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#top8

Gli 8 migliori film in bianco e nero del XXI secolo

Lista dei migliori film in bianco e nero secondo CineFacts.it

Parigi, 8 luglio 1908: per la prima volta al mondo una cerchia ristretta di persone assiste alla proiezione di un film a colori.  

 

Il merito fu dell'inventore Edward Turner, che nove anni prima aveva brevettato un sistema di registrazione e proiezione di filmati a tre colori. 

 

Purtroppo Turner morì nel 1903 e il progetto fu portato avanti da Charles Urban che, assieme al suo socio Albert Smith, trovò un sistema più funzionale a due colori.

I due iniziarono a filmare e proiettare le immagini a 32 fotogrammi al secondo, in modo tale che l'occhio dello spettatore fondesse i due colori parziali in unico fotogramma a colore pieno.

 

Questo metodo purtroppo era poco intuitivo ed erano pochissimi i direttori della fotografia in grado di sincronizzare perfettamente la ruota dei colori con l'otturatore della cinepresa e, complice la Prima Guerra Mondiale, il progetto si arenò completamente.

 

Durante il conflitto però un gruppo di ingegneri americani composto da Kalmus, Comstock e Wescott progettò un sistema di proiezione tramite prismi stazionari, quindi senza ruota di colori, e fondarono assieme la Technicolor Corporation.

 

 

[Un piccolo schema di come funzionava il primo sistema Technicolor]

 

Da quel momento in avanti la Technicolor portò modifiche storiche all'uso del colore ma l'affermarsi sul bianco e nero avvenne solo fra gli anni '50 e gli anni '60.

 

Ma perché ancora oggi si producono film in bianco e nero?

 

Questo tipo di scelta può essere dettata per rievocare ad esempio epoche passate.

Ombre e nebbia di Woody Allen, fotografato magistralmente da Carlo Di Palma, immerge in modo splendido lo spettatore nel clima espressionista della Germania degli anni '20.

 

Oppure girare un film in bianco e nero risulta una scelta vincente per ottenere un effetto reportage come avviene in Toro Scatenato di Martin Scorsese, dove la luce vira su toni neorealistici per raccontare in maniera quasi documentaristica gli incontri cruenti di Jake LaMotta.

 

 

[Robert De Niro è Jake LaMotta nel filim di Martin Scorsese]

 

 

O magari è funzionale per creare un'atmosfera che il realismo naturalistico del colore non può offrire, come nel caso del suadente The Addiction di Abel Ferrara.

 

Tutti i film che ho nominato però sono del secolo scorso: quali sono le migliori opere fotografate in bianco e nero prodotte dal 2000 in poi?

 

Per questa Top8 ho voluto inserire un solo film per regista, per evitare che la classifica fosse monopolizzata da alcuni cineasti, ed ecco a voi i risultati. 


Che ne pensate? 



Posizione 8

Nebraska

Alexander Payne, 2013

 

Woody Grant è un ex meccanico afflito dall'Alzheimer che è convinto di aver vinto un milione di dollari da ritirare in Nebraska.

Intestardendosi su questa vincita, convincerà uno dei suoi due figli a portarlo a ritirare il premio.

 

Attraverso un bellissimo bianco e nero, Alexander Payne fa compiere allo spettatore insieme a Woody e suo figlio un viaggio negli Stati Uniti, distruggendo quell'ideale di americano medio pieno di valori patriottici tramite una comicità tanto pungente quanto amara.

 

Woody - interpretato in modo impeccabile da Bruce Dern - è cinico, tenero, malinconico e senza volerlo sarà l'anello che ricongiugerà una famiglia disunita.

 

Il film di Payne è anche un'opera sulla vecchiaia, sul come troppo spesso diamo per scontato alcune cose degli anziani che non lo sono per niente e magari hanno solo bisogno di uno scopo o semplicemente rivivere il passato.

"Lui non ha bisogno di una casa di riposo, ha bisogno di un motivo per vivere."

 

Nebraska passa dalla commedia al road movie drammatico fino a ritornare alle sue origini in pieno stile Payne, mantenendo un perfetto equilibrio fra dolce e amaro, facendo riflettere spesso il pubblico con una malinconia di fondo che vi lascerà pienamente soddisfatti dopo i titoli di coda. 

 

Nebraska lo potete trovare su Amazon Prime Video.

 

Posizione 7

The Artist

Michel Hazanavicius, 2011

 

Hollywood, 1927.

