Personalmente quando penso all'autunno mi capita di percepire malinconia per il tempo uggioso, con brevi attimi di spensieratezza.
Forse perché, scavando più a fondo, l’autunno segna sia ciò che finisce ma anche ciò che, in un futuro, può ricominciare nella sua forma migliore.
[Un tipico film autunnale: Coco!]
L’autunno porta con sé il peso dell’estate ormai passata, in favore di una vita quotidiana che nel sentire comune può risultare stretta ma anche stabile.
Nell’immaginario collettivo è forse la stagione del ricordo: le memorie gelosamente custodite tornano a galla, vengono osservate sospirando e nuovamente impresse generando un nuovo accrescimento personale sia umano che spirituale.
L’autunno dà il via, in un certo senso, al bisogno di tornare con i piedi per terra: riprendere la routine e, con essa, tutte quelle scelte temporaneamente messe in stand by con la speranza di superare al meglio il futuro incombente, quello che accompagna i primi giorni d’inverno in vista dell’anno nuovo.
L’atmosfera autunnale, una musica triste ma confortevole, sussurra attraverso finestre di case appena appena riscaldate, in cui si scorgono persone a sorseggiare tè e cioccolate fumanti; all’esterno, intanto, la natura si prepara a distendere foglie e spogliare rami vantandosi nella sua palette di colori caldi e accoglienti - bellissime nuance di gialli, rossi, marroni e arancioni.
[Il western First Cow è una distesa di colori autunnali]
Questa premessa è per dire che l’autunno, nel suo gioco degli opposti, possiede un attitude invidiabile: non a caso è spesso divenuto scenario di paesaggi cinematografici indimenticabili.
Anche registi di un certo rilievo universale sono stati affascinati dalla maestosità di sensazioni che libera l’autunno: Ingmar Bergmannel suo Sinfonia d’autunno si concentra sul racconto di un claustrofobico rapporto familiare attorniato dai classici colori della stagione; Yasujirō Ozu fa altrettanto, attraverso le pellicole Tardo autunno e Il gusto delsakè, affrontando anche il tema dell’amicizia con la sua distinta ironia.
Wes Anderson e Woody Allen, più e più volte nella loro filmografia, hanno fatto divenire l’autunno un vero e proprio mood.
Ovviamente se si parla di autunno non si può di certo astenersi dal nominare Halloween- la festa pop autunnale per eccellenza - e dunque è obbligatorio citare un assoluto cult come Halloween - La notte delle streghe e titoli come The Witch, Nightmare Before Christmas e Brood, che mantengono tutti un filone autunnale a braccetto con l’orrore e il surreale.
In generale, se ci si sofferma è facile associare a questo periodo dell’anno generi come horror e thriller, anche quando i film sono ambientati in stagioni diverse, dimostrando come queste ultime condizionino anche il modo che ha lo spettatore di percepire il Cinema.
[Lo spettrale autunno di Prisoners]
L’elenco delle opere che portano sul grande schermo questo immaginario è vastissimo: ci vorrebbero mesi, giorni, addirittura anni anche solo per citare la metà delle pellicole in cui risalta questa magnifica stagione.
Per questo motivo mi limito a proporvi in ordine cronologico 8 pellicole affascinanti - tra titoli di nicchia e indimenticabili - in cui risalta la decadente bellezza autunnale.
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La pellicola si apre con il ritrovamento del cadavere di un uomo: Harry Worp (Phillip Truex).
Trovare un colpevole è complicato, perché tre diverse persone per tre diversi motivi sono convinte di aver ucciso Harry per errore: il Capitano Wiles (EdmundGwenn) crede di averlo fatto fuori con il fucile durante la caccia; Jennifer Rogers (Shirley MacLaine), la moglie di Harry, crede che sia morto dopo averlo colpito con una bottiglia di latte; l’anziana signora Gravely (Mildred Natwick) crede di averlo ammazzato con un colpo delle sue scarpe per difendersi dopo essere stata aggredita da lui.
Tutte queste convinzioni portano i tre a cercare di disfarsi in qualche modo del corpo di Harry coinvolgendo anche Sam Marlowe (John Forsythe), un artista della piccola cittadina, in modo che non venga trovato dalla polizia: nel mentre cercano di capire cos’è realmente accaduto e chi sia il vero colpevole.
