della carriera artistica di Giulietta Masina, spedita ai vertici della cinematografia internazionale grazie proprio a quella sua innata capacità di calarsi in ruoli diametralmente opposti: in prostituta e, contestualmente, in moglie infelice.
Due caratteri, due maschere che sono state spesso benedizione per l’attrice, ma che altrettanto spesso l’hanno confinata nell’area dei comprimari, soprattutto quando a dirigerla non era suo marito.
Sarebbe perciò sciocco cercare di slegare la carriera di Giulietta Masina dall’attività di Federico Fellini, perché è attraverso il genio e la fantasia del regista riminese che, di fatto, l’attrice è riuscita ad ottenere un riconoscimento globale del suo talento.
Tuttavia, complice la proficua attività di gossip che coinvolse i due coniugi negli anni della notorietà, ma anche la progressiva sovrapposizione ruolo-persona nei confronti della quale Masina dovette inevitabilmente fare i conti, nel raccontare l’attrice si tende spesso a lasciare in secondo piano le sue qualità di professionista, soprattutto se considerate nel contesto del Cinema italiano del dopoguerra.
Anche noi, come Masina, dobbiamo quindi misurarci con un’immagine dell’attrice consolidata e definita entro spazi che, come spesso accade, non rendono veramente giustizia al portato della sua attività artistica.
[Nel 1941 Giulietta Masina venne chiamata a interpretare alcune scene per la trasmissione radiofonica Terziglio incentrate sulle disavventure di due sposini, Cico e Pallina, scritte da un giovane giornalista del Marc’Aurelio, Federico Fellini; nemmeno due anni dopo, i due si unirono in matrimonio]
Nel suo esordio in teatro con il Gruppo Universitario Fascista (GUF) -Teatro, Giulietta Masina diede immediatamente prova del suo innato eclettismo interpretando, in un unico spettacolo composto da tre atti unici, tre personaggi diversi: una donna di mezza età da Felice viaggio di Thornton Wilder, un ragazzo di quattordici anni da L’ufficio postale di Rabindranath Tagore e infine una prostituta da All’uscita di Luigi Pirandello.
Un eclettismo che la rende ancora oggi una sorta di unicum - con qualche eccezione: Anna Magnani in primis, ma anche Valentina Cortese e Alida Valli - nel panorama delle attrici italiane del tempo ma che ha compensato, durante la sua carriera, certe caratteristiche fisiche ed estetiche non ritenute interessanti nel Cinema dell’epoca.
Con la sua minutezza, il viso gradevole e vagamente androgino e la sua aria innocente e disorientata, Giulietta Masina rimase nella condizione di eterna outsider al fianco delle cosiddette “maggiorate” della sua generazione.
Allo stesso modo, secondo i suoi racconti e quelli dei colleghi, Giulietta Masina non fu mai attrice pigra: non si arrese mai ai ruoli ma anzi si impose per discuterli, per perfezionarli maniacalmente e per renderli più vicini alla sua sensibilità. Questo senza poi aderire mai veramente al carattere del personaggio, elaborando così, forse senza una vera e propria volontà, una recitazione spesso sospesa e distaccata, perfetta per il surrealismo felliniano, ma decisamente lontana dall’intento neorealista al suo debutto. Si spiega quindi il raggiungimento della fama dell’attrice nel contesto del Cinema del marito, a fronte invece di un confinamento sempre più aggressivo in ruoli ripetitivi di caratterista in film di tutt’altra tipologia.
In questo senso, si prendano in considerazione senza pregiudizi di sorta, due film per la televisione in cui invece furono colte, sfruttate e messe in risalto le vere potenzialità artistiche dell’attrice: Eleonora di Silverio Blasi e Camilla di Sandro Bolchi.
Eccezionalmente priva dell’ingombrante presenza del marito, in questi due sceneggiati televisivi di grande successo Giulietta Masina mise a frutto la sua precedente (e lontana) esperienza teatrale dando vita a due personaggi femminili completi e sfaccettati.
Lasciando da parte eccessivi dettagli biografici, vale la pena a questo punto ripercorrere in ordine cronologico le grandi interpretazioni di Giulietta Masina, con l’obiettivo di contestualizzare le origini, lo sviluppo e il decadimento delle maschere che la consacrarono ad attrice di fama mondiale.
