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8 film neorealisti da avere nel curriculum da cinefilo

Nel 1943 infuriava la Seconda Guerra Mondiale e nelle sale cinematografiche italiane arrivò Ossessione, opera prima del grande Luchino Visconti: il film fu il principale precursore della più fortunata stagione del Cinema italiano, quella del Neorealismo

Critici e studiosi hanno provato per decenni a stabilire i limiti cronologici e le caratteristiche precipue della corrente del Neorealismo italiano. 

 

Come suggerisce l’Enciclopedia del Cinema di Garzanti alcuni rifiutano anche la definizione di “corrente”, perché il Neorealismo non affonda le sue radici in un manifesto programmatico.    

Come si arrivò al Neorealismo?

 

Volendo tracciare un sintetico quadro del Cinema italiano d’epoca fascista, è possibile affermare che registi come Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica si posero in rotta di collisione coi filoni cinematografici che all’epoca avevano maggior successo, ma che non descrivevano l’Italia e la sua popolazione con piglio realista.    

 

 

[Luchino Visconti in compagnia di Clara Calamai e Massimo Girotti, coppia protagonista di Ossessione]

 

Il pubblico italiano era infatti assuefatto alle pellicole storiche che direttamente o meno celebravano il regime fascista, al Cinema dei “telefoni bianchi” che proponeva quadri di vita borghese senza particolari drammi e ai melodrammi calligrafici, di natura letteraria ed esteticamente impeccabili.

 

Agli inizi degli anni ‘40 tuttavia una nuova schiera di critici (alcuni dei quali sarebbero poi passati dietro la macchina da presa) iniziarono a immaginare una nuova visione del mondo, meno eroica o idilliaca e più aderente alla realtà storica e sociale. 

Uno dei primi film che simbolizzò l’inversione di tendenza fu Ossessione di Visconti, che racconta di un amore fedifrago e di un omicidio in un mondo desolato, seguito poi da I bambini ci guardano, opera diretta da Vittorio De Sica e sceneggiata da Cesare Zavattini, i quali costruiscono il racconto a partire dal punto di vista del bambino protagonista, che assiste impotente al disfacimento della suo famiglia.    

 

Il 1945 fu invece l’anno di Roma città aperta, pietra miliare del Neorealismo realizzata da Roberto Rossellini: il film, girato fra mille difficoltà, apre uno squarcio sulla resistenza impegnata nella lotta contro i nazifascisti, toccando altissime vette tragiche.

 

Indimenticabile la scena in cui Anna Magnani viene uccisa mentre insegue un camion che sta portando via il suo compagno.  

 

 

[La morte di Pina in Roma città aperta, scena neorealista per eccellenza]

 

 

Basterebbero questi soli tre film per dimostrare come il Neorealismo sia “un Cinema di fatti”, per attenersi alla definizione che ne diede il critico francese André Bazin, o comunque “uno sguardo nuovo sulle cose”, come ebbe a dire lo stesso lo stesso Visconti. 

 

Naturalmente il Cinema neorealista italiano non fu soltanto affare dei registi precedentemente citati: molti autori si cimentarono nel racconto crudo e senza troppi orpelli dell’Italia del Dopoguerra, spesso con background e personalità molto diverse fra loro; questa eterogeneità è un altro dei motivi per cui il Neorealismo non può definirsi una corrente cinematografica compatta.

Le opere neorealiste presentano certamente delle affinità: trattano generalmente temi come la guerra, la povertà e la disoccupazione concentrandosi generalmente sulla vita quotidiana delle classi meno agiate.    

 

La tecnica cinematografica, per fare di necessità virtù, è lontana dai canoni hollywoodiani, con lunghe riprese in esterni (contribuendo così alla messa in disparte del découpage classico in favore del piano sequenza) o in interni talvolta opprimenti e con l’utilizzo di attori spesso non professionisti, come in alcuni dei film neorealisti più celebri di De Sica, fra cui spicca Ladri di biciclette.

