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Curon - Recensione: Senza un carattere e senza un mito

Curon è la nuova serie italiana Netflix Original che promette di portare il pubblico in quella landa inesplorata, per la serialità italiana che è il mystery thriller, ma ci riesce davvero?

Curon è la nuova serie italiana Netflix Original che promette di portare il pubblico in quella landa inesplorata, per la serialità italiana, che è il mystery thriller: sarà riuscita la serie lunga sette puntate a trasportare il pubblico nel fascino suggestivo della cittadina sommersa e dei suoi misteri? 

 

 

Di cosa parliamo quando parliamo di Curon

 

L’introduzione di questa recensione mi vede davvero combattuto.

 

Sono piegato in un angolo buio del mio soggiorno con una playlist lo-fi e l’enorme disagio dato dal trovarsi a battere sulla tastiera parole riguardo un oggetto che non so propriamente gestire. 

 

Sono impacciato, ho le mani sudaticce, vibro così tanto da trovarmi quasi alle soglie dell’esperienza extracorporea e tutto è riconducibile alle peggiori delle prime volte, perché l’impresa mi vede costretto a trovare un modo per riassumere in due righe, che abbiano senso, il plot di Curon

 

Per sommi capi: Curon racconta la vicenda di una madre e dei suoi due figli che, per ragioni aleatorie, lasciano Milano per fare ritorno a Curon, luogo natale della protagonista e dal quale era scappata molti anni prima e che sembra nascondere oscuri segreti.

 

I ragazzi, ritrovato il nonno materno e catapultati in una nuova realtà, dovranno fare i conti con i misteri di una cittadina bucolica ma popolata da strane presenze. 

 

[Trailer di Curon]

 

 

Mi sono buttato nella mischia, ma sappiate che l’oggetto da me consegnatovi è comunque disonestamente informe.

 

Non è davvero quello che sembra e assomiglia alle istruzioni di una libreria Ikea inserite al posto di una guida all’utilizzo di una scatola rompicapo alla quale mancano dei pezzi, che ricorda vagamente un oggetto di design che gioca con il moto perpetuo. 

 

La ragione per la quale sono dissociato e alle soglie della pazzia, sta nel fatto che in realtà Curon è una storia di doppelgänger che per puro caso ha nel mezzo tutto quanto detto sopra, mettendo il cosa in cima, lasciando il come a un giro di dadi e facendo del contesto un guazzabuglio di soluzioni pescate da un lago popolato di pesci chiamati idee, stanati però con le granate e gettati in barca alla rinfusa. 

 

Mettere il cosa in cima, quando il cosa è un archetipo già visto, è di per sé un pessimo errore e annoierà una larga fetta del pubblico a meno che questo sia praticamente vergine del genere.

O di qualsiasi altra storia mai narrata.

 

Quando una storia aderisce già a un filone ben noto al pubblico, il che accade spesso visto che come ha ricordato anche il buon Teo le storie sono circa sette e poi si mescolano.

 

Il lavoro di un buon regista e sceneggiatore sta nel trovare un come che abbia un forte appeal e che possa declinare quel canovaccio secondo nuove vie, magari anche mescolando generi, tematiche e, come nel caso di un mezzo di racconto per immagini, escogitando espedienti di regia e messa in scena inediti per quel cosa già visto. 

 

Tornando alla mia confusione: da cosa si genera però la mia perplessità?

 

Cerchiamo di andare con ordine, poiché Curon, tra i molti archetipi dai quali pesca, deve la sua esistenza alla madre di tutte queste serie thriller/mystery, ovvero Twin Peaks

 

 

Eppure Curon, per toni, sembra anche volersi rifare alla serie TV Dark e nel trattare i doppelgänger strizza l’occhio a Noi di Jordan Peele o a La Metà Oscura di Stephen King, tanto quanto a un prodotto videoludico, di per sé molto derivativo da altre opere horror, quale Alan Wake

 

 

 

 

Non è una questione di mezzi

 

Il grosso problema delle produzioni italiane, da sempre, è la voglia e la possibilità di mettere a disposizione dei creativi il potenziale di mezzi che, come dimostra la storia del nostro Cinema, potremmo utilizzare con sapienza. 

 

In Italia non mancano gli attori. 

