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Una Serie di Sfortunati Eventi - Recensione: l'idiosincrasia di Wes Anderson per spiegare Bene e Male

Tra Wes Anderson e Tim Burton per portare al pubblico più giovane una epica per ragazzi 

Una Serie di Sfortunati Eventi non ha funzionato al cinema, ma su Netflix viaggia tra Wes Anderson e Tim Burton per portare al pubblico più giovane una epica per ragazzi a spiegare l'eterna lotta tra Bene e Male e su quanto questa dicotomia possa essere complessa e sfaccettata.

 

 

 

Mettere in scena un libro non è per nulla cosa facile.

I perché non sono molti e si potrebbero sintetizzare nella farcia di una manciata di bignè.

 

Ognuno con il suo sapore, consistenza e capace di esplodervi in bocca e sul mento, costringendovi a correre a goffi ripari sfruttando l’unico tovagliolino a vostra disposizione, quello sporco dello zucchero a velo.

 

I bignè, come i motivi per i quali la messa in scena di un libro può essere complicata, sono apparentemente semplici, delicati, facili da realizzare e mangiare, ma al loro interno nascondono un sacco di insidie e complessità.

 

 



Insomma, il linguaggio per immagini, come la pasticceria, ha bisogno di precisione, vive di bilanciamenti e chimica e spesso, come la chimica e la cucina, alcune soluzioni e ricette possono nascere per sbaglio o accostando sapori suggeriti da un palato particolarmente fine e curioso.

 

Per questo motivo, e per evitare che un attacco di fame mi costringa a montare una crema al mascarpone notturna, cercherò di rimanere sul linguaggio per immagini, per arrivare al punto focale di questa recensione, passando per la riflessione sull'annoso problema sopra esposto.

 

Ragionate solo sull'ovvio, sul fatto che i due mezzi, scrittura e racconto per immagini, lavorano su livelli molto differenti e spesso quello che funziona sulla carta, quando trasposto in un'azione reale, diventa terribilmente ridicolo, goffo o semplicemente improbabile.

 

Questo non succede solo nella migrazione da libro a film e molti sceneggiatori, per esperienza, hanno visto cosa succede quando una linea o una pagina di sceneggiatura, apparentemente geniale, messa in scena perde ogni potenza.

I dialoghi, che su carta possono risultare pregni di significato ed enfasi poiché supportati da descrizioni dettagliate e intimiste, a schermo possono suscitare delle reazioni cringe non da poco.

 

Il rapporto sta proprio tra scrittura e scrittura per immagini.

 

 



I linguaggi, per quanto assurdo e controintuitivo vi possa sembrare, sono diversi, e spesso, durante la trasposizione, capita di incappare in soluzioni che, durante la stesura, non sono state preventivate.

 

Invettive migliori, motivate dall'insieme di sensazioni e dai fattori messi in campo durante la produzione; fate conto che David Lynch ha ricavato Strade Perdute da una singola frase del libro Gente di Notte di Barry Gifford.

 

Quello che all’interno di un libro per una persona può avere un fascino evocativo potente e chiaro, per qualcun’altro può significare benissimo tutto e niente; parliamoci chiaro, questo avviene anche al cinema, dove esiste una decodifica, un po’ più chiara, seppur non sempre palese, di chi scrive e di chi poi mette in scena la sceneggiatura.

 

Recentemente, ho letto come Bryan Cranston abbia cambiato, in accordo con N. W. Refn, la scena della sua morte in Drive, rendendola molto più intima e umana rispetto a quella prevista inizialmente nello script.

La scrittura per il cinema è un mezzo di sintesi e spesso una lama a doppio taglio.

 

Un intero capitolo di battaglie epiche può ridursi in sceneggiatura in una riga, salvo poi tradursi in due settimane di riprese e in svariate ore di girato da montare.

 

Insomma, anche se non siete avvezzi ai meccanismi del cinema, spero abbiate capito come la frase "nel libro succede questa cosa X e il personaggio me lo immaginavo molto Y", ha spesso tanto senso quanto dire, "alla tua età saltavo i fossi per il lungo"; suscita anche lo stesso senso d'intolleranza e irritazione verso chi la pronuncia. 