 

George Valentin (Jean Dujardin) è un grande divo del cinema muto che alla fine di una première viene fotografato con una fan, Peppy Miller (Bérénice Bejo).

Un giorno su un set di un film, un nuovo incontro accidentale fra i due fa nascere un'attrazione che però... resta tale.

 

Nel 1929, con l'avvento del sonoro, un Valentin riluttante a recitare in un film parlato scrive e dirige una pellicola muta che verrà presentata il 25 ottobre, giorno in cui vi sarà la première anche di un film sonoro dell'ormai diva Peppy Miller.

 

Purtroppo però l'opera di Valentin riscuoterà pochissimo successo e farà cadere l'ormai ex icona nel dimenticatoio.

 

The Artist è un film muto che racconta un periodo cruciale della storia di Hollywood e del cinema in generale.

All'inizio siamo infatti alla fine dei cosidetti roaring twenties che hanno segnato la nascita delle grandi major hollywoodiane e con esse anche i loro divi.

È il periodo di Greta Garbo, Gloria Swanson e Rodolfo Valentino.

 

L'avvento del sonoro però fa cadere queste grandi star umanizzandole e creando non poche polemiche all'interno dell'industria cinematografica.

 

"We didn't need dialogues, we had faces."

 

Il film di Hazanavicius mostra tutto ciò con un eleganza e una nostalgia senza pari, attraverso due interpretazioni - quella di Dujardin e di Bérénice Bejo - straordinarie.

 

La fotografia in bianco e nero di The Artist rispecchia perfettamente quel periodo e i vari riferimenti ai divi del cinema muto e ai grandi film del passato - iconica la scena a colazione che omaggia Quarto Potere - rendono la pellicola una fantastica dichiarazione d'amore a un mondo che ormai non c'è più.

 

Cinema e metacinema si fondono in un'opera di rara bellezza vincitrice di 5 Premi Oscar che rievoca un'epoca passata ma che non dimenticheremo mai grazie a film come The Artist.

 

The Artist lo potete trovare su Amazon Prime Video

 

Posizione 6

Roma

Alfonso Cuarón, 2018

 

Città del Messico, 1970. 

Cleo è una domestica che lavora nella casa di Sofia, suo marito Antonio, i loro quattro bambini, la madre di Sofia e un'altra cameriera.

 

La vita di Cleo procede in tranquillità fra faccende domestiche e uscite con l'amica del cuore, ma quando scopre di essere incinta del proprio compagno e che Antonio si è allontanato dalla famiglia perché innamorato di un'altra donna, la sua vita prenderà una piega inaspettata.

 

Roma, come dichiarato dallo stesso Cuarón, è un film fortemente autobiografico e forse per questo a volte un po' troppo autocontemplativo.

Giarato in digitale - Cuarón ne cura anche la fotografia - è caratterizzato da un bianco e nero super definito e da lunghi piani sequenza splendidi.

 

A supportare un comparto visivo e sonoro così importante vi è la storia, in apparenza banale, di Cleo.

Una vita, la sua, sempre al servizio del prossimo, da persona che però non si fa abbattere mai qualunque cosa accada e che è forse uno dei ritratti di donna più belli e veritieri della Storia del Cinema.

 

Emblematico da questo punto di vista il finale, in cui Cuarón forse si libera di alcuni scheletri del passato con un'eleganza degna del Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2018, oltre che di 3 Premi Oscar (Regia, Fotografia e Film in Lingua Straniera) su 10 nomination,  4 BAFTA e 2 Golden Globe. 

 

Roma lo potete trovare su Netflix.

 

Posizione 5

L'uomo che non c'era

Joel & Ethan Coen, 2001

 

Ed Crane (Billy Bob Thornton) è un barbiere che lavora nella bottega di suo cognato Frank.

La sua vita scorre tranquilla finché un giorno decide, dopo esser stato abbindolato da un truffatore, di aprire un lavaggio a secco.

Per farlo però ha bisogno di una cospicua somma iniziale che si procura ricattando Big Dave (James Gandolfini), un ricco commericante della città.

 

Si sa: uno degli aspetti caratteristici del cinema dei fratelli Coen è la costruzione meticolosa dei personaggi e il racconto del loro tentativo di cambiamento a una vita monotona e priva di qualsiasi soddisfazione.

 

Ed Crane fa parte di questa cerchia che si contrappone a quella di sua moglie (Frances McDormand) e Big Dave, personaggi pronti a sacrificare qualsiasi cosa pur di aver successo.

