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#top8

8 volte in cui il Cinema ha incontrato il Teatro

Un percorso sugli incontri più inaspettati tra il mondo del Cinema e quello del Teatro

Cinema e Teatro sono due mondi complessi che condividono l’arte della rappresentazione.

Condividono registi, attori, scenografie e, a livello produttivo, si animano di forme simili e spesso coincidenti. 

 

A partire dagli anni ‘50 la televisione e il cinematografo oscurarono questa forma artistica che, pur essendo la più antica di tutte, dimostrò di non essere in grado di resistere alle innovazioni proposte dallo scorrere del tempo. 

 

Rispetto al Teatro, le nuove tecniche di rappresentazione erano sicuramente più allettanti, anzitutto perché rappresentavano una novità - e le novità sono sempre più interessanti, è la loro durata che è incerta - ma anche perché lo spettatore, abbagliato da queste straordinarie magie visive, si rese conto del potenziale economico e di accessibilità di questi nuovi strumenti.

 

Molti hanno spesso pensato che il Teatro, a causa di questi cambiamenti, incontrò la crisi e da quella crisi non si risollevò più, spingendo autori come Jerzy Grotowski a immaginare per la rappresentazione teatrale un assetto povero, privo di luci, musiche, costumi e di tutti quegli orpelli seducenti per lo spettatore.

 

Un "Teatro del necessario" che escludesse quindi la tecnologia, perché rincorrere i potenti mezzi del Cinema e della televisione sarebbe stato un vano tentativo di sopravvivenza. 

 

 

[Il cinematografo era intrattenimento per tutti: già dai primi del Novecento ai nickelodeon, in America del Nord, era possibile guardare film pagando un solo nichelino. Più tardi, la televisione entrava direttamente nella dimensione domestica e nei luoghi di ritrovo del tempo]

 

 

In realtà, le criticità che ancora oggi incontra il Teatro, come istituzione e come forma d’intrattenimento, sono legate prevalentemente alla mancanza di grandi interpreti e autori.

 

E più si guarda alla Storia del Teatro, senza nessuna pretesa nostalgica, più si comprendono tali mancanze.  

 

Oggi, ancor più che negli anni ‘50, la nostra scelta rispetto a cosa guardare si è frammentata in modo disordinato e frenetico.

 

[Un estratto della rappresentazione teatrale di Dr. Faustus di Jerzy Grotowski]

 

 

Ora che il catalogo è più ricco, tra film al cinema, in streaming o in homevideo, serie TV, fiction, programmi televisivi per tutti i gusti e documentari, possiamo godere di un ottimo intrattenimento in modo facile ed economico.

 

Tanto che un biglietto di uno spettacolo teatrale non rientra neanche più tra le ipotesi di acquisto.

 

Chi scrive sostiene che il Teatro non morirà mai davvero, perché vivrà ogni volta che, in qualsiasi forma e tipologia, si instaurerà un rapporto diretto tra un esecutore - un attore - e uno spettatore.

Se il Cinema è un atto creativo riproducibile, infatti, il Teatro ha la particolarità di consumarsi in un solo momento. 

 

È un "qui e ora" straordinario, un’opera d’arte vivente. 

 

 

[Il monologo sul Teatro in Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz]

 

 

Nel tempo l’arte teatrale è stata proposta e riproposta in forme cinematografiche sempre diverse.

 

Abbiamo visto, e vediamo tutt’ora, film tratti da testi drammatici, trasposizioni cinematografiche di opere teatrali, film tratti dal teatro musicale e biografie cinematografiche di teatranti e uomini di spettacolo. 

 

Tanti autori del Cinema si sono confrontanti con questa imponente tradizione artistica, da François Truffaut a Ingmar Bergman, senza dimenticare Pier Paolo Pasolini che, attraverso un Cinema fatto di citazioni stilistiche e formali, è riuscito a creare il connubio perfetto tra racconto cinematografico e impianto teatrale.

 

[Pier Paolo Pasolini sul Teatro in un'intervista del 1968]

 

 

Ma oltre a questi esempi, in cui il Teatro si inscrive nel racconto cinematografico con grande eleganza e sofisticatezza, c’è anche una certa influenza teatrale, spesso invisibile agli occhi di chi a questa forma d’arte non ha mai guardato con interesse, che il Cinema continua ancora oggi a percepire in forme sempre più originali e creative.

 

Sono i film che raccontano l’arte del Teatro, omaggiandone - con o senza volontà - i momenti chiave all’interno di un flusso storico completo.