Non mancano gli sceneggiatori e i registi.

 

Non mancano le maestranze e non mancano nemmeno le location e per chi vi scrive, considerando la bellezza di certi paesaggi e di certi mari, si potrebbe persino girare una storia di pirati da fare invidia a Hollywood. 

 

Quello che manca è la volontà di farlo e l’ambizione di un produttore. 

Netflix ha dato a Curon tutto quanto necessario per mettere in scena una storia di tutto rispetto e su un livello puramente tecnico la serie ha una production value invidiabile. 

 

I boschi, l’hotel, e più ampiamente il fascino suggestivo delle varie location mostra tutto il potenziale che offre il territorio italiano e di come questo possa piegarsi alle fantasie dei suoi autori. 

 

Il problema riscontrato nel pubblico quando guarda certe produzioni sta nel malriposto utilizzo del potenziale e non tanto nel suo valore. 

 

Sfortunatamente però la production value invidiabile è quanto di positivo si possa dire riguardo la serie, perché a eccezion fatta dei mezzi messi a disposizione tutto il resto è drammaticamente sbagliato. 

 

 

[Da sinistra a destra: Valeria Bilello, Federico Russo, Margherita Morchio: i principali protagonisti di Curon]

 

 

La poetica del doppelgänger nello studio delle piccole comunità 

 

Come anticipato in apertura, Curon è figlio di diverse influenze e fa del doppelgänger la base del suo racconto, riportandoci a una poetica che conosciamo abbastanza bene. 

 

Per David Lynch i doppelgänger sono un espediente utile a raccontare l’eterna lotta tra le forze del bene e del male, facendone metafora delle sue credenze spirituali e delle sue convinzioni riguardo le meccaniche che governano l’universo. 

 

In Twin PeaksLynch non ha motivazioni politiche ma in un certo qual senso ci dice che l’oscurità che governa alcuni uomini è un elemento parte della natura e dell’universo e che sta ad altri uomini provare a combatterla. 

 

Per Stephen King, nel suo La Metà Oscura, romanzo trasposto al cinema da George Romero, il doppio si gioca su un piano puramente orrorifico. 

 

King e la sua narrativa da racconto dell’orrore attorno al fuoco, non ha molti misticismi e si basa su quel principio, tanto caro anche a John Carpenter, del Male in quanto forza puramente ancestrale, facendo della copia un riflesso distorto privo di empatia e umanità, ma pura tenebra generata dalle paure di un autore e dei sentimenti che lo hanno portato a sdoppiarsi, a creare un alter ego - incrociando un altro archetipo narrativo di stampo letterario. 

 

 

 

 

In quel meraviglioso film che è Noi di Jordan Peele, il doppelgänger è più sociale, non è opera di Dio o dell’universo ma elucubrazione dell’uomo a danno dell’uomo, inscenando un passo a due con un doppio che non è cattivo in quanto tale, ma in quanto corpo privato della possibilità di avere un’anima, costretto più che altro a muoversi come una marionetta e riproducendo dalle tenebre comportamenti per osmosi, senza mai scoprirne il seme che li rende umani.

 

In Alan Wake, incrociando Stephen KingDavid Lynch Bret Easton Ellis, il mito dello scrittore e del suo doppio si unisce alla voglia di piegare la realtà, rievocando forze soprannaturali e mettendo al centro la capacità di un autore di definire i confini tra Bene e Male, realtà e finzione, con logiche quasi lovecraftiane - c’è un po' de Il Seme della follia di John Carpenter, in certe soluzioni.

 

In Curon il tema del doppio non ha davvero una connotazione orrorifica definita, evocando il primo grosso problema della serie: la definizione del cosa si sta raccontando. 

 

Lungo tutta la serie il doppio non ha derivazione cristiana, non ha derivazione scientifica, non è mistico, non è regolato da tragedie, non ha senso sociale, ma esiste perché deve e dimentica anch’esso di avere uno scopo, una natura o una sua anima all’interno della storia dell’orrore. 

 

Il doppio è semplicemente un doppio che si risveglia per ragioni oscure e, a capriccio di sceneggiatura, decide di comportarsi secondo un’inclinazione piuttosto che un’altra, ma in tutto questo lo spettatore non ha davvero elementi per capire cosa sia e a quale impulsi risponda. 