L'uomo che non c'era però è un film profondamente nichilista, che non lascia scampo a nessuna delle due cerchie in un concentrato di dark humor coeniano e dramma hollywoodiano perfetto.

 

Ma l'opera dei Coen è anche un chiaro omaggio al noir degli anni d'oro, fotografato da Roger Deakins in bianco e nero e caraterizzato da ombre profonde, bagliori improvvisi, una luce morbida negli esterni e dura e contrastata negli interni che ne fanno un film visivamente grandioso.

 

Un'opera spesso poco citata ma che al suo interno contiente una profonda critica alla società americana post-moderna, mascherata da un noir bellissimo i cui personaggi ci entreranno nel cuore nonostante l'apatia che li caraterizza.

 

"La vita mi ha servito delle mani perdenti, o magari non le ho sapute giocare, chissà...

Ora volevo parlare ma non avevo nessuno accanto a me: ero un fantasma, non vedevo nessuno e nessuno vedeva me."

 

Vincitore del Premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes del 2001, del BAFTA e del David di Donatello come miglior film straniero. 

 

Posizione 4

Il nastro bianco

Michael Haneke, 2009

 

Germania, qualche anno prima della Grande Guerra: un vilaggio rurale di Eichwald viene improvvisamente scosso da una serie di avvenimenti che non trovano un colpevole: il dottore della comunità casca a cavallo per colpa di un filo legato volontariamente fra due alberi, una signora cade da un soppalco mentre sta lavorando, mentre il figlio del Barone viene trovato legato e malmenato.

 

Attraverso un amaro voice over del maestro del Paese, Michael Haneke in questa sua opera vincitrice della Palma d'oro a Cannes, delinea i comportamenti, la cultura, la psicologia della Germania che sarà protagonista dell'ascesa del nazismo in Europa.

 

Nella comunità di Eichwald non c'è un colpevole come non vi è un innocente.

Il Pastore che impone un educazione morbosa ai propri figli e che di conseguenza sopprime ogni istinto adolescenziale, il medico tanto rispettato in pubblico quanto in realtà meschino e violento sia nei confronti della figlia che della governante in privato, i bambini apparentemente innocui ma capaci di mentire spudoratamente ai propri genitori ed educatori. 

 

La famiglia e la scuola diventano luogo di un educazione forzata, volta all'estetica sociale ma che si riverserà contro nei confronti del diverso in un crescendo di sentimenti vendicativi.

 

Haneke ne Il nastro bianco - simbolo dell'innocenza che non c'è - si limita quindi a mostrare al pubblico in uno splendido bianco e nero con una regia algida gli avvenimenti senza però rivelare, per lo meno esplicitamente, i responsabili, costruendo una sorta di finto giallo che porterà lo spettatore durante la visione a chiedersi "chi è il colpevole?"  ma che alla fine si domanderà "chi è realmente innocente?"

 

Il nastro bianco lo potete trovare su Amazon Prime Video

 

Posizione 3

Cold War

Pawel Pawlikowski, 2018

 

Polonia, immediato dopoguerra: nelle campagne rurali del Paese inizia da parte del musicista Wiktor un reclutamento di cantanti e ballerini per formare quello che sarebbe diventato il Mazurek, ovvero corpo di balli e canti popolari voluto fortemente dal governo sovietico.

 

Ed è qui che nasce la storia d'amore fra il musicista Wiktor e Zula, una ragazza dalla voce ammaliante ma dal passato oscuro.

Fra i due sboccia subito la passione, talmente forte che Wiktor organizzerà una fuga per passare dall'altra parte del blocco, ma Zula incredibilmente non si presenterà.

 

Da questo momento in poi Pawlikowski, per tutta la durata del film percorrerà la drammatica storia d'amore fra i due, durata fino alla metà degli anni '60.

 

- "A pendulum killed time"

- That's nice, but I don't understand it.  

- That time doesn't matter when you are in love.

 

È in questo dialogo fra Zula e una poetessa che risiede l'essenza di Cold War.

Una storia d'amore che non finisce mai, dove i due amanti passano di Stato in Stato, dalle canzoni popolari polacche fino al jazz parigino degli anni '50, in una serie di sequenze talmente affascinanti da lasciare a bocca aperta.

 

In poco più di 80 minuti il regista polacco fa rivevere allo spettatore l'umidità e il grigiore delle campagne sovietiche per poi passare alla Parigi degli anni '50 della Nouvelle Vague, tutto sapientemente fotografato in un elegantissimo bianco e nero in formato 4:3.