Questa commedia nera di Alfred Hitchcock è pregna di momenti esilaranti e colpi di scena, che lasciano lo spettatore curioso di sapere come andrà a finire in un susseguirsi di situazioni buffe e assurde.
Nonostante si parli di un omicidio, infatti, sulla scena del delitto nessuno sembra realmente prendere sul serio quello che sta accadendo: tutti i personaggi sono impassibili di fronte al cadavere di Harry, che risulta un oggetto più che un uomo (morto).
Nessuno ha pietà di lui, in un modo del tutto ilare.
Addirittura sua moglie Jennifer dice di essersi pentita di averlo sposato, lo guarda con totale indifferenza e dichiara che vorrebbe averci a che fare il meno possibile, mentre Wiles e Gravely sono solo preoccupati della possibilità di essere considerati degli assassini. Persino la disinvoltura con cui Sam Marlowe si lascia coinvolgere dagli eventi senza battere ciglio per aiutare i suoi compagni di sventure lascia di stucco.
Un piccolo gioiello, tratto dal romanzo omonimo di Jack Trevor Story, che grida “autunno” sin dalla prima scena: un bambino - il figlio di Jennifer Rogers - gioca sulle colline in una meravigliosa distesa di alberi dalle tinte gialle, verdastre e rossastre.
Tutto richiama l’autunno, dal vestiario dei protagonisti ai colori utilizzati sino allo scenario finale steso: è chiaro il regista non ha perso l’occasione di omaggiare l’autunno girando la pellicola negli incredibili paesaggi del Vermont proprio a cavallo tra ottobre e novembre.
Daniele Dominici (Alain Delon) è un insegnante trasferitosi a Rimini per motivi lavorativi: nella nuova scuola incontra alunni singolari, tra cui risalta subito l’alunna Vanina Abati (Sonia Petrova) e un gruppo di insegnanti che si dichiarano essere i “vitelloni” del luogo.
Daniele inizia a frequentare i vitelloni e conosce il ragazzo di Vanina, un tipo piuttosto possessivo.
Vanina affronta le persone e lo studio in modo distaccato, come se nulla le importasse, ma Daniele intuisce subito che ci sia qualcosa in più in lei che tiene segreto.
I due sembrano capirsi e si invaghiscono l’uno dell’altra.
Questo loro amore scatenerà una serie di eventi che metteranno a dura prova sia i due innamorati che le loro frequentazioni, tirando fuori vecchi scheletri all’apparenza dimenticati.
Valerio Zurlini porta sullo schermo un dramma complesso, umano, attraverso una storia dalle premesse semplici; i suoi personaggi si muovono mossi da sentimenti negativi - rabbia, frustrazione, disgusto e persino noia - creando delle relazioni tra loro instabili e fragili, sfociando spesso in comportamenti tossici.
In questo marasma di dolore, solo l’amore tra Vanina e Daniele si mantiene candido: un sentimento sincero e umile che supera l’odio altrui, necessario per redimere quei segreti che addolorano la protagonista.
Soffermandoci sul paesaggio che viene presentato, possiamo certamente dire che non dà esattamente la classica idea di autunno.
Girato tra le Marche e la Riviera Romagnola - in luoghi quali Ancona, Rimini, Riccione, Cattolica e tanti altri - il film presenta un’atmosfera cupa e silenziosa che si immerge in una scala di grigi.
Già dalla prima scena si scorge un mare freddissimo, che preannuncia al protagonista una drammatica sorte mentre cammina mestamente indossando l’indimenticabile cappotto color cammello.
Una nebbia fitta divora la città: all’esterno è tutto estremamente buio, un alone immobile che rende quasi impossibile distinguere i luoghi delle riprese.
La prima notte di quiete abbandona così i colori accesi e Valerio Zurlini presenta un autunno che, ormai inoltrato, si avvicina all’inverno.
La pellicola, inizialmente poco apprezzata dalla critica, è riuscita a ritagliarsi il suo spazio nel panorama italiano.
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Posizione 6
Nostalghia
di Andrej Tarkovskij, 1983
Andrej Gorčakov (Oleg Jankovskij) è un poeta sovietico recatosi in Italia per scrivere la biografia di un compositore russo del XVIII secolo: Andrej Sosnovskij.
