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His House - Recensione: memorie dei morti nella terra dei vivi

L'horror scritto e diretto da Remi Weekes è arrivato su Netflix conquistando la nostra attenzione 

His House è un film horror scritto e diretto da Remi Weekes e tratto da una storia di Felicity Evans e Toby Venables.

 

Arrivato su Netflix in periodo di Halloween il film ha conquistato la mia attenzione.


His House racconta la storia di due immigrati fuggiti dal Sudan del sud, interpretati da Wunmi Mosaku e Sope Dirisu, il cui inserimento nella società Inglese, guidato da Matt Smith, viene messo alla prova dai fantasmi della loro fuga.


Cosa rende affascinante e particolarmente terrificante il film di Remi Weekes?

 

His House His House

Ognuno ha i propri fantasmi

Chi scrive è fortemente convinto che il Cinema di genere, quando ben fatto, sia in grado di comunicare con molta più potenza di quanto possa fare mai un genere “elevato” quale il dramma.


Lo credo poiché il campo creativo nel quale ci si muove permette al regista l’utilizzo di strumenti di messa in scena e scrittura molto più ampi e stimolanti, per il pubblico tanto quanto per lui stesso.

Entrando ancora più nello specifico, il filone orrorifico permette di sezionare la realtà per scoprirne ogni nervo, rimescolando le carte della razionalità e mettendo il pubblico dentro una storia dove le regole della finzione possono piegare una storia umana fino a estremi allegorici così sopra le righe da lasciare una cicatrice indelebile.

Lo sapeva H.P. Lovecraft, lo sapeva Richard Matheson, lo sa Stephen King, lo sa David Cronenberg, lo sa David Lynch, lo sapeva George A. Romero e sembra saperlo benissimo Remi Weekes.

 

 

[In Fuoco cammina con me la realtà è piuttosto relativa ed esiste unicamente a macchie: più si segue Laura Palmer e più si destruttura]

 


His House, al suo cuore, è una storia di fantasmi e, considerando il tempo presente, sembra opportuno ricordare come i fantasmi non siano quelle presenze che fanno capolino da dietro gli stipiti delle porte e nemmeno quei buontemponi che si divertono a camminarci alle spalle con un cappuccio da trapper di San Donato Milanese o sbattendo due credenze nel tinello.


Il fantasma, come molti altri mostri del genere horror, è un artificio molto intelligente per rappresentare qualcosa che torna a tormentarci.

Astrazione dei nostri lati peggiori, delle nostre condotte deprecabili, dei turbamenti connessi a qualcosa che ha generato in noi un profondo senso di colpa.

Motivo per il quale si dice: “ognuno ha i propri fantasmi”.

 

Ognuno di noi, chi più chi meno, cela qualcosa di moralmente discutibile che ogni tanto lo pungola nello spirito, facendolo piombare nel peggiore dei luoghi. 

 

 

[In Ghost Stories ci sono distese campagne inglesi, silenzio, racconti urbani, ma in His House siamo in un incubo ben diverso, tribale, onirico]

 

 

Non siamo in un film della Hammer


Siamo in inghilterra, ma non siamo in un film della Hammer e in His House, parlando di rifugiati provenienti dal Sudan del sud, il concetto di fantasma viene traslato verso una radice culturale ben diversa rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare dopo i primi minuti di film, aprendo a uno scenario terrificante e balsamo di un genere maldestramente abusato.

Ci troviamo in un contesto culturale dove lo spirito si allontana dalla sua concezione cristiana per incarnare forze oltre, qualcosa di ancestrale che vive su un diverso piano dell’esistenza e che con gli umani e le loro sorti e le loro azioni ci gioca e vi si lega, prendendone forza.

Il film, partendo dal concetto alla base della storia di fantasmi, racconta una realtà granitica per poi di minuto in minuto disgregarla completamente.

His House parte quindi con una stramba pacatezza, generando una lieve tensione che poi sale costantemente, diventando nel giro di una manciata di minuti un fremito perenne all’interno della narrazione, un terrore continuo che va a permeare ogni scena del film.