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In Senza pietà, sceneggiato da Federico Fellini e Tullio Pinelli, Giulietta Masina interpreta per la prima volta una prostituta, ruolo topico destinato a consolidarsi successivamente nella sua carriera.
Nonostante lo spazio ridotto messo a sua disposizione, il personaggio di Marcella emerge con potenza grazie proprio alle capacità di Masina che, al suo debutto, sembra già un'attrice di Cinema ampiamente rodata.
L'apparente marginalità del suo personaggio non le impedisce affatto di imporsi sulla scena in qualità di immenso personaggio secondario, portatore di un messaggio di sofferta speranza intrinseco al film che si associa alla provocazione antirazzista, rivendicata dallo stesso regista, nei confronti del maccartismo statunitense.
Masina tinge l'espressività della baldanzosa Marcella di un dolce patetismo, di una fragilità inaspettata, portando sullo schermo una serie di contrasti che diverranno poi tratto caratteristico del suo modo di recitare.
Senza pietà racconta la storia di Angela (Carla Del Poggio) che, recatasi a Livorno in cerca del fratello, finisce in un losco giro di prostituzione, mentre stringe un'appassionata (e disperata) amicizia con un sergente afroamericano (John Kitzmiller).
Sconfitto alla Mostra di Veneziadall'Amleto di Laurence Olivier, il film permise però a Giulietta Masina di ottenere il suo primo e precoce riconoscimento importante, il Nastro d'argentocome migliore attrice protagonista.
Disponibile su Rai Play
Posizione 7
Luci del varietà
di Alberto Lattuada e Federico Fellini, 1950
Il secondo Nastro d'argento come migliore attrice non protagonista arriva per Giulietta Masina solamente due anni dopo Senza pietà; sarebbe arrivato persino prima, se Luci del varietà non avesse avuto la sfortuna di incappare in numerosi problemi di produzione e distribuzione.
Il film segnò la fine del sodalizio artistico dei due registi (secondo alcune dichiarazioni, Fellini pretese di apparire come regista del film nonostante il suo scarso apporto alla realizzazione, infastidendo Lattuada), ma nacque nel contesto di una cooperativa autonoma fondata dai due registi e associata al 35% alla Film Capitolium, alla quale partecipò anche Giulietta Masina insieme a Carla Del Poggio e John Kitzmiller.
A dispetto delle numerose difficoltà e del conseguente insuccesso commerciale che indebitò Lattuada per molti anni, Luci del varietà resta un'opera di estremo interesse, probabilmente uno dei migliori - se non il migliore - film sul varietà italiano che sia mai stato realizzato.
Tra le sue ineccepibili qualità c'è sicuramente quella di aver dato ampio spazio alla profondità dei personaggi: qui Giulietta Masina, a fianco di Peppino De Filippo - che, invitato a ripescare nella sua memoria di attore di avanspettacolo, fornisce un'interpretazione quasi autobiografica - sperimenta per la prima volta il ruolo della moglie fedele e tradita.
Il suo personaggio, Melina Amour, fa coppia fissa in scena e nella vita con il primo attore di una piccola e disgraziata compagnia di spettacoli di varietà ma si trova a dover affrontare con dolore l'abbandono del suo partner, abbagliato dalla freschezza e dalla sensualità di un'aspirante ballerina (Carla Del Poggio) con cui inizia a covare il sogno di costruire un'impresa teatrale.
Già abile nell'intrecciare tratti differenti e complementari, Masina sperimenta l'effetto di sospensione tipico della sua recitazione attraverso l'affabilità pietosa, l'ingenuità e la mortificante devozione di una donna innamorata che spera di poter un giorno non conoscere più povertà, aprendo un'attività con il suo unico e amatissimo compagno.
Grazie a Melina, inoltre, l'attrice ha l'occasione di presentare al pubblico per la prima volta le sue ottime doti teatrali di caratterista, di mimo e di clownerie (si veda, tra le altre, la scena del suo numero di trasformismo), le stesse che affinerà e perfezionerà nei film successivi del marito con i quali otterrà più importanti riconoscimenti.
Con La strada Giulietta Masina diventa volto noto a livello internazionale.
Il quarto film di Federico Fellini infatti vince il Premio Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera, inaugurando l'ingresso ufficiale nella competizione della suddetta categoria fino a quel momento inesistente.