Accompagnato dall’interprete Eugenia (Domiziana Giordano), sosta a Bagno Vignoni e conosce Domenico (Erland Josephson), considerato da tutti matto avendo, in passato, deciso di rinchiudere la propria famiglia in casa per sette anni.
Andrej, incuriosito dall’uomo, decide di instaurarvi un dialogo e, durante la lunga e singolare conversazione, Domenico gli affida una candela pregandolo di portarla nelle acque della piscina di Bagno Vignoni.
Andrej Tarkovskij con Nostalghia dona una parte di sé molto intima, esponendosi non solo allo spettatore ma in primo luogo a sé e ai suoi affetti, in particolar modo dedicando la pellicola a sua madre.
Nostalghia - letto “nostalgia” come in italiano anche nella versione russa - è un lungo percorso verso la comprensione della spiritualità umana.
Andrej, profondamente malato, si ritrova in un limbo dove l’amore, la passione carnale e altri piaceri non sembrano in alcun modo soddisfarlo o, meglio, interessarlo: lontano dalla felicità e dalla sessualità, si ritrova intrappolato in una rete di ricordi ove figure silenziose si limitano ad osservare.
Il protagonista si muove in uno scenario desolato con passo cauto perdendosi in visioni di un passato malinconico riflesse limpidamente in un presente tormentato.
Forse è proprio questa sua ossessione per la ricerca, per la travagliata indagine dell’Io, che lo spinge a parlare con Domenico, l’unico che sembra sapere qualcosa in più, quasi che conosca il segreto di ciò che oltre il tangibile: ciò che sembra follia è paragonabile, in verità, a atto di fede.
La pellicola, girata tra l’ottobre e il novembre del 1982 in alcuni luoghi toscani, ha intenzioni scenografiche cristalline, che si possono ritrovare nelle seguenti dichiarazioni di Andrej Tarkovskij, precedenti al risultato finale, che rimembrano un paesaggio autunnale a lui caro:
"Il cielo è pieno di nuvole bianche, leggere, simili ai disegni di un fuoco d’artificio. […]
Questa alternanza di luce e di ombra sulla superficie liscia delle colline, che come onde del mare si spingono l’una dopo l’altra fino all’orizzonte, sembra il respiro della vita stessa, il ritmo solenne della natura, pieno del frinire delle cicale e della luce abbagliante del sole nei momenti in cui spunta dalle nuvole.
Questa terra arata di Toscana […], bella quasi come sono i miei boschi, le mie colline […], lontani, russi, antichi, irraggiungibili ed eterni".
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Posizione 5
Crocevia della morte
di Joel ed Ethan Coen, 1990
Siamo negli Stati Uniti di fine anni ’20 e Leo O'Bannon (Albert Finney), boss criminale irlandese, si scontra con Johnny Caspar (Jon Polito) a causa di un allibratore ebreo protetto da Leo stesso, un certo Bernie Bernbaum (John Turturro), che continua a trattenere e perdere soldi che non gli spettano da scommesse sportive illecite.
O'Bannon, in quanto capo indiscusso, vuole che Caspar impari a rispettare i suoi voleri, sottintendendo che lo schmatte Bernie sia intoccabile a causa di un segreto: Verna (Marcia Gay Harden), la sorella di quest’ultimo, è l’amante del boss irlandese.
Le tensioni tra i due aumentano e tocca a Tom Reagan (Gabriel Byrne), tirapiedi di O'Bannon, trovare un accordo efficace tra le parti.
Gli eventi, però, non vanno come previsto e Raegan si trova invischiato in situazioni che lo porteranno a fare il doppio gioco e creare sotterfugi per salvarsi la pelle.
Basandosi sui romanzi Piombo e sangue e La chiave di vetro di Dashiell Hammett, i fratelli Coen mettono in scena un film la cui matrice letteraria si percepisce forte e chiara non tradendo, però, i loro segni distintivi.
Crocevia della morte è una gangster story in cui l’etica è messa in discussione: cos’è realmente il tradimento?
E quali sono i limiti del codice?
Inquadrare il personaggio di Reagan è complesso: innamorato di Verna e confidente di Leo, continua a scegliere strade lontane dalle sue passioni e dai suoi interessi, allontanando i suoi unici affetti e preferendo una vita misteriosa, in cui le prospettive sono effimere e tutto può costantemente cambiare.