 

 

[Enzo Staiola e Lamberto Maggiorani, attori esordienti in Ladri di biclette]

 

Dato che gli autori neorealisti godevano di forte personalità e di un diverso bagaglio culturale, politico e stilistico, le loro pellicole presentavano ovviamente anche delle differenze.

 

Autori come Alberto Lattuada o Giuseppe De Santis furono bravi nel mescolare gli stilemi del Cinema di genere hollywoodiano con i princìpi neorealisti. 

L’importante era catturare sempre la realtà senza pregiudizi per come si presenta, senza alterarla con con interventi scenografici falsificanti, cercando di proporre messaggi di solidarietà umana.

 

Nei primi anni ‘50 la corrente neorealista andava esaurendosi, oppure diede spazio a variazioni sul tema: si iniziò a parlare di Neorealismo rosa per alcune pellicole che presentavano toni più leggeri, da commedia, con protagonisti giovani ragazzi e ragazze di belle speranze spesso in cerca di partner, come in Poveri ma belli di Dino Risi, arrivato in sala nel 1956. 

 

 

[Raf Vallone e Lucia Bosè in Non c'è pace tra gli ulivi, pellicola in bilico fra neorealismo italiano e western hollywoodiano]

 

 

Non è semplice fissare un termine cronologico al Neorealismo: quel che è certo è che diede lustro al Cinema italiano in campo internazionale e influenzò tantissimi cineasti venuti successivamente, si pensi a Pier Paolo Pasolini e ai registi della Nouvelle Vague francese.

 

Grazie agli Amici di CineFacts.it che hanno scelto questo tema per la Top 8 mensile, la redazione ha provato a individuare alcuni dei film neorealisti da avere assolutamente nel proprio curriculum cinefilo: buona lettura! 

 

[Introduzione a cura di Marco Batelli]

 

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Posizione 8

Il bandito

Alberto Lattuada, 1946

 

Il bandito fu presentato in concorso alla prima edizione del Festival di Cannes nel 1946 e segnò il passaggio del regista Alberto Lattuada dalla fase calligrafica - con produzioni esteticamente raffinate, ma lontane dall’impegno civile - a quella neorealista.

 

Il film ha come protagonista Ernesto, reduce di guerra che rientra a Torino dopo la prigionia in Germania: l’incontro con la sorella, diventata prostituta per necessità, innescherà per lui drammatiche conseguenze, costringendolo a entrare nel giro della malavita dopo aver ucciso il protettore di lei.

 

Lattuada fonde gli stilemi del nascente Neorealismo con quelli del gangster movie e del noir hollywoodiano; con piglio documentaristico il regista mostra nell’incipit le macerie fisiche e morali del popolo italiano, profondamente colpito dalla Seconda Guerra Mondiale, con personaggi che sembrano vagare senza meta né scopo, per poi raccontare una storia dai toni criminali e melodrammatici.

 

In questo clima cupo il protagonista dovrà necessariamente imboccare la cattiva strada sulla quale incontrerà Lidia, donna senza scrupoli a capo di una gang criminale: la scia di sangue lasciata dalle azioni della coppia sarà lunga, tuttavia non mancheranno momenti di umanità, riservati in particolare da Ernesto a Rosetta, figlia di un suo commilitone.

 

A interpretare Ernesto e Lidia sono rispettivamente Amedeo Nazzari e Anna Magnani, in ruoli lontani dai loro standard abituali.

 

Solo un anno prima Magnani aveva infatti recitato in Roma città aperta di Roberto Rossellini, dove vestiva i panni di Pina, vedova legata a un esponente di spicco della Resistenza, mentre qui si fa notare per il suo cinismo; anche Nazzari abbandona l’immagine dell’uomo retto per abbracciare quella del gangster, al quale però la vita riserverà l’occasione per un parziale riscatto prima dell’ora estrema.

