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Cleo dalle 5 alle 7: l'Odissea parigina firmata Agnés Varda

La vexata quaestio dell'esistenza, in due ore pomeridiane

 

Cléo: ''C'est juste pour avoir une photo à montrer que vous m'avez abordée ? Vous êtes collectionneur, peut-être photomane!''

Antoine: "Et vous mélomane. Pas celle qui aime la musique, celle qui aime le mélo. Et de mauvaise foi en plus. Si je vous demande simplement de me donner une photo en vous avouant que je suis capable de vantardise, il faut simplement que vous soyez contente.

Même les grands sentiments sont farcis de petites vanités. Et les grands esprits de sottises."

 

Cléo: "Mi ha forse abbordata solo per avere una fotografia di cui vantarsi? Lei è un collezionista, un fotomaniaco!"

Antoine: "E lei una maniaca della musica. Ma non di quelle cui piace la musica, di quelle che s’innamorano della melodia. E di malafede e d’altro ancora. Se le domando semplicemente di regalarmi una foto e le confesso che potrei vantarmene, dovrebbe solo essere felice.

Anche i grandi sentimenti sono pieni di piccole vanità. E i grandi spiriti di sciocchezze."

 

[Trailer internazionale di Cleo dalle 5 alle 7]

 

 

Considerata universalmente uno dei lavori chiave dell’opera di Agnès VardaCleo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7) è un racconto delicato e penetrante che vaga nella psiche della giovane cantante Cléo Victoire, seguendone passo dopo passo l’evoluzione nell’arco di sole due ore (dalle 5 alle 7, appunto).

 

Tutta la pellicola, difatti, consiste nella narrazione cronologica di queste due ore pomeridiane del solstizio d’estate, in cui la smarrita protagonista Cléo (una bellissima Corinne Marchand, che a tratti ricorda la Lolita di Stanley Kubrick, ironicamente anch’essa del ’62) vagabondeggia per una Parigi caotica, alla ricerca di una serenità che ha perso di fronte alla paura della morte presentatasi sotto la forma di una potenziale malattia, il cui esame diagnostico attende per fine giornata.

 

Dalla visita disperata al cospetto di una cartomante fino all’arrivo in ospedale, l’angoscioso percorso di Cléo è presentato ininterrottamente, senza ellissi, rendendo il film allo stesso tempo documentaristico e soggettivo.

Le strade e i caffè parigini, i tragitti in taxi, i parchi, i negozi: in Cleo dalle 5 alle 7 tutti sono esposti sia per come sono realmente - in una concezione realistica che colloca la Varda tra i più influenti esponenti della Nouvelle Vague - sia attraverso la lente personale della protagonista, che, superstiziosa e naturalmente pessimista, scorge ovunque segnali funesti.

 

Ancor più terrificante è il muro emozionale che la paura erge tra Cléo e i suoi più cari affetti, i quali vengono rigettati quasi istericamente in un crescendo di incomunicabilità antonioniana, sino al momento della sostanziale salvezza, del rilascio, della libertà, realizzata proprio attraverso il catartico superamento del muro. 

 

 

[Corinne Marchand in un frame di Cleo dalle 5 alle 7]

 

 

La fotografia, nelle mani dell’amico Jean Rabier, è mirabile e direi assolutamente straordinaria per la difficoltà d’esecuzione delle rocambolesche riprese urbane, in particolar modo alla luce della tecnologia a disposizione a inizio anni '60.

 

Scelte curiose come l’iniziale switch da colore a bianco e nero, il film-within-the-film con il cameo dell’amico Jean-Luc Godard e le funamboliche cornici del traffico cittadino di Parigi testimoniano lo sperimentalismo di una regista che, si percepisce, aveva l’intenzione d’impressionare.

Ci riesce, in particolare con un paio di meravigliosi close-up destinati a rimanere sulle locandine delle rassegne dei cinema più nostalgici.

 

Coerentemente con l’intento e con la provenienza artistica della Varda, la scenografia sobria è meno appariscente, meno manifesta, ma altrettanto efficace nel palesare le prerogative stilistiche che per molti versi differenziano l’autrice dal proprio ambiente di riferimento.

Nello specifico, è apprezzabile un intento elegantemente simbolista in elementi di scena quali l’enorme asettico appartamento di Cléo, o le sculture astratte, o ancora le infauste maschere africane, che hanno evocato in me la sequenza della danza tribale presente nell’Eclisse di Michelangelo Antonioni… del ’62, di nuovo (non malaccio come annata, direi).

 

Allo stesso tempo, comunque, è chiaramente ravvisabile in Cleo dalle 5 alle 7 l’impegno avanguardista di dipingere la realtà caotica della capitale francese nella maniera più autentica e oggettiva possibile, immersa nella quotidianità e nel divenire e dunque lontana dalla staticità esibita e artefatta emblematica del cinema classico.

 

 

[Corinne Marchand e Dominique Davray in una scena di Cleo dalle 5 alle 7]

 

 

Cleo dalle 5 alle 7 è un film coraggioso e intraprendente, che fa dell’istinto immaturo e capriccioso di Cléo, palpabilmente impreparata ad affrontare un travaglio simile, uno scandaglio dell’esperienza umana nel senso più ampio.

 

Se gli si dovesse affibbiare un’etichetta probabilmente si finirebbe per definirlo un pellegrinaggio esistenziale, una quaestio sull’effimerità della vita, eccetera.

Tuttavia io credo sarebbe un giudizio approssimativo, perché il film della cineasta francese trascende le problematiche comuni agli autori dei Cahiers du Cinéma e si spinge oltre, verso una poetica personale ed estroversa.

 

Agnès Varda con Cleo dalle 5 alle 7 ci consegna una perla assoluta, capace di conciliare i temi cari al milieu artistico della Nouvelle Vague (in sintesi: la finitudine, l’isolamento, l’indifferenza) con un’incredibile versatilità narrativa ed una dignità estetica delle riprese in grado, a tratti, di far trattenere il fiato.

 

 

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