L’unica certezza è un indumento, il suo cappello, citato più volte durante la pellicola sia visivamente che attraverso i dialoghi (spesso in modo canzonatorio).
Nella scena di apertura, in particolar modo, c’è un cappello che vola via e si disperde nello spettacolare foliage di una foresta, la stessa dove si trova l’incrocio Miller, che dà il titolo al film originale Miller’s Crossing.
Il film avrebbe dovuto chiamarsi The Bighead, il soprannome che in sceneggiatura i Fratelli Coen avevano dato al protagonista.
Per quanto concerne la fotografia, Barry Sonnenfeld dichiarò di volere realizzare le scene utilizzando il teleobiettivo a discapito del grandangolo, per dare giustizia alla scenografia di Dennis Gassner, di ampio respiro autunnale sia negli esterni (basti pensare all’enorme distesa di di querce) sia negli interni (lignei, terrosi) riprendendo i tipici colori della stagione.
Disponibile a noleggio su Amazon Store
Posizione 4
Dolls
di Takeshi Kitano, 2002
Matsumoto (Hidetoshi Nishijima) decide di sposarsi con una donna per puro interesse economico: quando la cerimonia sta per essere celebrata Sawako (Miho Kanno), la vera donna di cui è innamorato, tenta il suicidio non riuscendo, però, nell’intento.
Appena saputa la notizia Matsumoto corre da lei, trovando di fronte a sé una persona che ha perso la ragione: Sawako, con lo sguardo assente, comunica ormai solo attraverso piccoli grugniti. I due cominciano a vagare in luoghi giapponesi legati l’un l’altra da una grossa corda.
Parallelamente alla storia dei due amanti vi sono la storia di un vecchio Yakuza (Tatsuya Mihashi), un uomo che in passato ha abbandonato l’amore della sua vita Ryoko (Chieko Matsubara) per regalare un futuro migliore a entrambi e quella dell’idol Haruna Yamaguchi (Kyōko Fukada) che, a un passo dal successo, viene sfigurata in volto e si nasconde dalla società fin quando non incontra un fan (Tsutomu Takeshige) che, nonostante la tragedia, continua a idolatrarla.
Le tre vicende presentate sono narrativamente diverse tra loro, ma convergono in una comune sintesi nella quale risaltano gli amori nostalgici e silenti, lontani dalla passione e destinati a non avere un lieto fine.
Tutti i personaggi si muovono in città all’apparenza infinite, dove né il dialogo né il contatto fisico sembrano sussistere: l’unica necessità è quella di continuare il cammino, vagando senza meta.
Takeshi Kitano mostra, dunque, l’essenzialità di amanti nevralgici e dipendenti, bisognosi di cure e affamati dalla loro presenza/assenza, in uno stato perturbante che indiscutibilmente li porterà all’annullamento.
La violenza - immancabile tema del regista - fa parte della vita degli amanti e si nasconde proprio in disturbanti silenzi che rendono impossibile il comunicare sia fisico che spirituale.
La nostalgia di un passato felice distrugge brutalmente un presente al quale non si può sfuggire: la consapevolezza arriva già nella scena d’apertura, citando l’opera teatrale tragica Meiedo no hikyaku di Chikamatsu Monzaemon.
Dolls, a differenza di altri film scelti per questa Top 8, affronta un lunghissimo cammino che comprende l’attraversamento di tutte e quattro le stagioni, puntando però le luci sull’autunno: la stagione nostalgica per eccellenza.
È vero dunque che l’autunno occupa un breve lasso di tempo nel film, ma resta indiscutibilmente memorabile: basti pensare anche solo alla scelta della locandina, tratta dalla scena in cui i protagonisti vagano - legati dal “filo rosso del destino” della mitologia giapponese - in una distesa rossa di alti aceri e foglie secche, fermandosi poi improvvisamente a fissare vacuamente punti indefiniti davanti a sé.
Nella stramba cittadina di Blithe Hollow vive Norman Babcock (Kodi Smit-McPhee), un ragazzino appassionato di horror, considerato “sfigato” da tutti i suoi conoscenti e ignorato dalla famiglia, in particolare dal padre convinto che il figlio sia totalmente matto.