 

Ora ha sviluppato umanità, ora non ne ha.

 

Ora è disumanità e terrore, ora è empatia.

 

 

 

 

In aggiunta a tutto ciò, la serie Curon dimentica di definire un contesto del racconto, manovra che si rende necessaria nel momento in cui viene fatta la scelta di ambientare l’intera vicenda nel luogo Curon, rendendo il dove e le sue suggestioni elemento fondante del mistero e della genesi dei doppelgänger. 

 

La serie suggerisce grossa rilevanza alla location, ma non definisce mai la poetica da studio delle piccole comunità e dimentica, considerando come il prodotto sia Netflix Original e quindi destinato a un pubblico internazionale, di raccontare cosa è Curon, quali sono le sue suggestioni reali, culturali, storiche o da credenza popolare, lasciando che sia il pubblico a riempire questa enorme lacuna con la propria cultura a riguardo. 

 

Sia chiaro: non era necessario inscenare un Mela Verde dedicato a Curon, e non ci si aspetta di avere una fedele trasposizione dei fatti storici, ma indipendentemente dal fatto che sia luogo di finzione o una base reale per creare altro, il luogo va definito e veicolato al pubblico. 

 

Questa lezione nel campo del mystery/thriller è stata data alla fine negli anni '80 quando Mark Frost e David Lynch hanno creato quel microcosmo che è Twin Peaks

 

I segreti di Twin Peaks e l’omicidio di Laura Palmer diventano tanto potenti quanto affascinanti proprio per via di una forte caratterizzazione della cittadina e dei suoi abitanti, facendo di ognuno di loro un tassello importante della storia e mettendoli al centro di trame principali e sottotrame che convergono verso la grande domanda che regge la serie e che spingono il pubblico a trovare dei propri beniamini o a riconoscere nella descrizione della serie uno spaccato della società bucolica americana dell’epoca. 

 

 

 

 

In Curon nulla è davvero raccontato e la cittadina è un archetipo narrativo senza personalità che dovrebbe reggere un mistero che però non viene mai sollevato verso il pubblico e che non ha davvero una risposta, poiché anche le questioni più basilari, come le ragioni dietro il ritorno a Curon della protagonista e i suoi conflitti, non vengono mai definiti. 

 

Tutto è vagamente accennato, molte situazioni sono ambigue e Curon diventa prima di subito un racconto privo d’identità e sostanzialmente una storia vogliosa di riprodurre le molte influenze che lo hanno ispirato, ma dimenticando di definire quale fosse il suo scheletro narrativo e come vestirlo, lanciando allo spettatore una manciata di riferimenti e strizzatine d’occhio. 

 

Gli autori hanno sostanzialmente riproposto molti stilemi del mystery/thriller presi qua e là, ma risulta alquanto chiaro che non ne hanno compreso le funzioni al servizio della delineazione dell’universo narrativo.

 

Senza entrare nella zona spoiler.


Creare un proto-Bobby Briggs senza aver compreso la funzione di quel personaggio, sia nella vicenda che nella sua utilità di colore a descrivere una sfaccettatura della cittadina rurale tutt’altro che innocente sia nel suo rapporto con il mistero principale e con quelli secondari collegati a esso, serve solamente a mettere in campo un guscio vuoto, una copia carbone bidimensionale la cui volontà è trascinata dal vento che smuove la sceneggiatura in un momento piuttosto che in un’altro.

I tanto pubblicizzati incubi, le ombre, gli omicidi violenti e i segreti di Curon, non esistono e sono appannaggio utile al trailer.

 

Lo storytelling non ha carattere, non evoca nello spettatore nulla di familiare, non ha contesto, non ha sostanza e ha la pretesa di dare per scontate cose che, in realtà, non lo sono affatto. 

 

 

[Ritratto di famiglia in Curon]

 

 

Scrivere per scrivere

 

Curon, da questo difetto congenito alla base, nel suo non saper cosa raccontare e soprattutto senza definire un come, genera un effetto domino che abbatte ogni altro tassello che forma la narrazione. 

 

La scrittura è quindi il vero assassino di questa serie, poiché il timoniere di questa nave creativa è ubriaco e si è convinto di poter violare continuamente ogni regola definita non dalla nostra realtà, ma dalla sua stessa scellerata guida. 