 

A volte inserendo citazioni, frammenti di testo o contesti teatrali all’interno di plot che con il teatro non hanno niente a che fare.

Altre volte invece proponendo omaggi, rielaborazioni artistiche di quei frammenti ormai più che trattati, discussi e rievocati. 

 

È su quest’ultima categoria che questa Top 8 intende focalizzarsi, anzitutto perché sarebbe impossibile ripercorrere puntualmente la miniera d’oro dei film che si legano al Teatro, estrapolando otto esempi calzanti tra le moltissime tipologie, ma soprattutto perché può celarsi un fascino maggiore in ciò che non è palese e sotto gli occhi di tutti.

 

Qualcosa che può essere - e nella maggior parte dei casi è - frutto di una scelta artistica sorprendentemente consapevole.

 

In questo articolo non vedrete, perciò, film come Birdman o Qui rido io e cercherò di spingermi ben oltre Shakespeare in Love o Cyrano, mon amour.

 

Sarà l’occasione - spero - di scoprire insieme alcune pillole teatrali presenti all’interno di film che al Teatro attingono per vie altre, proponendo echi di testi, modelli, strutture e fenomeni che in questa meravigliosa arte hanno trovato storicamente la loro origine.

 

[Articolo a cura di Matilde Biagioni]

 

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Posizione 8

Il coro greco ne La dea dell’amore

di Woody Allen, 1995

 

La distribuzione italiana deve aver trovato il titolo originale del film, Mighty Aphrodite, un po’ troppo ambiguo o motivo di un qualche tipo di fraintendimento.

Eppure l’associazione delle due parole (Possente, Afrodite) avrebbe curiosamente anticipato allo spettatore il gioco narrativo alla base del film.

 

Ne La dea dell’amore due piani inconciliabili, il presente e il passato, si fondono con naturale scioltezza.

Il film non parla di Teatro, esso è piuttosto una piccola tragedia mascherata da commedia, nell’incontro miracoloso tra Manhattan e la Magna Grecia.

 

Le vicende, che vedono un uomo (Woody Allen) in piena crisi coniugale cercare di rintracciare la madre adottiva di suo figlio, sono tutte commentate da un autentico coro greco in una sorta di collegamento televisivo direttamente dal Teatro di Taormina, con tanto di inviati speciali a New York.

 

A livello narrativo, la riesumazione del coro simboleggia una sorta di voce della coscienza, solenne ma anche banale, alla quale contribuiscono gli interventi di quelli che furono i grandi personaggi della drammaturgia ellenica: da Laio, a Giocasta, fino a Cassandra e Tiresia.

 

La ripresa del mito di Edipo, poi, è un pretesto per introdurre la dimensione psicanalitica, concepita da Sigmund Freud, dell’omonimo “complesso”.

 

Allen spinge il coro - dotato delle tipiche maschere tragiche del V secolo a.C. - al di là dell’orchestra del teatro, luogo dove tradizionalmente era relegato, e ne traspone la forma, rendendo la sua presenza assurda e derisoria.

 

Tutto ciò all’interno del citato Teatro di Taormina, un'arena rappresentativa giunta a noi nell’assetto romano: uno spazio di grande fascino costruito nel rapporto tra architettura teatrale e natura.

 

Drammaturgicamente evocativo, l’introduzione dell’elemento corale mostra un segno di appartenenza culturale occidentale e sottolinea la necessità fondamentale di una comunicazione con il nostro passato.   

 

 

Disponibile su Prime Video

 

Posizione 7

Le maschere della Commedia dell'Arte in Pinocchio

di Matteo Garrone, 2019

 

Il rapporto osmotico tra Cinema e Teatro trova particolare riscontro nella filmografia di Matteo Garrone, attraverso la collaborazione con attori del calibro di Toni Servillo, Michela Cescon, ma anche Alfonso Santagata e Aniello Arena, attore nella Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra.

 

Il legame tra il regista e l’arte teatrale ruota attorno alla figura del padre, Nico Garrone, che era un critico teatrale per La Repubblica, nonché divulgatore del periodo relativo alla stagione delle cantine romane raccontate nel documentario prodotto dalla Rai L’altro Teatro

 

Garrone, come afferma lui stesso, ha conosciuto il Teatro attraverso lo sguardo del padre, portandolo in moltissimi film a partire da Estate Romana del 2000.