Questo perché Norman ha una caratteristica che lo rende unico, un “potere” per così dire: ha la capacità di vedere gli spiriti delle persone defunte.
Solo il suo migliore amico Neil, anch’esso emarginato, gli resta accanto.
Un giorno i due si imbattono in Prenderghast, lo zio di Norman, che delirante ricorda ai due che la maledizione lanciata da una strega sulla cittadina sta per compiersi.
Inizialmente Norman ignora lo zio, che gode della fama di pazzo della città, ma pian piano comincia a notare eventi che si fanno sempre più sospetti, fino a rendersi conto dell’arrivo di… un’apocalisse zombie!
Toccherà dunque a Norman e Neal, con l’aiuto di altri strambi personaggi, salvare la città dalla temibile strega.
Laika Entertainment è nota per raccontare le storie che vedono protagonisti personaggi bizzarri.
Nei loro film, infatti, sono presenti elementi misteriosi e buffi che si sposano egregiamente con la stranezza e la flessibilità della tecnica animata della stop-motion, la cui messa in scena è resa possibile grazie a un incredibile gruppo abilmente addestrato.
Il tempo dedicato dal team per ricreare ogni cosa (oggetto, personaggio, sfondo…) presente nel montato finale è incredibile: parliamo di ore e ore di lavorazione sulle singole marionette (tre o quattro mesi circa ciascuna per completarle!) e sulla scenografia (Blithe Hollow è ispirata a varie zone del Massachusetts), senza contare poi il montaggio, di cui si conta il millisecondo, strutturato in modo che l’animazione risulti più fluida e coerente possibile.
Queste premesse sono necessarie per capire come la cura dell’opera si rifletta nella totalità - persino nell’attenzione alla creazione di vestiario tipicamente autunnale - e sembra brillare di luce propria in riferimento ai paesaggi, in cui minuziosamente si costruisce un’idea perfetta della stagione di riferimento, includendo tantissimi rimandi alla cultura dell’orrore, compreso un assaggio del clima di Halloween che si trova nella realtà in grandi città americane e canadesi.
Come se non bastasse, la pellicola risulta un connubio eccellente tra comicità e spavento, con momenti sia paurosi che eccentrici, di cui avevamo ricevuto un assaggio già con Coraline e la porta magica.
ParaNorman è uno zombie movie solidissimo, che prende spunto dai classici del Cinema (e della letteratura) horror omaggiandoli senza però risultare pedante, ricordandosi di aggiungere un po’ di freschezza al genere.
Disponibile a noleggio su AppleTV
Posizione 2
Petite Maman
di Céline Sciamma, 2021
Nelly (Joséphine Sanz) viene portata dai genitori nella casa in cui abitava da bambina sua madre Marion (Nina Meurisse): la nonna è recentemente morta e urge sistemare la casa per metterla sul mercato.
Marion racconta a Nelly di una capanna del bosco che le piaceva quando era piccola; successivamente parte per risolvere alcuni affari e lascia Nelly alle cure paterne.
La capanna della storia di Marion esiste davvero ed è lì che Nelly incontra una bambina: il suo nome è Marion (Gabrielle Sanz)
Se si potesse descrivere con una parola Petite Maman sarebbe questa: essenziale.
Essenziale perché racconta in poco tempo tanto, tantissimo sul sé, sulla perdita, su quella parte del proprio Io che si dimentica nel momento in cui si cresce.
Nelly non riesce a dare l’addio alla nonna prima della sua morte: ciò scatena delle reazioni che, dapprima, si manifestano in serie di eventi confusi (sembrano appartenerle, ma allo stesso tempo appartengono a qualcun altro), che assumono un ruolo catartico nel rapporto con la madre e, su un piano più ampio, nel rapporto con il prossimo.
Tra dialoghi lenti e silenzi prolungati si dilata il tempo, elemento che infesta la pellicola e che ne connette indiscriminatamente gli eventi senza scindere tra passato e presente, artificiale o naturale che sia, creando uno spazio sospeso.
Il film di Céline Sciamma parla anche di luoghi/non (più) luoghi, di legami indissolubili in cui vagano spettri e promesse, dove l’unica cosa che sopravvive è nell’intesa di queste anime e nel ricordo malinconico di ciò che è stato, che si è evoluto, che è mutato.