 

Nazzari non era la prima scelta di Lattuada per il ruolo di Ernesto, ma fu convinto dal produttore Dino De Laurentiis che chiese letteralmente alla popolazione nelle strade di Torino se fosse più famoso Nazzari o Andrea Checchi, al quale Lattuada stava pensando di affidare la parte del protagonista.

 

Il bandito fu accolto freddamente dal mondo politico per l’immagine cruda che dava del Dopoguerra italiano; ottenne invece un ottimo successo presso il pubblico, facendo registrare uno degli incassi più alti di quella stagione cinematografica.

 

Disponibile su Rai Play

 

[a cura di Marco Batelli]

 

Posizione 7

Il sole sorge ancora

Aldo Vergano, 1946

 

Tra i film neorealisti considerati minori, spesso dimenticati o passati in sordina, assume un ruolo indubbiamente interessante Il sole sorge ancora, riuscendo a distaccarsi dal resto dell’ambiente soprattutto prendendone in analisi le intenzioni. 

 

La pellicola introduce il giovane Cesare (Vittorio Duse) che, abbandonato il proprio servizio militare dopo l’8 settembre 1943, torna a casa in un paese ormai sfollato, senza particolari ambizioni e sogni.

Cesare si imbatte nella contessa Matilde (Elli Parvo) una ricca borghese di cui diviene l’amante; allo stesso tempo, s’invaghisce di Laura (Lea Padovani), un’operaia antifascista.

Combattuto sul piano sentimentale, decide di unirsi alla lotta partigiana. 

 

Intanto i tedeschi arrivano nella notte del Capodanno del 1943 capitanati dall’ufficiale Heinrich, cogliendo di sorpresa i partigiani e catturando Cesare e Don Camillo, il parroco del paese. I partigiani riescono a salvare Cesare, ma un altro uomo viene catturato e ucciso con Don Camillo.

Tra il terrore e lo sgomento generale, i partigiani riescono infine a rientrare in paese e liberarlo. 

 

Il film, girato tra il 1945 e il 1946, fu finanziato dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia con una precisa dichiarazione d’intenti, esplicitando il bisogno di parlare della Resistenza in modo più chiaro possibile senza cadere nel banale o mostrare prospettive già affrontate.

 

La lotta di classe non è semplicemente una lotta d’armi (fisica), ma una lotta sentimentale (psicologica), che trova i suoi valori nel luogo in cui le scelte personali si riflettono conseguenzialmente nelle scelte collettive. 

 

Questa idea di parlare della Resistenza senza voler ripetersi o risultare pedante la confermò Aldo Vergano stesso in un’intervista successiva al film: “[…] Io, invece, ero per un soggetto che impostasse e svolgesse il tema, meno abusato ma più interessante, anche se più difficile delle ragioni morali, politiche e sociali che stavano alla base del movimento partigiano.

Pensavo io: non c'è nessuno, in Italia o all’estero, che dubiti del valore dei nostri partigiani le cui gesta eroiche sono più o meno note; pochi sanno, invece, per quali ragioni questi "uomini d'avventura" hanno combattuto da una parte anziché dall’altra. […]”.

 

Seppure nella totalità Il sole sorge ancora possa risultare poco compatto, al punto da ricevere non poche critiche e subendo anche censura, fu uno dei pochi film del tempo che si prese la briga di rappresentare esplicitamente quel periodo storico in un’ottica marxista, anche attraverso un didascalismo che, in questo senso, risulta necessario.  

 

Disponibile su YouTube

 

[a cura di Eris Celentano]

 

Posizione 6

Germania anno zero

Roberto Rossellini, 1948

 

Tra le macerie della guerra, Roberto Rossellini ha colto un fiore dall’incredibile bellezza: la possibilità di donare splendore artistico alle esistenze degli ultimi, così profondamente feriti, eppure ancora così umani.