 

Cold war è puro Cinema, una dichiarazione d'amore malinconica a un'epoca che non c'è più, ai propri genitori e a una poetica che sembra essersi persa da tempo. 

Premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes del 2018, vincitore come miglior film agli European Film Awards e candidato al Premio Oscar come miglior film in lingua straniera. 

 

Posizione 2

Polytechnique

Denis Villeneuve, 2009

 

Il 6 dicembre del 1989, il venticinquenne Marc Lépine uccise a colpi d'arma da fuoco 14 studentesse del Politecnico di Montréal.

 

Polytechnique racconta quasi come fosse un reportage gli avvenimenti di quel giorno nefasto, attraverso gli occhi di Lépine e di Jean-François e Valérie, due studenti che erano al politecnico quel giorno.

 

Denis Villeneuve grazie a una perfetta fotografia in bianco e nero ha realizzato un'opera che mette lo spettatore di fronte a due tipi di emozione: la prima scaturita dalla natura degli eventi e dal modo in cui sono trasposti sullo schermo è quella di disagio, di angoscia che si contrappone a una sensazione di benessere tanto è bella la messinscena del film e la colonna sonora.

 

Un connubio difficile da realizzare ma che spiazza lo spettatore che vorrebbe smettere di vedere l'opera, ma non può farne a meno per quanto sia ben realizzata.

 

È vero che Polytechnique arriva dopo Elephant di Gus Van Sant, ma il film di Villeneuve ha un coinvolgimento emotivo maggiore, dettato da aspetti registici che ci colpiscono pian piano fino a lasciarci sbigottiti e consci di aver assistito a un'opera magnifica.

 

Vincitore di nove Premi Génie, primo nella lista degli Insoliti Film Disturbanti vol. II del collega Adriano Meis, Polytechnique è un film assolutamente da vedere almeno una volta nella vita, che vi farà cambiare modo di percepire alcune cose lasciando indelebilmente un solco profondo nel vostro cuore. 

 

Posizione 1

Il cavallo di Torino

Béla Tarr, 2011

 

Nella Torino del 1889 Friedrich W. Nietzsche, vedendo un cocchiere che frustava il suo cavallo perché si rifiutava di muoversi, si precipitò ad abbracciare l'animale piangendo, dando i primi segni di insanità mentale.

 

Da qualche parte in una campagna desolata dove impervera una tempesta, un padre e sua figlia trascorrono sei giorni nella monotonia più assoluta.

 

Parlare de Il cavallo di Torino non è per niente semplice, tanto è vasto e criptico il suo significato.

Béla Tarr, che ha ribadito che questo sarà il suo ultimo film, ci ha regalato un'opera profondamente nichilista e meravigliosa.

 

Dio, secondo la Bibbia, ci mise sei giorni a creare il mondo e non è un caso che ne Il cavallo di Torino i giorni che trascorrono siano esattamente sei.

Sei giorni per cadere nell'oblio, per essere partecipi di un'apocalisse lenta e inesorabile.

 

Durante le due ore e mezza di film assistiamo alle grigie giornate trascorse da un padre, da sua figlia che si occupa delle faccende di casa e del loro cavallo, anche lui come quello che ha visto protagonista l'episodio di Nietzsche non vuole muoversi.

 

Una quotidianità, la loro, deprimente, statica, vuota e interrota solo da due brevi frangenti che vedono protagonista un uomo senza fiducia nel mondo e degli zingari.

Rappresentando ciclicamente ogni giorno alla stessa maniera, Béla Tarr instaura nell'animo di ogni spettatore una sensazione di profonda desolazione e di sfiducia complice anche il bianco e nero privo di qualsiasi luce morbida ma pieno di oscurità 

Un film faticoso nella visione, composto da trenta inquadrature e impercettibili movimenti di macchina funzionali a rappresentare la vita, ma senza di essa.

 

Più che di un film bisognerebbe quindi parlare di un'esperienza sul nulla, scandita a ripetizione dalla colonna sonora composta da un solo brano anch'esso angosciante.

 

Gran Premio della Giuria al Festival internazionale del Cinema di BerlinoIl cavallo di Torino è forse uno dei capolavori di questo millennio che necessita più di una visione per poter esser apprezzato, ma che indubbiamente vi lascerà estasiati ogni volta. 

 



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1 commento

Emanuele Antolini

4 anni fa

Grazie!! Polytechnique è stupendo ma anche tremendamente duro come film

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