 

Il suo Pinocchio, svuotato dall’elemento comico che caratterizzava le rappresentazioni cinematografiche precedenti, riflette profondamente un’attenzione al Teatro più artigianale, tanto nell’impianto scenografico quanto nella scelta dei costumi, del trucco e persino nella recitazione.

 

Le figure che agiscono sul palcoscenico, nella sequenza in cui Pinocchio (Federico Ielapi) entra nel teatro dei burattini di Mangiafuoco (Gigi Proietti), rimandano alla tradizione della Commedia dell’Arte

Una forma di spettacolo nata in Italia nel XVI secolo, caratterizzata dall’inizio del professionismo attorico e dagli anni della riforma goldoniana.

 

Oltre all’utilizzo di canovacci, piuttosto che copioni, la Commedia dell’Arte presupponeva la presenza di caratteri fissi ovvero personaggi con specifiche caratteristiche che si ripetevano in diverse rappresentazioni.

 

Garrone sceglie quindi di far interagire il giovane burattino con delle vere e proprie maschere teatrali.

Tra i burattini di Mangiafuoco spiccano Colombina, la servetta veneziana furba e maliziosa, il DiavoloArlecchino, servo scansafatiche sempre affamato al centro de Il servitore dei due padroni di Carlo Goldoni, Pulcinella, la nota maschera napoletana del servo malinconico e Pantalone, celebre maschera veneziana del mercante anziano.

 

Sono rimandi piuttosto espliciti a una delle tradizioni teatrali più vivaci di sempre attraverso, soprattutto, un’attenzione quasi maniacale ai costumi.

 

Colombina, per esempio, indossa un abito ricco di dettagli settecenteschi e il Diavolo, con il suo costume rosso fiammeggiante, riflette la tradizionale rappresentazione demoniaca, grottesca e caricaturale della maschera dello Zanni.    

 

 

Disponibile su Prime Video

 

Posizione 6

L’irriverente signora delle camelie di Gigi Proietti in Un'estate al mare

di Carlo Vanzina, 2008

 

Le rappresentazioni teatrali de La signora delle camelie sono state numerose e, molte di esse, hanno lasciato il segno nella storia globale del Teatro.

Basti pensare all’opera La traviata di Giuseppe Verdi, liberamente ispirata al romanzo.

 

Il dramma in cinque atti di Alexandre Dumas (figlio) era anche il cavallo di battaglia di Eleonora Duse, l’attrice che nel 1882, nei panni di Margherita Gautier, aveva concepito per lo spettacolo una serie di invenzioni recitative, come il pronunciare il nome “Armando” per ben cinque volte, ogni volta con una diversa musicalità legata a un differente stato d’animo.

 

Non c’è qui la pretesa di sostenere che Carlo Vanzina - conscio delle tecniche dusiane - avesse deciso di rielaborare in chiave comica l’esperienza del Teatro ottocentesco.

Ma è sicuramente da menzionare, in questo discorso, l’esilarante sketch di Un’estate al mare, film che vive esclusivamente per il suo ultimo episodio, La signora delle camelie, interpretato da Gigi Proietti.

 

Nel film Proietti è un doppiatore cinematografico con problemi di memoria che deve sostituire un amico nella parte del conte Duval.

Lo sketch si costruisce tutto sulle frasi del suggeritore Spartaco che vengono mal interpretate e convertite in battute comiche dall'attore in scena. 

 

Il testo non è tratto dall’opera originale, bensì è rielaborato nelle sue parti per permettere quel gioco di misunderstanding che è la forza umoristica della scena.

Un gioco che verrà poi riproposto dal comico romano durante alcuni show televisivi.

 

L’impostazione recitativa dell’attrice che interpreta Margherita, nonché la sua lunga e pomposa camicia da notte bianca, sono forse elementi parodistici rispetto al Teatro ottocentesco, qui inseriti per creare il contrasto con la volgarità coatta del compianto Gigi.

 

Se non conoscete la scena e non avete voglia di sorbirvi la frizzantissima commedia del 2008 con Lino Banfi, Enrico Brignano, Biagio Izzo, Enzo Salvi e Nancy Brilli, consiglio senz’altro di recuperare l’episodio de La signora delle camelie.

 

“Mi piace, il cor consola!"

"Vi piace il gorgonzola?!"

 

 

Disponibile su Mediaset Infinity 

 

Posizione 5

Un papa che ama Čechov in Habemus Papam

di Nanni Moretti, 2011

 

Raccontare la storia di un papa che non vuole essere un papa non è certo cosa da poco, soprattutto all’interno di un Paese come il nostro, in cui le rappresentazioni cinematografiche sul Vaticano - come istituzione e solenne guida per il popolo - sono state moltissime e hanno spesso generato scalpore.