 

Dopo aver sconvolto il mondo con Roma città aperta e aver mostrato un affresco corale dell’Italia che resisteva in Paisà, Rossellini scelse di concludere la propria trilogia apocrifa della guerra con uno sguardo lirico sui vinti con Germania anno zero.

 

Il film racconta la storia di Edmund, un bambino nella Berlino del 1946, la cui famiglia versa nella miseria.

Suo padre è immobilizzato a letto, sua madre è morta, suo fratello è barricato in casa dopo aver combattuto nella Wehrmacht e sua sorella è costretta ad accudire il genitore, resistendo all’idea di prostituirsi pur di sostenere la famiglia.

 

La vita del bimbo prosegue tra vari furti ed espedienti e viene ulteriormente sconvolta quando si imbatte nel suo vecchio maestro, il signor Enning, un vecchio nazista che continua a instillare nel bambino le tremende idee del Reich.

 

Germania anno zero parla, di fatto, del male sommerso di una nazione in cui, dopo la sconfitta, si sono mescolati criminali di guerra, sostenitori del regime e quella povera gente che si è ritrovata vessata prima dalla dittatura nazista e poi dalle condizioni opprimenti del Dopoguerra.

 

Lo sguardo di Rossellini segue con grazia la parabola del piccolo Edmond, che si ritrova a perdere gradualmente l’innocenza sotto il peso del terribile scenario su cui si affaccia la sua infanzia: in soli 75 minuti il Maestro romano mette in scena una storia dal valore universale, alternando la tenerezza destinata al giovane protagonista con il crudo rigetto per le influenze maligne che cercano di corromperne l’animo.

 

Sfruttando gli stilemi tipici della corrente e dirigendo fermamente un cast di attori non professionisti, l’autore costruì uno dei contesti più impervi e sconvolgenti dell’intero Neorealismo, nel quale è possibile scorgere il contrasto tra la luce di un difficoltoso progresso e la coltre d’orrore che aveva portato al conflitto mondiale. 

 

L’opera, come si vede dai titoli di testa, è dedicata a Romano Rossellini, figlio del regista prematuramente scomparso nel 1946.

 

Un grido di dolore così poetico da unire tutte le popolazioni ferite dalla guerra.

 

Disponibile su MUBI 

 

[a cura di Jacopo Gramegna

 

Posizione 5

Anni difficili

Luigi Zampa, 1948

 

Luigi Zampa è un regista da riscoprire.

 

Come molti altri suoi colleghi registi neorealisti Zampa ha raccontato con lucidità la decadenza dell’Italia fascista e, successivamente, del boom economico.

Idealmente tutta la sua filmografia si può racchiudere in due opere: Anni difficili (l’Italia flagellata dal fascismo) e Anni facili (l’Italia cerchiobottista democristiana): un dittico che è un manifesto.

 

Anni difficili racconta la storia di Aldo Piscitello, un impiegato municipale costretto a iscriversi al Partito Nazionale Fascista pena la paerdita del posto di lavoro, sebbene i suoi ideali non convergono certo con quelli del regime dittatoriale.

Una storia comune, che mostra l’ipocrisia di un popolo abituato a nascondere sotto il tappeto i propri crimini. Finita la guerra, le stesse persone che avevano costretto Piscitello a iscriversi al Partito lo condannano per fascismo.

 

Un concetto che anni dopo Bernardo Bertolucci avrebbe rispolverato nel suo capolavoro Il conformista.

 

Discostandosi cinematograficamente dalla corporeità delle immagini del Neorealismo di Rossellini, cercando una classicità drammatica nella sceneggiatura scritta partendo da un soggetto di Vitaliano Brancati, Luigi Zampa scava e trova una morale che pare anticipare per certi versi i toni della Commedia all’italiana.

 

Fondamentale da questo punto di vista la barzelletta su Mussolini: “Giovanotto, vedete voi quella finestra? Buttatevi” disse Mussolini.