 

 



Tornando al punto d'origine, non importa cosa tu stia leggendo: portare un libro sullo schermo non è sempre facile e occorre, dove più e dove meno, un accurato lavoro di traduzione.

 

Esistono infatti libri che, per quanto belli e potenti, spaventano anche il più talentuoso dei registi; recentemente abbiamo assistito al flop di Nelle Pieghe del Tempo, diretto da Ava DuVernay, costato alla Disney una perdita significativa rispetto all'investimento iniziale e che è stato distribuito a qualsiasi costo pur di non rimanere in mutande. 

 

Un film che, come hanno detto alcuni giocando con il cinema e le parole, si è Lost in Translation, confermando i timori di grossi registi, tra i quali anche Peter Jackson, che definirono il libro dal quale è tratto come "non girabile"

 

 



Il sottoscritto, ad esempio, è un grandissimo fan dei libri di Jonathan Tropper.

 

Uno scrittore americano che vi consiglio caldamente, diventato famoso anche grazie alla creazione di Banshee, la serie cult HBO/Cinemax - se avete un buco nei vostri impegni seriali, datele una possibilità.

Uno dei suoi libri più di successo, Portami a Casa (This Is Where I Leave You) è diventato un film nel 2014.

 

Il cast era di quelli che la tocca piano: Jason Bateman, Tina Fey, Adam Driver, Timothy Olyphant, Dax Shepard, Jane Fonda, Ben Schwartz e altri.

 

Un film interconnesso con quest’America enorme e sfaccettata, fatta di cicli familiari enormi e complessi, dove la famiglia diventa una macchia indistinta che da una casa di legno della provincia si espande in una serie di matasse, gelosie, rivalità tra fratelli e un mosaico di esperienze e maschere scanzonate e a volte tragiche.

 

Un libro non originale nei temi, ma interessante per narrazione e sviluppo, un racconto Made in USA dall’archetipo classico, di quelli che deve aver ispirato la bellissima Elderly Woman Behind The Counter in a Small Town - brano dei Pearl Jam… se ci fosse bisogno di specificarlo, tsè! -, cosa che il regista Cameron Crowe ha capito benissimo, ma questa è un’altra storia.

 

 

 

 

Alla fine della fiera, il film è un flop.

 

L’ho visto una volta e non ne sono rimasto per nulla colpito e in linea di massima è passato totalmente inosservato, dimenticando a casa qualsivoglia forma poetica e costringendomi a rannicchiarmi in un angolo per rivedere La Mia Vita a Garden State e singhiozzare ammirando la bellezza e dolcezza del personaggio impersonato, splendidamente, da Natalie Portman.  

 

Insomma, non importa quanto budget tu abbia a disposizione, non importa che tu sia Lynch, DuVernay, Stanley Kubrick o Denis Villeneuve: se stai leggendo Cuore Selvaggio, Dune, Nelle Pieghe del Tempo, The Shining, Twilight o Animali Notturni, puoi incappare in un capolavoro come in un flop e comunque qualcuno ti rimprovererà di aver cambiato qualcosa che nel libro era meglio.  

 

Quando incappi in Una Serie di Sfortunati Eventi, un libro per ragazzi diviso in tredici - numero sfortunato scelto appositamente per... beh, motivi piuttosto ovvi -, e signore e signori ribadisco TREDICI libri e una narrativa peculiare, la trasposizione diventa difficile.

 

Diventa ancora piú difficile quando lo stile narrativo si butta nel meta e da Alessandro Manzoni, che s'inventò un sistema per gabbare la censura, si passa a un autore come Daniel Handler che, al fine di creare un universo narrativo metaletterario denso, sente l'esigenza di stare dentro e fuori dal suo racconto e quindi parte del mondo reale, creando lo pseudonimo e doppio di se stesso, Lemony Snicket.