 

Nanni Moretti mette al centro di Habemus Papam il disagio di un pontefice neo eletto (un dolcissimo Michel Piccoli) che, sopraffatto dall’ansia, non riesce ad accettare l’inizio del suo incarico, riconoscendo prima di tutto a sé stesso di non essere all’altezza di quel compito.

 

Nonostante ciò che negli anni è stato detto e scritto su questo film - molti lo hanno interpretato come una grande metafora della Chiesa, incapace di reagire ai cambiamenti del mondo - Habemus Papam sembra più che altro fare luce sull’universalità di certi sentimenti legati a scelte di vita e alla dignità di ammettere i propri limiti umani.

 

Da qui, probabilmente, nasce la scelta di inserire all’interno del racconto - e anche in modo piuttosto centrale - l’opera teatrale Il gabbiano di Anton Čechov.

Un’opera che il cardinale, futuro papa, conosce a memoria grazie alla passione della sorella e al suo sogno, in età giovanile, di diventare attore di Teatro.

 

Se vogliamo, la storia del film allude alla metafora teatrale a partire da un evento centrale: il futuro papa dovrebbe affacciarsi al balcone di San Pietro, per presentarsi al popolo e dare inizio al suo pontificato.

 

Ciò che è chiamato a fare è un vero e proprio debutto performativo, con tanto di attese, applausi e aspettative, all’interno di un piccolo palco - il balcone - incorniciato da tende rosse che richiamano il caratteristico sipario.

 

L'opera di Čechov è - ancora oggi - in grado di rappresentare la tragedia della delusione umana rispetto alla vacuità della vita, sottolineando il dramma dell’incomunicabilità.

Un dramma che colpisce improvvisamente il cardinale, incapace di spiegare il suo stato d’animo agli psicanalisti (Nanni Moretti e Margherita Buy).

 

Alla paura di deludere, al dispiacere di abbandonare quel palco, si affianca curiosamente quella che fu la prima de Il gabbiano al Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo.

 

Un debutto disastroso e fischiato che portò l’attrice protagonista, intimidita e umiliata, a perdere la voce durante lo spettacolo e lo stesso Čechov a rifugiarsi dietro le quinte durante gli ultimi due atti.

 

 

Disponibile su RaiPlay

 

Posizione 4

Il Cyrano de Bergerac in Chiedimi se sono felice

di Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti e Massimo Venier, 2000 

 

Tre amici (Aldo, Giovanni e Giacomo), ormai quasi fratelli e impegnati in lavori senza sbocco, decidono di mettere in scena il loro primo spettacolo teatrale: il Cyrano de Bergerac

 

L’opera di Edmond Rostand, concepita e rappresentata per la prima volta nel 1897, all’epoca ebbe un grande successo.

Cyrano, uno dei personaggi più conosciuti e amati del teatro, è stato riproposto in forme diverse nel corso del secolo, tanto nel Teatro quanto nel Cinema, e interpretato da numerosi artisti, da Gino Cervi a Gigi Proietti, da Massimo Popolizio a Gérard Depardieu.

 

Chiedimi se sono felice utilizza la commedia francese di fine Ottocento come pretesto narrativo, inserendola all’interno di un intreccio di moderni rapporti di amicizia, messi a dura prova dall’arrivo di una donna che rappresenta l'oggetto della discordia.

 

Il film è considerato uno dei punti più alti della filmografia del trio comico e tratta tematiche legate alla lotta tra amicizia e amore con una semplicità unica, a partire dalla recitazione che ancora oggi conforta lo spettatore affezionato.

 

Il film si lega all’opera di Rostand anche per la presenza di un trio amoroso al centro delle vicende.

Cyrano, soldato poeta e spadaccino, afflitto dal suo ingombrante naso, s’innamora della cugina Rossana e finisce per aiutarla a corteggiare un altro uomo.

Giovanni (Giovanni Storti) è innamorato di Marina (Marina Massironi), ma se la vede portar via dall’amico Giacomo (Giacomo Poretti).

 

La rudimentalità del teatro rappresentato dal film non può far altro che suscitare una grande tenerezza.