Folgorato dalla visione di una coppia di girovaghi circensi alle prese con la spinta della propria sgangherata carretta, Tullio Pinelli propone il soggetto a Fellini trovando immediatamente il suo consenso.
Ode a quel nuovo modo di fare spettacolo e alla diffusione della figura del clown, cioè dell'artista di circo abile nella giocoleria, nell'illusionismo, nell'arte dell'acrobazia e nella musica, La strada dà la possibilità a Giulietta Masina di esprimere appieno le sue capacità mimiche.
Attraverso Gelsomina, ragazza con un presumibile ritardo mentale spedita per volere della madre a fare da assistente al burbero artista di strada Zampanò (uno straordinario Anthony Quinn), l'attrice esibisce la sua totale padronanza dei codici della slapstick comedy, incarnando una sorta di Charlot al femminile.
Ogni azione di Gelsomina è perfettamente misurata, ogni espressione assunta sembra far parte di un disegno di recitazione prestabilito: ne emerge un patetismo disarmante, a tratti macchiato da una grande e sconsolata malinconia, soprattutto nei dialoghi con il personaggio del Matto.
Proprio il Matto, perno della pellicola interpretato magistralmente da Richard Basehart, ricorda con ironia una lezione esistenziale fondamentale: ogni persona serve a qualcosa; c'è sempre una logica, anche incomprensibile, dietro a ciò che ci capita.
Lezione che chiuderà metaforicamente il film, lasciando al bestiale Zampanò l'opportunità di riscoprirsi umano.
Ne Le notti di Cabiria, ancora Miglior Film in Lingua Straniera agli Oscar e Migliore Interpretazione Femminile al Festival di Cannes, Giulietta Masina reindossa gli abiti della prostituta, tinteggiando lo stereotipo della donna di strada di una stravaganza atipica e sorprendente.
Dopo La strada le abilità slapstick sembrano restare ben salde all'attrice, formalizzandosi finalmente in tratti distintivi del suo modo di recitare e della sua unicità in quanto protagonista femminile del Cinema italiano di fine anni '50.
Aiuta in questo senso la sua fisicità minuta, goffa e sgraziata, che Fellini esalta ponendola in contrapposizione con i corpi abbondanti e prosperosi delle donne dell'epoca, dalle aspiranti attrici della borghesia alle passeggiatrici di Via Veneto e alle vagabonde di borgata.
La figura di Cabiria, scritta in modo geniale da Federico Fellini, non ha in sé niente della classica prostituta romana, fatta eccezione della tipica trivialità vernacolare; è più che altro una versione caricaturale dello stereotipo, una sorta di maschera della Commedia dell'arte, mina vagante che occupa lo spazio maldestramente reagendo agli imprevisti in modo plateale.
Ma la Cabiria di Masina è fondamentalmente una donna sola e caduta in disgrazia, che ha scelto un mestiere agli antipodi rispetto al suo aspetto fisico e al suo animo semplice e ingenuo.
Per questo il cuore pulsante del film è proprio la drammaticità del suo destino che si traduce in un senso di disperazione, manifestato nella costante e insistita fiducia nell'altro (e in un futuro differente), che Masina traduce sullo schermo bagnando continuamente di pianto i suoi occhi grandi.
Non a caso, proprio l'ultima sequenza del film in cui l'attrice commossa, tra gioia e sofferenza, passeggia lungo una strada di campagna circondata da musicisti in festa, segnerà per sempre la memoria collettiva.
Dopo due grandi successi, Giulietta Masina sembra quasi rilassarsi nei panni di Fortunella, una ragazza orfana convinta di essere figlia illegittima di un noto principe che abita nel suo quartiere.
Il film di Eduardo De Filippo è in realtà un film felliniano a tutti gli effetti: il soggetto e la sceneggiatura sono infatti firmati dal regista riminese insieme a Flaiano e Pinelli e la colonna sonora è affidata a Nino Rota.
Oltre che da un punto di vista produttivo però, Fortunella riprende anche numerosi motivi del Cinema di Fellini, portando sullo schermo una serie di esibite citazioni, come quella della fontana in riferimento a La dolce vita.