 

 



Uno scrittore portato dal suo estro a scrivere un libro metaletterario fuori dal tempo, estremamente sopra le righe nel voler raccontare una storia epica per ragazzi, con l'intento di trasmettere una semplificazione sul bene e sul male, sul passaggio alle nuove generazioni delle lezioni imparate cercando di inseguire utopistiche convinzioni o terrificanti macchinazioni.

 

Come si mette in scena una serie di tredici libri il cui estro è così accentuato e la cui scrittura idiosincratica danza con il sopra le righe con gusto?

 

Potete provare a fare il botto con un film ad alto budget e un ottimo cast - Jim Carrey, Jude Law e Meryl Streep, per citarne alcuni - ma floppare nella traduzione, portando in sala un film buono ma dimenticabile, sprecando la voglia di sorprendere, conformandosi a stilemi sbagliati, evitando di sfidare un pubblico già anestetizzato e al quale nessuno sembra saper parlare come si deve.


Incassare poco più di quanto investito, non ha aiutato la riuscita della saga o il suo possibile futuro.

 

 

 


Oppure, si fa quello che l'arte e gli artisti dovrebbero saper fare meglio di tutti: fare di una necessità produttiva, il basso budget e i pochi mezzi, virtù, copiando e riadattando da chi ti mette nel taschino e viene chiamato maestro visionario.  

 

Nel corso della totalità delle tre stagioni, lo show prodotto da Netflix mostra un carattere autoriale che molte delle opere teen o young adult, per inquadrare la categoria, non sono riuscite a portare sul grande schermo, perdendo non solo il favore del pubblico del cinema - Harry Potter sembra essere l'unica a resistere al tempo - ma mancando completamente la possibilità di migrare verso la televisione; ci hanno provato con la, disastrosa, serie Divergent ma fino ad ora è un progetto il cui status si potrebbe catalogare come Re-Animator.

 

Uno scenario terrificante, se ci pensiamo, visto che nel cinema contemporaneo, come nella televisione, sembra non esserci spazio per la narrativa per ragazzi ed è anche per questo che un nostalgia-product come Stranger Things, la summa di un periodo che ha creato le moderne basi di quel racconto, impazza nel cuore del pubblico, molto ampio per ovvie ragioni, come se tutto quel minestrone di idee fosse tutta farina dei fratelli Duffer.

 

 



Netflix, con Una Serie di Sfortunati Eventi, sembra non godere del budget necessario per realizzare la serie al suo massimo, ma sfrutta magnificamente ciò che ha e, tornando alla risposta di poco sopra, chi è il maestro delle storie idiosincratiche, delle messe in scena sopra le righe, della nostalgia di un qualcosa indefinibile e della tristezza romantica e stralunata?

 

Wes Anderson, chi se non altri.  

 

Il serial di Netflix si siede al banco della classe Wes Anderson 101 e guarda attentamente Grand Budapest Hotel, Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou, Moonrise Kingdom, Il Treno per il Darjeeling e utilizzando un po' del gotico di Tim Burton fonde la voglia infantile e l'estro di due registi che fanno della messa in scena una delle caratteristiche centrali del loro racconto, mood e sensazione, scrittura che diventa immagine, parte della storia e iconografia.

 

Una Serie di Sfortunati Eventi crea un luogo in un tempo che non è il presente, il futuro o il passato, mescolando stili barocchi, gotici e retrò, tra gli anni '20 di Gatsby e la visione estrosa di Wes Anderson di qualsiasi tempo e spazio.  

 

La terrificante vicenda degli orfani Baudelaire è un crescendo non solo di sfortunati eventi, ma di messaggi, sentimenti, un coro di personaggi assurdi impersonati da facce note, attori il cui funambolismo viene prestato alla penna di un narratore che vuole giocare, divertire e divertirsi.

 

I tratti unici dei personaggi sono uniti dal filo di arianna del racconto, ovvero l'estremizzazione di ogni sfaccettatura, riflesso poi nei costumi e nelle location costruite ad arte: si potrebbe ricordare Esmé Squalor e il suo attico barocco, gessato, cafone nel suo ostentato senso bazluhrmanniano, eppure ordinato; la banca grigia e squadrata di Arthur Poe, la villa burtoniana del Conte Olaf, un cattivo prima stilizzato in una figura retorica eppure destinato ad evolversi verso una sua complessità.  