 

Nella finzione la realtà è data non dalla nostra, ma dalle regole che la sceneggiatura da allo spettatore. 

 

Se un racconto ti dice che un personaggio porta l’apparecchio acustico ed è soggetto a debilitazioni anche comportamentali, non può essere lui in ben due occasioni a risolvere uno sbocco narrativo grazie a un indizio uditivo, a meno che questo come il Gordon Cole di Twin Peaks non abbia uno strano aggeggio che gli consenta di aumentare a dismisura la sua percezione dei suoni.

 

Se un racconto ti dice che i doppelgänger sorgono da un lago vestiti esattamente come i loro doppi, non puoi qualche episodio più in là farli sorgere ignudi come un T1000 in Terminator.

 

Men che meno puoi nuovamente rimangiarti la tua decisione qualche episodio dopo e ancora meno puoi ridefinire a capriccio di sceneggiatura gli equilibri di vita e di morte che regolano alcune dinamiche. 

 

 

 

 

In Curon la sceneggiatura è una bandiera di pezze che sventola assecondando gli umori del vento e quando racconta lo fa in maniera lacunosa o tradisce le sue stesse regole e quando non racconta lascia enormi buchi che non aderiscono al fascino del mistero non spiegato, ma alla pigrizia nella definizione di ciò che si vuole narrare. 

 

Non c’è una ricerca di stile. 

Non c’è una identità autoriale. 

Non c’è la voglia di creare un universo orrorifico originale arricchito dalla lore e dai dettagli inseriti in scena, ma una sommaria vacuità del plot. 

 

Non c’è un personaggio di carattere. 

 

Non c’è davvero un conflitto tra i personaggi, le antipatie e le simpatie sono mal raccontate, accidentali o del tutto lasciate al caso e molto spesso i dialoghi hanno la maledizione di essere semplicemente mal congegnati. 

 

 

 

 

Ci pensa la direzione artistica… o forse no

 

Il guazzabuglio di invettive e idee privo di forma a dominare la narrativa di Curon complica poi il lavoro di tutti gli altri reparti, soprattutto quello artistico, che non sembra mai prendere il comando della situazione. 

 

Una delle regole del racconto per immagini dice che una brutta sceneggiatura affidata a un bravo regista può diventare un buon film o addirittura un cult. 

 

Viceversa un’ottima sceneggiatura affidata a un regista cane può cadere nel vuoto e sprecarsi. 

 

Prendete il Superman di Richard Donner del 1978.

Siamo nel 2020 e a mio avviso rimane ancora il miglior film di Superman mai girato - a patto che abbiate l’intelligenza di perdonargli gli effetti speciali datati… qualora non ci riusciate rispondete a questa domanda: la mucca fa? 

 

Quel film del 1978 è davvero ingenuo.

Pensate che Superman riavvolge il tempo volando a tutta velocità attorno alla terra, invertendone la rotazione. 

 

Una scena ridicola eppure una delle scene più belle, romantiche e potenti del cinema di eroi - non di supereroi: di eroi - e tutto grazie alla regia, alla costruzione del dramma e alla messa in scena di quel grande regista che è Donner

 

 

 

 

Richard Donner ha saputo girare tutto e ogni sceneggiatura finita tra le sue mani è diventata un buon film o in alcuni casi un grande film.  

 

Curon non è altrettanto fortunato e si prende anche la libertà di cadere in qualche errore di grammatica e oltretutto non riesce mai davvero a dare una direzione artistica che aiuti il cast.

 

Ho la forte sensazione che il cast fosse in un territorio sconosciuto. 

Questo tipo di produzioni non è propriamente lo standard italiano e Curon ha di per sé una sceneggiatura bislacca al punto da essere più sbadata di Pippo alle Olimpiadi. 

 

Il cast, che risponde davvero male in ogni scena, sembra affidato alla corrente, lasciato in balìa della propria personale sapienza recitativa e nessuno sembra davvero calarsi nel racconto, perché ognuno sembra lavorare nel suo senza davvero stabilire una connessione con i comprimari o con il contesto. 

 

In questo modo delle scene già mal ideate diventano ancora più involontariamente comiche, portando alcuni caratteri a comportarsi in modo sinistro senza senso.