Il giovanotto spicca il salto per buttarsi, ma l’ambasciatore lo afferra al volo. “Ehi giovanotto! Sapete cosa vi succede buttandovi dalla finestra!? Voi perdete la vita!”

Il giovanotto si mette a ridere: “La vita? E che è vita questa?”.

 

All’epoca dell'uscita il film non fu accolto bene, accusato di denigrare il popolo italiano e di dipingerlo come codardo.

Certamente sono stati Anni difficili, ma gli italiani ci hanno messo del loro per renderli tali. 

 

Almeno secondo quanto suggerito da Luigi Zampa, anche se la Storia sembra dargli ragione.

 

Disponibile su MUBI 

 

[a cura di Emanuele Antolini]

 

Posizione 4

La terra trema

Luchino Visconti, 1948

 

Nato dalle ceneri del verismo verghiano, La terra trema rappresenta uno dei più compiuti tentativi di trasporre nella carne, su celluloide, quel vento marxiano-marxista che informa complessamente l'insieme eterogeneo (in definitiva, incompatibile: si recuperino le parole di Adriano Aprà relative a Roberto Rossellini) definito Neorealismo.

 

Senza pedinamenti come nell'opera di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, né rotture nette dello schema senso-motorio a differenza di Germania anno zero, il programma di Luchino Visconti prima della querelle Senso avvicina il realismo tenendo ben presenti le radici tardo ottocentesche/primo novecentesche del concetto.  

 

La questione ideologica, che non può che coincidere con quella estetica, investe innanzitutto il rapporto individuo/società e reca necessariamente con sé il nodo della filosofia della storia.

 

Ispirato a I Malavoglia, La terra trema racconta la vicenda corale della famiglia Valastro e mette in primissimo piano il discorso di classe, andando a toccare il nervo della pretesa teleologia - tema assai spinoso, che qui rimarrà confinato all'interpretazione più comune - del corso storico descritto da Karl Marx. 

 

Lungi dall'essere un ambiguo vezzo estetizzante, la scintillante fotografia rivela la forza politica (estetica) dei corpi dei Valastro, incastonati nella loro Aci Trezza.

 

Dai corpi che lavorano prende forma un percorso collettivo che riguarda in prima battuta la stessa possibilità di collettività e che si tinge presto di sfumature politiche parecchio stimolanti.

 

Le letture della (eventuale) hybris di 'Ntoni e il bilancio delle sorti della famiglia, storia che convoca la Storia, sono il campo da gioco in cui si definisce l'ampiezza sorprendente del discorso di La terra trema, tutto fuorché adattamento servile del capolavoro verghiano. 

 

La legittimità della stessa idea di Neorealismo passa necessariamente per un esame di tipo ideologico, che certo non dà speranze ad alcuna ortodossia.

 

Nel confronto con il passato, con la storia dei concetti, Visconti aggiunge il proprio "Neo-" lavorando su codici formali in apparenza meno dirompenti, riuscendo a stratificarne la significatività.

 

 

Disponibile su Prime Video e Film Box +

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 3

Riso amaro

Giuseppe De Santis, 1949

 

Reduce dal successo di Caccia tragica, per la realizzazione del suo nuovo film Giuseppe De Santis si lasciò ispirare dall’incontro fortuito alla stazione di Milano di un gruppo di donne intente a riempire d’acqua le proprie borracce per sistemarsi su treni diretti alle risaie piemontesi e lombarde.

Dalla sceneggiatura - firmata da illustri nomi tra cui Corrado Alvaro e Carlo Lizzani - alla trasposizione cinematografica molte cose cambiarono, nonostante l’impegno del regista stesso nella stesura di un progetto quanto più solido. 

Al centro delle vicende di Riso amaro il furto di una collana preziosa che spinge la ladra Francesca (Doris Dowling), istigata dall’amante Walter (Vittorio Gassman), a sfuggire dalla polizia unendosi a un gruppo di mondine. Qui l’incontro con Silvana (Silvana Mangano) e la progettazione di un piano ambizioso in grado di ribaltare tragicamente le sorti dei personaggi.