Qualcosa, però, resta simbolicamente immutata: è la capanna, fatta di rami efoglie secche, una distesa immensa di colori intensi che resta come se l’ammissione della sua esistenza rappresentasse il punto di incontro tra generazioni.
Nelle scene i colori caldi avvolgono tutto, giochi di luce attraversano sia ambienti esterni che interni, facendosi portavoce di questa toccante vicenda che sopravvive fiabesca nell’eleganza del fitto bosco autunnale.
Petite Maman è un racconto delicato e intimo, porta avanti un dialogo realistico e adulto - seppure le protagoniste siano solo delle bambine - sulla complessità del lutto e della sua conseguente elaborazione, nel suo valorizzare chi resta accanto a chi si ama, chi non abbandona nemmeno nei silenzi.
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Posizione 1
Coup de Chance
di Woody Allen, 2023
Due vecchi compagni di scuola, Fanny (Lou de Laâge) e Alain (Niels Schneider), si incrociano per caso in una via parigina.
Alain è lì per terminare il suo ultimo libro mentre Fanny lavora e vive a Parigi stabilmente con Jean (Melvil Poupaud): dal loro incontro scatta qualcosa e i due non riescono a smettere di vedersi, completamente persi l’uno dell’altra.
Questo amore scatenerà un evento inspiegabile e sospetto, che porterà Aline (Valérie Lemercier), la madre di Fanny, a indagare su una verità scottante.
Woody Allen porta al cinema una tragicommedia, com’è suo solito fare, bilanciando perfettamente momenti drammatici e momenti tutti da ridere, senza lasciare il minimo dettaglio al caso e trascinando lo spettatore in una storia di inaspettati amore e violenza.
Fanny - con la fantastica interpretazione di Lou de Laâge - si ritrova causa e vittima di eventi che non può controllare: tutti i personaggi, in un modo o nell’altro, si muovono attorno a lei, creando una reazione a catena che porterà a delle risoluzioni nefaste.
Sebbene lei sembri possedere tutto, galleggia in un mondo d'apparenze dove l’arrivo di Alain e il suo fare bohémien saranno una rivoluzione, portandola a fare i conti con sé stessa e con quel mondo caro a Jean che, sofisticato e altezzoso, non è davvero nelle sue corde.
La fortuna e il caso hanno un ruolo centrale nella pellicola (come preannuncia il titolo del film, che tradotto letteralmente significa "colpo di fortuna"), in cui Alain crede ciecamente, ed è proprio grazie a questi che Fanny si libererà di una gabbia in cui è stata rinchiusa troppo a lungo, smettendo di sentirsi in colpa.
Parigi, inoltre, sembra lo sfondo perfetto di un film ricco di dialoghi dove Allen non ha paura di dirigere attori francesi pur non conoscendo la lingua, creando una pellicola che ricorda un po’ i grandi classici francesi ricchi di romanticismo, non senza il suo solito tocco giocoso.
L’atmosfera della città è incantevole, fotografata magistralmente dal Maestro Vittorio Storaro, che si diverte a immortalare la capitale francese attraverso giochi di luci, colori e prospettive diversi - a volte in modo “sporco” e inaspettato - rendendo giustizia ad ogni infimo angolo.
Non ho mai visto Toy Story da bambina: mia madre non voleva che lo vedessi. Perché? Non lo so con precisione ma credo fosse spaventata da quelle strane immagini, forse troppo lontane dalla sua realtà. L'ho visto da adolescente e me ne sono innamorata. Ho capito che avrei scelto da sola cosa guardare e quali limiti darmi. Limiti che, poi, non mi sono mai data, né col cinema né con qualsiasi altra forma d'arte, perché frenarsi voleva dire perdersi tante cose, troppe cose. Amo pensare che Toy Story mi abbia spinto ad amare l'animazione, anche se non è vero e ne sono stata sempre attratta, ma è un simbolo per me e tanto basta.
E fingiamo che qui abbia scritto una bellissima e interessantissima lista di cose che adoro e una di cose che detesto. Fingiamo che abbia descritto chi sono, cosa faccio e perché come una vera professionista. Fingiamo anche che abbia scritto informazioni utili che non abbiano correlazioni con la cioccolata fondente. Scusate la pigrizia, come modelli di vita ho scelto i miei gatti.
Terry Miller
11 mesi fa
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