 

 

 

 

Le scene d’azione sono goffe e la scelta delle musiche sembra affidata al caso o alla convenienza di cavalcare il presente, portando il potenziale parodico di Curon a esplodere.

 

Quello che chiameremo il M¥SS KETA Incident, causato dall’inserimento di una delle canzoni dell’artista in un momento totalmente randomico, è stato uno dei momenti più involontariamente comici che ricordi nella recente storia della televisione.

 

Poco importa che la storia abbia la pretesa di diventare un teen thriller, altra lettura che non è ben chiara fin dall’inizio: quel momento, come altri, è talmente buttato nella mischia da fare il paio con una scena di sesso abbastanza gratuita, una scena di masturbazione seguita da un dialogo che va oltre l’innaturale e una sequela infinita di azioni, reazioni umane ed elementi di causa/effetto talmente male ideati da confondere anche lo spettatore più attento. 

 

In soldoni, la direzione artistica non aiuta a sistemare i problemi di sceneggiatura di Curon, gettando piuttosto benzina sul fuoco e continuando a sprecare le possibilità date dai mezzi messi a disposizione da Netflix, pur portando a casa una buona gestione degli ambienti e una regia che costruisce alcuni bei quadri.

 

 

[Luca Lionello è Thomas Raina, custode dei misteri misteriosi di Curon]

 

 

Una questione di ritmo

 

Nel thriller e nel mystery non c’è davvero dell’azione.

 

La gestione del ritmo in questo tipo di racconto passa come una curva che da un ritmo pacato e tranquillo crea un lento crescendo verso un picco, per culminare con un forte accadimento per poi lentamente tornare giù, e poi ripetere questa forma a velocità alternate. 

 

Curon, per qualche ragione, parte con un ritmo indiavolato e cerca costantemente di creare una certa tensione fin dall’inizio, allo scopo di tenere il racconto sul filo, ma senza poi sfociare davvero in qualcosa. 

 

La gestione del ritmo è totalmente sbagliata e anche tra le puntate non vi è davvero un cliffhanger o un evento a tenere il pubblico sospeso riguardo un evento. 

 

Non c’è nemmeno la linearità à la The Return o à la Too Old To Die Young, nei quali si cerca sostanzialmente un lungo film spezzato in puntate, ma una serie priva di ogni vera tensione la cui costruzione passa per espedienti artificiosi - come l’uso della musica o la voglia d’insistere sul fare sinistro di personaggi che sinistri non sono. 

 

Curon, come detto in apertura, non pone davvero dei misteri da risolvere e quando pone delle domande la risposta è davvero ovvia o completamente accessoria; tutto quello che invece vorremmo sapere non è nemmeno in sceneggiatura, costringendo quindi il dipartimento artistico a creare artificiosamente la tensione con dell'altro. 

 

Eppure è piuttosto palese che non sta succedendo e non succederà nulla e che tutta quella storia dei lupi è una linea di dialogo trovata molto accattivante da qualcuno e inserita qui e là con qualche richiamo visivo, al fine di scimmiottare altre opere e le molte influenze che circolano nella testa dei creatori. 

 

 

 

 

Quindi Marlena è tornata a casa, ma era un doppelgänger

Arrivare alla fine di Curon è stato sorprendentemente facile.

 

La serie scivola via ma allo stesso modo non lascia nulla, se non lo stupore e lo sbigottimento per la resa sommaria di uno show che non ha né capo né coda e che non ha davvero alcun punto positivo che non sia l’investimento di Netflix, l’idea di base di portare il nostro paese in una direzione a lui sconosciuta - nella storia recente, poiché questo genere in passato si è portato a casa, al Cinema - e un minimo di ricerca visiva a valorizzare il potenziale del territorio italiano, ricordando che in fondo siamo noi stessi a mettere alcuni paletti alle produzioni realizzabili e che con qualche sforzo maggiore ci si potrebbe discostare dai soliti prodotti legati alla criminalità organizzata. 

 

Curon è un prodotto disonesto verso il pubblico e verso se stesso e che non ha sale, non ha mito, non ha carattere, non ha originalità, che sembra nelle intenzioni voler tornare per una seconda stagione e che quando copia non riesce nemmeno a farlo molto bene. 

Curon Curon

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