Le scenografie di cartone e dipinte sommariamente a mano, lo stereo che riproduce gli stacchi musicali, le prove meccaniche interrotte da confessioni pericolose e gli improbabili provini alla ricerca dell’attrice perfetta, sono tutti elementi che contribuiscono all’introduzione dell’opera originale in una dimensione più intima e arrangiata, in una forma che assomiglia più a una recita scolastica che a una rappresentazione vera e propria.

 

L’obiettivo ovviamente è suscitare l’ilarità del pubblico, ma anche creare un’atmosfera familiare perfetta.

La messa in scena dello spettacolo che chiude il film, d’altronde, è l’elemento che permette la soluzione finale delle dinamiche interne alla storia.

 

In una sorta di gioco onirico - la casa di Aldo (Aldo Baglio) che si trasforma magicamente in uno splendido teatro all’italiana - lo spettatore vede ricucirsi un rapporto perduto nel tempo: due cari amici, finalmente, si sono riappacificati.  

 

"Che squillino le trombe, signori spettatori.

Inizia la commedia e parlino gli attori!"

 

 

Disponibile su Disney+

 

Posizione 3

Il dramma shakespeariano in L’importante è amare

di Andrzej Żuławski, 1975

 

La maggior parte delle opere di Andrzej Żuławski sembrano influenzate dall’arte teatrale.

Un esempio è sicuramente Amore braque - L’amore balordo che, liberamente ispirato al romanzo L’idiota di Fëdor Dostoevskij, inserisce sul finale la messa in scena de Il gabbiano. 

 

Oltre ai copiosi riferimenti teatrali, le opere di Żuławski sono tutte caratterizzate da una recitazione esasperata più propria del Teatro che del Cinema, per spingere - pare - verso una sensazione profonda di irrealtà.

 

È il caso anche di Cosmos, film che ha rappresentato per il regista polacco il ritorno al Cinema dopo 15 anni di assenza, che gioca tra surrealismo e Teatro dell’assurdo.

 

Allo stesso modo L’importante è amare, considerato uno dei film minori del regista, mette in luce gli aspetti più oscuri della rappresentazione teatrale e del divismo del Cinema classico.

 

Al centro delle vicende Nadine (Romy Schneider), diva francese caduta in disgrazia e finita a lavorare nel porno, che si innamora del fotografo Servais (Fabio Testi), intenzionato a riportarla al successo attraverso uno spettacolo teatrale, visionario e d’avanguardia, del Riccardo III di William Shakespeare.

 

Anche se nel film il Teatro assume un ruolo centrale, è da notare come - apparentemente - raccontare una realtà artistica non sembri la volontà primaria, quanto piuttosto l'idea di utilizzare quella realtà come pretesto per parlare dell’amore nelle sue più terribili derive.

 

La scelta dell'allestimento del Riccardo III appare allora affatto casuale.

L’opera di Shakespeare racconta la mostruosità fisica che muta il desiderio morboso d’amore in superbia brutale attraverso il personaggio principale, Riccardo, che è l’archetipo del Male e che rappresenta la rovina umana dovuta all’ambizione e alla sete di potere.

 

Żuławski sfrutta il dramma shakespeariano per distruggerne il mito, proponendo una nuova violenza caratterizzata da una passione masochista, tossica e viscerale. 

Passione che non è da intendersi esclusivamente come sentimento che lega esseri umani, quanto piuttosto come trasporto che muove la produzione artistica, nella relazione tra l’artista e la sua creazione, tra il fruitore d’arte e l’oggetto.

 

Il Riccardo III si affianca, perciò, alla riflessione del regista sull’idea stessa dell’arte, in uno scenario in cui tutto è avvilito e degenerato nella dimensione grottesca della borghesia.  

 

 

Disponibile su Infinity+

 

Posizione 2

La passerella onirica in 8½

di Federico Fellini, 1963

 

Insieme al circo, il Teatro ha fortemente condizionato le scelte estetiche di Federico Fellini all’interno della sua filmografia.

Prima di approdare al Cinema, il regista riminese si occupava anche della preparazione dei copioni per Aldo Fabrizi, ovvero battute per l’avanspettacolo.

 

Nel Cinema di Fellini gli elementi di teatralità si costruiscono all’interno di una dimensione filosofica e spirituale, legandosi spesso ai temi ricorrenti del sogno e della memoria.

Lo stesso Luci del varietà, primissimo film del regista, racconta del tramonto dell’avanspettacolo a favore della forma cinematografica.