Per costruire Fortunella Giulietta Masina rielabora alcuni aspetti di Cabiria, ma il suo personaggio emerge con una potenza nettamente inferiore, forse proprio a causa della collaborazione De Filippo-Fellini che fin troppe volte appare castrata e inespressa.
Restano la recitazione sospesa, anche quando volgare, e l'alone bambinesco che sembra avvolgerla nei momenti di maggiore intensità, soprattutto quando è chiamata a confrontarsi con alcuni grandi comprimari: primo su tutti Alberto Sordi, calato in un ruolo inedito e cantilenante, in qualche modo anticipatorio rispetto al periodo di sottrazione che caratterizzerà la sua carriera a partire dagli anni '60.
Dunque anche in un film "minore", vale a dire in un film che non riesce a sfruttare appieno le potenzialità di una sceneggiatura apparentemente solida e di attori di grande talento, Giulietta Masina si dimostra in grado di cucirsi addosso un personaggio irriverente, in perenne lotta con il mondo e in difesa della sua diversità.
Destinato a vivere il sogno di una vita nella finzione del teatro, su un palcoscenico di un piccolo e malconcio teatro di provincia.
Nel 1958 Giulietta Masina ha finalmente l'occasione di collaborare con una donna che a lungo aveva osservato e ammirato: Anna Magnani.
Le due attrici si incontrano oltreoceano, impegnate entrambe in occasioni speciali (Magnani ne La rosa tatuata, Masina ritira l'Oscar per La strada) e iniziano a fantasticare sulla possibilità di recitare insieme in un film scritto appositamente per loro da Federico Fellini.
Poi accade che Masina viene chiamata come protagonista per Nella città l'inferno, il nuovo progetto di Renato Castellani sulla vicenda delle recluse di via Mantellate, pretendendo come sua comprimaria proprio Anna Magnani.
Magnani entra nel film "con la voracità di un leone" - come afferma lo stesso regista - e si fa cucire addosso il personaggio di Egle dalla sua amica intima Suso Cecchi d'Amico, Maestra nello scrivere personaggi femminili per l'attrice basati sul suo modo di recitare.
In Egle racchiude tutto ciò che è stata ed è Magnani, ponendo il personaggio su un piano di rilievo e consegnando ai margini del racconto il personaggio di Lina, interpretato da Giulietta Masina.
Anche se originariamente pensato come di primaria importanza, il ruolo di Masina, di per sé tendente all'invisibile, viene letteralmente sbranato dall'interpretazione carnale, dal carattere e dal temperamento di Magnani. Tra le due attrici nascono dissapori, i rapporti si complicano fino alla rottura: ma ciò che avviene è lo scontro tra due generazioni di attrici, tra "le giovani e le vecchie" come affermano i giornali dell'epoca.
L'eredità di questo incontro, oltre al meraviglioso film di Castellani, sono un paio di fotografie di Masina e Magnani sul set scattate appositamente per calmare gli animi della stampa.
Resta però a uno sguardo attento un dato interessante che emerge dal confronto di queste due grandi, e forse non così diverse, attrici di un Cinema ormai alla soglia degli anni '60: se è vero che Magnani giganteggia sulla scena, così come in ciascuno dei ruoli che fino a quel momento aveva interpretato, è altrettanto vero che Masina crea per il film di Castellani un'altra delle sue creature disarmate e disgraziatamente candide, una (quasi) moglie infelice e tradita, catapultata in mezzo a un gruppo di rustiche prostitute.
L'atteggiamento di Lina, remissivo e devoto insieme, è dunque funzionale anche alla definizione di Egle, persino a quella sua capacità di dominare a livello narrativo sulle altre.
Le due attrici sono state outsider per motivi differenti e il film di Castellani conferma la distanza netta di Giulietta Masina nei confronti delle colleghe "maggiorate".
Anna Magnani, spesso critica nei confronti delle nuove leve femminili del Cinema italiano, si complimenterà anni dopo con Masina per la sua interpretazione sospesa e distaccata in Giulietta degli spiriti.
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Posizione 2
Giulietta degli spiriti
di Federico Fellini, 1965
Nel suo primo film a colori Federico Fellini si libera definitivamente di ogni autoimposizione, si abbandona agli istinti più profondi e sceglie di non porre più alcun freno alle direzioni possibili della sua immaginazione.