Riso amaro è anzitutto un film sulla ghettizzazione lavorativa della donna, da secoli riconosciuta inferiore in quanto a capacità lavorative, eppure inserita costantemente in attività faticose e di scarso prestigio economico e sociale.

Tra stornelli e lotte nel fango, il regista descrive un mondo contadino dominato dal calore umano e dalla violenza, un territorio di contrasti fisici ed emotivi, un luogo che è per la donna occasione di allontanamento dal nucleo familiare, motivo di grande socialità e strumento esclusivo di apparente indipendenza economica.

De Santis registra dunque un cambiamento antropologico della donna, non più angelo focolare ma individuo in cerca di emancipazione, all’interno di una cultura ancora dominata dal folklore, dal senso del pudore e della rispettabilità.

 

Paladina di questa rivoluzione è Silvana, una donna sensuale e anticonformista che rigetta il mito della fecondità e del lavoro casalingo femminile, per abbandonarsi ai sogni e alle speranze di un futuro di piacere, successo e denaro; Silvana è la risposta all’esperienza dell’autoritarismo fascista e, allo stesso tempo, contornandosi di oggetti legati al mondo consumistico, è il simbolo di un americanismo in rapida diffusione. In questo modo De Santis getta le fondamenta di una riflessione sul rapporto tra tradizione popolare e cultura di massa, identificando la pericolosità di un’ideologia corruttiva che, attraverso oggetti di consumo e divertimenti, si fà strada tra il popolo silenziosamente.

Riso amaro resta un’inestimabile fonte storica del nostro patrimonio, strumento per comprendere gli anni '50, per documentare il mondo delle mondine appena prima della sua scomparsa, ma soprattutto per vedere rappresentata la direzione egoistica, tutta tesa all’individualismo e all’abbandono della solidarietà di classe, che stravolgeva l’individuo nell’affamato processo di urbanizzazione e industrializzazione italiana.

 

Il paradosso? Riso amaro fu anche il film che consacrò l'immagine divistica di Mangano, radicata oggi e per sempre nell’immaginario collettivo, come mondina fiera, sensuale e provocante, stretta nella sua maglietta bagnata e nelle sue calze di nylon a mezza coscia. 

 

Disponibile su Rai Play

 

[a cura di Matilde Biagioni

 

Posizione 2

Achtung! Banditi! 

Carlo Lizzani, 1951    

 

In questo film del 1951, un gruppo di Partigiani fiancheggiati dagli operai di una fabbrica a Pontedecimo (un quartiere di Genova) si scontra con i tedeschi durante un tentativo di recupero di armi: lo scontro fra la Resistenza italiana e i nazisti invasori è al centro della storia.  

 

Carlo Lizzani debutta con il suo primo lungometraggio Atchung! Banditi! qualche anno dopo che il Neorealismo italiano aveva già dato i suoi frutti nel panorama cinematografico nazionale - e il Cinema del Belpaese sembrava essere scevro di nuove idee e in balia di una vera e propria stasi espressiva - ma lo fa avendo già nuotato dentro il movimento, viste le sue collaborazioni sui set di Roberto Rossellini e l’influenza che lo stesso ebbe su di lui, in primis con l’opera Paisà

L’opera di Lizzani si inserisce infatti in un contesto storico in cui i critici già vedono un prossimo superamento del Neorealismo, pur tuttavia mantenendo le sue radici in termini di rappresentazione fotografica del substrato sociale dell’epoca e del popolo italiano, con le sue gioie (poche) e le sue lacrime (molte di più).  

 

Quale testimonianza socio-politica degli anni appartenenti alla Seconda Guerra Mondiale, ancora oggi il film di Lizzani ha molto da raccontare, soprattutto se si pensa che la figura del partigiano è ancora vicina e cara alla nazione, perché simbolo di libertà, unità, coraggio e intraprendenza. 