 

 



Il cast diventa, ed è, di primaria importanza.

 

Se Olaf viene perfettamente inquadrato dalla voglia di trasformismo e dal carattere dinamico e giocoso di Neil Patrick Harris - aka Barney di How I Met Your Mother - altrettanto importante diventa Patrick Warburton nell'impersonare Lemony Snicket, la cui potenza scenica pettinata e composta unita a una voce perfetta per i toni del narratore - in lingua originale, of course -, contribuisce sin da subito a dare identità a tutto il contesto della serie.

 

La scelta degli orfani Baudelaire è vincente, il trio (Malina Weissman, Louis Hynes e la piccola Presley Smith) funziona in ogni inquadratura, soprattutto per come viene impostata l'interazione e la crescita della piccola Sunny.

 

 



L'intero casting sembra benedetto e anche i comprimari, come le comparse, riescono a lasciare una loro incisività, provocando un sussulto nel cuore dello spettatore.

 

Potremmo ricordare Joan Cusack, Don Johnson, Nathan Fillion nei panni di Jacques Snicket, Will Arnett, Peter MacNicol e molti altri, destinati a convergere nel crescendo che è il finale di stagione.  

 

Tutto il serial è costruito portando in scena le vicende contenute nei tredici libri della saga, con le dovute modifiche, calando lo spettatore in un racconto che va fuori ogni altro schema della televisione, sfruttando la fantasia narrativa dell'autore dei libri in ogni scelta, traducendola, come abbiamo visto, attraverso idee già rodate, seppur derivative della poetica di un autore ben riconoscibile.

 

I tratti di ogni personaggio, nella loro esagerazione, diventano come una canzone che ti fa alzare il volume, una ballata ritmata che non vedi l'ora di canticchiare, il ricordo di un libro letto così tante volte da essersi consumato, il costante senso di nostalgia per l’idea di avventura alla Tintin, un qualcosa di prezioso e al quale non affezionarsi risulta impossibile: come il rituale legarsi i capelli di Violet, elegante, ammaliante, tenero.  

 

 



Il risultato finale è una serie di forte carattere, divertente, avvincente e che trova nell'ultima stagione l'apice di una morale meravigliosa, capace di riflettere su come il bene e il male, quella netta distinzione che persino i ragazzi Baudelaire sembrano avere ben in mente fin dall'inizio, siano inscindibili tagli netti e squadrati.

 

Una Serie di Sfortunati Eventi vuole dirci che non esistono le semplificazioni, che anche i villain sanguinano, amano e sognano, impegnandosi in crociate motivate da bandiere che sta a noi riconoscere come impure e venefiche.

Vuole avvertirci su come anche le intenzioni più nobili possano rivelarsi disastrose, causa scatenante di una guerra eterna e dalla quale sottrarsi non è certamente una soluzione, ma una folle e miope alternativa alla vita che, in fin dei conti, va presa come una fantastica avventura. 

 

Una storia sulle generazioni in contrasto, incapaci di comunicare, condannando le nuove a rimanere senza voce per le incessanti richieste d’aiuto, disperate nella loro condizione di inascoltate, circondate da un mondo egomaniaco, chiuso in strutture incomprensibili anche a se stesso, impotente di fronte al male, fiaccato dai buoni propositi dell’animale sociale, distratto da se stesso e dalla presunzione di tramandare tutto e nulla d’importante, perdendo di vista ciò che servirebbe davvero.  

 

Un serial raro che, chiosando in un finale davvero senza mezzi ma con tanto cuore, porta allo spettatore uno dei momenti più memorabili, drammatici e dolci della storia della televisione, lasciando lo spettatore con una storia che porterà con sé per molto tempo. 

 

 

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1 commento

Troppo gentile, grazie mille. La serie ha fatto tutto il grosso del lavoro eheheh

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