 

In  la teatralità domina la maggior parte delle sequenze, tuttavia il finale del film - in particolare la sfilata conclusiva che vede zompettare una serie di personaggi a tempo di musica - rimanda senza dubbio a una delle tradizioni più importanti del Teatro di rivista.

 

La rivista era un genere leggero, celebre in Italia a partire dagli anni ‘30 fino agli anni ‘50 come evoluzione del varietà, in cui si univano prosa, canto, musica, danza e gag satiriche o basate su cliché erotico-sentimentali.

 

Il momento più atteso dello spettacolo era il saluto finale, ovvero la cosiddetta passerella: i protagonisti sfilavano davanti al pubblico, le ballerine mostravano le proprie gambe, spingendo i giovani ad ammassarsi sotto il palco per vedere più da vicino, e tutta la compagnia salutava felice, lanciando baci e muovendosi a tempo di un motivo musicale orecchiabile.

 

Fellini, che era assiduo frequentatore dei teatri in età giovanile, inserisce in una vera e propria passerella onirica.

Sfrutta il Teatro per orientare il percorso angosciante del protagonista Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), regista quarantenne immerso in un travaglio artistico e sentimentale, verso una forma di redenzione in un contesto gioioso e di infantile memoria.

 

La scena, che suggerisce una profonda e travolgente malinconia, fa da eco alla tradizione teatrale come una sorta di passato ritrovato, un ricordo lontano che aiuta a riscoprirsi leggeri, capaci di dirigere una compagnia di vivaci personaggi.  

 

 

Disponibile su Infinity+

 

Posizione 1

Uno sketch del teatro di rivista in Totò a colori

di Steno, 1952

 

Totò a colori si impone come esempio emblematico rispetto alla rielaborazione di sketch teatrali per il mezzo cinematografico.

Il film rappresenta una vera e propria antologia del Teatro di rivista di Totò e riesce a consegnare allo spettatore un gran numero di invenzioni marionettistiche del "Principe della risata".

 

Per questo motivo è da considerare come ultimo esempio perfetto, e conclusivo, di questa Top 8.

 

La scena del film che più colpì il pubblico per la sua geniale assurdità fu quella del vagone letto, nata nel 1947 da uno sketch di teatro, nell’ambito della rivista C’era una volta il mondo di Michele Galdieri, presentata al Teatro Valle di Roma e interpretata da Totò, Isa Barzizza e Mario Castellani.

 

Nella scena Totò incontra per caso il deputato Trombetta e inizia a conversarci, giocando sul suo nome, fraintendendo le sue parole e toccandolo ostinatamente. 

 

Ciò che è interessante è il tema che involontariamente Totò a colori - come molti altri film con protagonista l'attore napoletano - mette in luce rispetto al dialogo tra Cinema e Teatro.

Le rielaborazioni di scene teatrali nei film di Totò, infatti, si sprecano e spesso sono passate alla storia come geniali invenzioni cinematografiche.

 

Verosimilmente, la famosa scena della lettera in Totò, Peppino e la Malafemmina, la cui totale improvvisazione è stata smentita dallo stesso Ettore Scola, potrebbe essere stata concepita, in forma embrionale, proprio durante uno degli spettacoli dell’attore, sul palco e davanti a un pubblico divertito.

 

Il fascino della trasposizione forzata dell’arte teatrale nel contesto cinematografico, caratterizzato da fissità, assenza di pubblico e difficoltà di improvvisazione, trova luogo anzitutto nello scetticismo che lo stesso Totò ammetteva di provare nei confronti del nuovo mezzo espressivo, specialmente in termini di libertà recitativa.

 

Della scena del vagone letto, per esempio, l’attore diceva:

“Lo chiamavano sketch, ma era lungo un atto, tutto inventato. Ma in teatro era una cosa: l’ho fatto per il Cinema e tutto si è infiacchito; forse perché mancava il fiato del pubblico, quel fiato che ti scalda il collo, ti sveglia l’animo”.

 

Di fronte a questo scetticismo, trovo curioso come il Cinema sia riuscito a portare alla luce scene come questa che, altrimenti, noi curiosi nostalgici non avremmo mai conosciuto, se non attraverso qualche testimonianza scritta e sparsa in qualche archivio italiano. 

 

Totò a colori, quindi, oltre a rappresentare una perfetta summa dell’arte teatrale del genio comico di Totò, è un atto generoso e lungimirante, in grado di far riflettere, ancora una volta, sullo splendido rapporto di reciprocità che lega queste due complesse arti rappresentative: Cinema e Teatro.  

 

 

Disponibile in homevideo

 



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