Nella cerchia di personaggi che fanno parte della sua opera, Lizzani ritrae i volti degli emarginati, dei miseri, ma a mio avviso spesso lo fa anche in modo eccessivamente macchiettistico, firmando un film che con i suoi difetti - soprattutto sul piano della sceneggiatura - non è certo l’apice del movimento, ma che resta pur sempre una pietra miliare di quegli anni.  

 

Atchung! Banditi! affronta anche tematiche politiche di estremo rilievo per quegli anni, segnati da un contesto socio-politico che ha il suo perno nella rivoluzione studentesca e nella rivalsa operaia, uniti da un desiderio di ribaltamento di un sistema che fagocita il popolo a favore della più alta borghesia capitalista. 

Altro elemento che Lizzani recupera dal Neorealismo più puro è il fine tratteggio psicologico dei personaggi, ove anche le azioni più meschine e basse sono affrontate sullo schermo senza alcuna dimensione di giudizio da parte del regista, ma con la volontà di cercare sempre le ragioni che abbiano spinto un determinato individuo - ad esempio, un criminale - al compimento di un gesto considerato outsider.  

 

Con un bianco e nero di alti contrasti e la presenza indiscussa del paesaggio - molto spazio viene dato alle scene in esterno - come co-protagonista a fianco di un cast in cui spicca una brillante Gina Lollobrigida, la narrazione di Lizzani si mostra tanto cruda quanto sincera nel suo non essere edulcorata, costituendo ad oggi un prodotto fruibile sotto un’ottica riflessiva senza aver perso la verve, nonostante il passare degli anni.    

 

Disponibile a noleggio su Prime Video e Rakuten TV

 

[a cura di Priscilla Piazza]

 

Posizione 1

Umberto D.

Vittorio De Sica, 1952

 

La grandezza del Cinema e dell’arte in generale non ha un inizio e nemmeno una fine: è l’universalità che abbraccia ogni tempo e ogni spazio a fare da contorno.

 

Il caso di Umberto D., diretto da Vittorio De Sica nel 1952, è uno di questi.

 

 

Ambientato nell’Italia a ridosso del boom economico, del divismo e della crisi del Neorealismo, la storia parla del pensionato Umberto (Carlo Battisti), povero e solo: vive con il cane e la domestica, è perennemente a rischio di sfratto, ritiene che l’unica possibilità di pace sia nella morte. 

 

Per quanto paia una trama circoscritta alla Storia del nostro Belpaese possiamo traslare Umberto su qualsiasi coordinata del globo terracqueo e vedere come esistano, nei flussi perenni dei cambiamenti e delle rivoluzioni, categorie umane lasciate in disparte, abbandonate a loro stesse.

 

 

Spesso gli anziani fanno parte di questa categoria, deteriorati nel corpo e nello spirito, ma spesso ricchi come Umberto di un valore inestimabile: la dignità.

 

La dignità a volte trabocca nell’orgoglio, nell’incapacità di chiedere aiuto, ma rimane una qualità ineccepibile, una colonna portante dell’essere umano.

 

 

Nella rinascita dell'Italia totalmente avvolta nell’abbraccio statunitense del dopoguerra la presenza di un cagnolino, il cui affetto è scevro di artefatti, sarà ciò che permetterà a Umberto di riconciliarsi con il mondo.

 

L’empatia tra due esseri viventi commuove e spacca lo schermo nel suo silenzio, tra il tripudio di urla e rumori della città, rimanendo impresso nella Storia del Cinema nostrano e mondiale.

 

 

Disponibile su Infinity + e sui canali Infinity e CineAutore di Prime Video 

 

[a cura di Lorenza Guerra]

 



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1 commento

Nic Cage

12 mesi fa

Ottima top 8, provvederò a recuperarne alcuni di questi titoli.

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