La percezione della realtà dei due protagonisti si sfalda e ogni cosa che vediamo, da un momento all’altro, potrebbe diventare l’astrazione di un incubo, il viaggio onirico dentro un ricordo corrotto da sangue e morte, un terrore notturno dal quale nemmeno il risveglio li può davvero mettere al sicuro.

 

 

His House His House


Il pregio di His House risiede proprio nel non dare mai totalmente aria alla storia, lasciando un senso di orrore anche alla luce del giorno, in una strada di quartiere, rievocando la bambina con la palla di Mario Bava.

Contrariamente a quanto fatto in altre opere recenti, per quanto apprezzabili, in sceneggiatura si sceglie di non separare il racconto umano dal racconto horror.


Il regista sceglie di opprimervi, terrorizzarvi eliminando il dramma, in quanto genere “alto”, per declinarlo attraverso un racconto dell’orrore, comunicando tramite esso e mantenendo uno scheletro narrativo di ferro.

Pensiamo a un preciso status quo.

Siamo sicuri di cosa sia la verità e di chi siano i nostri personaggi.


Veniamo portati a pensare che l’incubo sia esterno, che opprima i protagonisti come in un film dalle logiche carpenteriane, ma tutto questo viene ribaltato e quello che crediamo di sapere viene snodato affondando in un denso e freddo mare nel quale i pesci hanno lasciato spazio ai morti.

La narrativa vuole togliere di mezzo l’equivoco per farci pensare che il film parli di noi, trascinandoci in situazioni che ci faranno abbracciare dei protagonisti così distanti da noi.

Loro sono il centro narrativo.


Loro sono i protagonisti dell’incubo e noi siamo una nota a margine. 


Seguendo i due protagonisti di His House diventiamo preda di un terrore notturno senza soluzione di continuità, intrappolati nella fase REM di un sogno lucido nel quale la realtà, in quanto porto sicuro, è una breve illusione interrotta senza preavviso da raggelanti esperienze.
Una dimensione le cui regole di logica degli eventi sono piegate dalla dittatura di uno spirito che vuole convincerci a cedere ai peggiori richiami di una mente martoriata dall’orrore.

In questo senso, Remi Weeker utilizza una regia morbida, quasi a cercare l’invisibilità, utile a fondere la realtà dei personaggi ai viaggi onirici dentro gli incubi, utilizzando i movimenti di macchina fluidi per seguire i personaggi e spostarli altrove, raccontando il passato ma anche le paure e i traumi dei protagonisti.


His House diventa quindi un horror dell’anima dove i fantasmi plasmano la realtà per diventare, con il loro carico di presagi di morte e sensi di colpa, la faccia oscura della luna dalla quale non riusciamo a evadere.

 

 

His House His House

La realtà, per noi spettatori come per i protagonisti, diventa sempre più sottile rispetto all’incubo; quando pensiamo che sia tutto finito l’orrore prosegue, eliminando la possibilità di trovare appiglio in qualcosa di concreto o forse in quel ritmo da spavento fulmineo al quale il Cinema peggiore ha abituato il pubblico, cercando qui di fargli male piuttosto che farlo divertire.

His House è un film brillante nel mettere in scena l’incubo di un migrante in fuga da un paese in guerra, spostando la discussione sul veicolare l’incubo e i traumi di chi deve fare quel viaggio, portando allo spettatore un film ansiogeno e violento, sia nel dipingere la realtà che la fantasia che permea gran parte della narrazione.

Sostanzialmente His House è un film che esplora dei traumi che conosciamo tutti molto bene, se abbiamo mai parlato con i nostri nonni o con una certa generazione, scavando in tutte quelle azioni alle quali siamo spinti in situazioni estreme e che, in realtà, non ci abbandonano mai, condannandoci alla memoria eterna.  

His House è quindi a mio avviso una pellicola straordinaria che sfrutta bene la regia per dare un dinamismo sorprendentemente utile al carattere del film e alla poesia del terrore, veicolata facendo del fantasma un tormento che destruttura le nostre sicurezze, per calarci con i protagonisti in un incubo a occhi aperti.

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