Spinge verso una maggiore esaltazione del barocco, si concentra sulle linee, sui colori sgargianti e sullo sfarzo dei costumi per cercare di indagare un universo femminile schiacciato da una memoria scomposta e sfaccettata, tra i ricordi di un'iconografia religiosa e le tentazioni di una liberazione del corpo totale, di una trasgressione sessuale senza limiti e morale.
In questa sovrabbondanza delirante, nel contesto di un film più cerebrale dove l'estro di Fellini emerge senza ostacoli spingendosi fino alle più nauseanti soluzioni, si staglia in modo inedito il personaggio di Giulietta che significativamente prende il nome di Masina, a partire dalla scelta di Fellini di seguire quella linea egoriferita che aveva caratterizzato i suoi due precedenti capolavori: La dolce vita e 8½.
Diventa ancora più significativo questo discorso se guardando il film ripercorriamo le vicende private dei due coniugi, soprattutto considerando la presenza di una maliziosa, perversa, ambigua e a tratti meschina Sandra Milo.
Il dato autobiografico suggerisce più che altro che a compiere un processo di liberazione è anzitutto l'attrice protagonista di Giulietta degli spiriti.
Giulietta Masina, che interpreta una donna travolta da visioni e ricordi che tenta di superare il dolore provocato dai tradimenti del marito, propende per una recitazione sobria, tutta interiore e volutamente lontana da quella irriverente di Cabiria.
L'attrice lascia definitivamente andare i suoi personaggi per consegnarsi allo spettatore come donna e moglie criptica, ormai agiata, lontana dai guitti e dai girovaghi circensi.
Il suo è però un nuovo vagabondare, stavolta nelle trame fitte del sogno e della memoria, perché - sembra suggerirci il film - in lei vivrà per sempre quella spensieratezza giocosa, la necessità di esplodere in una risata infantile, leggera e sentimentale.
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Posizione 1
Ginger e Fred
di Federico Fellini, 1985
Nel 1985 Federico Fellini decide di riunire all'interno dello stesso film i suoi due più grandi amori: Marcello Mastroianni, sua proiezione autobiografica nel Cinema, e Giulietta Masina, sua compagna di vita e musa ispiratrice.
Considerato uno dei film minori del regista, Ginger e Fred subisce l'effetto nostalgia, costringendo lo spettatore a guardare con compassione "i tempi che furono" incarnati dalla presenza di due grandi attori invecchiati, stravolti, ridicolizzati, ormai lontani dalle immagini idealizzate del ricordo collettivo.
Masina e Mastroianni interpretano Amelia e Pippo, due ex ballerini di tip-tap, imitatori di Ginger Rogers e Fred Astaire, che in occasione di una puntata di un celebre show televisivo decidono di riproporre al pubblico il numero di danza che quarant'anni prima aveva assicurato loro una certa fama.
Nel contesto di questo ritrovo dolce e amaro, Fellini dipinge profeticamente un mondo della televisione spazzatura, tra mostri viventi e pubblicità aggressive realizzate appositamente per sfamare le menti stanche e sempre più lobotomizzate di spettatori affamati.
I due protagonisti sono scaraventati in questo circo horror (il fascino per i freak, tratto caratteristico della poetica felliniana, si perde nella cagnara, nella superficialità e nella volgarità schizofrenica del piccolo schermo), sono ormai stanchi, vecchi, disorientati e inorriditi dal caos del baraccone mediatico generale.
Sono in particolare la classe e l'eleganza di Amelia/Masina a entrare in contrasto con la cafonaggine del mondo moderno, ben lontana dalla cafonaggine romanesca della periferia abitata da Gelsomina e Cabiria, anche perché più che in Pippo in lei vive il desiderio di stupire per un'ultima volta il pubblico, forse anche per motivazioni di puro compiacimento.
Ritorna perciò in uno degli ultimi personaggi di Giulietta Masina quella strenua speranza nei confronti del successo che aveva caratterizzato i suoi ruoli precedenti.
Ritorna però anche la tenerezza dei suoi sguardi sognanti, rivolti in questo caso al pietoso e commovente Pippo/Mastroianni, tragicamente afflitto da spinte ideologiche spazzate via all'improvviso dal più scontato materialismo, dall'alcolismo e da una sindrome dell'abbandono che - ironia della sorte - è l'unica cosa che sembra non averlo mai abbandonato.