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In coda da più di un'ora all'anteprima mondiale di Joker conosco istanti di vera tensione quando i responsabili di sala serrano i cancelli, a non più di quindici persone dal mio turno, per controllare se c'è ancora spazio nella splendida Sala Darsena da più di 1400 posti.
Sono conscio di dover tornare a casa in tarda mattinata e che per me questa è l'ultima occasione.
L'agonia si ripete quando di persone ne mancano sette, poi quattro, poi due, poi con me da solo davanti alle transenne, mentre vedo espressioni preoccupate e arrese che si cercano l'un l'altra.
A un certo punto una speranza: gli zelanti responsabili della Mostra di Venezia si intrufolano nella sala ormai buia per scovare chi avesse appoggiato il suo zaino nella poltroncina a fianco, il disperato tentativo è riempire l'anteprima di Joker fino all'ultimo posto.
Ed è così.
Vengo condotto fra le prime file dove mi è stato trovato uno dei pochissimi sedili vuoti rimasti.
Almeno un centinaio di persone dietro di me non potranno entrare.
Esistono molti criteri per stabilire l'importanza di un'opera e del suo creatore.
Uno di questi, il mio preferito, confronta la grandezza di un individuo all'interno della Storia della Cultura in modo direttamente proporzionale all'influenza che ha esercitato sui posteri e, più precisamente, sul suo ruolo nella ridefinizione delle regole del linguaggio nel quale si va ad inserire.
Wolfgang Amadeus Mozart ha fatto scuola, ha generato epigoni e ha dato una svolta al linguaggio musicale; questo fa di lui un grande.
E questo fa di Quarto Potere un capolavoro, per dire.
Esistono capolavori assoluti che seguono una regola di preminenza temporale - chi ci è arrivato prima è più lodevole - ed altri relativi alla propria sotto-sezione di influenza.
Riguardo ai minori fra i due voglio cominciare ricordando una cosa.
L'estate di undici anni fa superava l'incredibile cifra di un miliardo di dollari il film Il cavaliere oscuro.
Undici anni dopo la sua fama non è stata oscurata da nessuna delle decine di pellicole a tema supereroistico che di lì in avanti gli sono succedute.
Trattenete questo riferimento, sarà utile in seguito.
Il Joker tornò allora ad affascinare la platea mondiale contemporanea.
Vale la pena di domandarsi perché.
Perché i clown ci fanno paura?
Paura, inquietudine, allerta... potremmo continuare con i sostantivi se non ne esistesse uno sorprendentemente calzante coniato da Sigmund Freud: perturbante.
Per il padre della psicanalisi, perturbante è la sensazione di confusione angosciata che segue il riconoscimento di una situazione o un ente come familiare ed al contempo estraneo.
Una maschera non suscita un simile sentimento perché difficilmente sarà giudicata in termini ambigui, significa infatti esattamente ciò che mostra.
La maschera cela e perciò intriga o insospettisce, ma è incontrovertibile.
Perturbante è per noi ciò che suscita un dualismo affettivo di attrazione e repulsione.
Un sorriso esasperato su di un volto severo o neutrale, i colori del trucco contrastanti, una risata incorniciata da lineamenti tesi e scavati, e naturalmente azioni e motivazioni imprevedibili e inaccettabilmente logiche: ecco cosa dona al Joker quello spessore che ci conquista.
Entro nel cuore del commento e chiarisco subito che Joker non ha a mio avviso la caratura del film di Christopher Nolan, e questo anche perché le premesse sono significativamente diverse.
Là dove infatti il primo comprendeva una trama multistratificata secondo il gusto del suo creatore, e riferimenti precisi allo stato di diritto statunitense in pieno assetto antiterroristico e scosso dai provvedimenti del Patriot Act, il secondo non abbandona praticamente neanche per lo spazio di un'inquadratura il suo protagonista e su quello si concentra.
Il montaggio degli eventi è oltretutto molto lineare nel Joker di Todd Phillips, così come l'insieme dei suoi significati: nulla di più di ciò che ci viene mostrato.
Termino così i doverosi appunti per entrare senza ulteriori indugi nel commento a un film, diciamolo subito, di fatto splendido.
"Gooble, gobble... Gooble, gobble... L'accettiamo, l'accettiamo... Una di noi, una di noi!" riecheggiavano i Freaks nel film del 1932.
Al cognome di Arthur difetta solo una "a" e qualche consonante perché gli cali addosso la stessa nomea.
Fleck lo è, un "freak", in una Gotham non piovosa e dove quindi abbonda sempre più quella "immondizia ammonticchiata" di bickleana (Taxi Driver) memoria.
Il capolavoro di Martin Scorsese così come il suo Re per una notte sono manifeste ispirazioni per Joker.
Valga anche solo la presenza di Robert de Niro nei panni di un presentatore televisivo di varietà, punto di condensazione di tutta la frustrazione di Arthur, indotto dalla madre al mestiere del comico, ma spettatore di reazioni perturbate in chiunque lo incontri.
L'uomo soffre di una patologia mentale il cui sintomo più invalidante sono gli scatti di riso spastico.
Non piange mai Arthur, e questo perché ogni stimolo amaro o stressante viene convertito dalla sua patologia in una risata soffocante.
Non piange mai e per questo tutti lo credono felice, più di chiunque altro la madre, pervasiva, hitchcockiana.
Nessun elemento della trama di Joker vi verrà anticipato: la visione del film sarà per chi legge una sorpresa da godere a sua volta.
C'è tuttavia molto da dire: Joaquin Phoenix, ad esempio, giganteggia per ogni singola inquadratura di Joker.
La sua bravura è francamente abbacinante.
Certo che nella versione italiana non doppieranno le sue risa, suggerisco tuttavia a chi ne avesse la possibilità di godere della sua performance originale che, pure, non si limita alla vocalità, ma comprende anzi un esercizio di stile sulla totalità del suo corpo e sugli svariati movimenti di questo nello spazio.
Il suo caratteristico sguardo umido e i suoi tratti arcigni che avevamo imparato ad amare nella prova attoriale capolavoro in The Master vengono qui sostenuti da una plasticità delle membra e del dorso che lascia esterrefatti.
Il suo Joker è perturbante perfino nella gestualità: scrive con la mano destra, spara con la sinistra e fuma alternativamente con l'una e l'altra.
Le scenografie del film e la sua fotografia - rispettivamente in mano a Mark Friedberg e Lawrence Sher - incorniciano adeguatamente il punto nevralgico dell'azione, costantemente in mano all'attore.
La macchina da presa passa da carrelli a riprese con la macchina a mano, sprecandosi in numerose inquadrature dal basso; come dal basso è ripresa la camminata (e non solo) del Joker su di una scala in periferia, uguale in tutto e per tutto a quella famosissima del film L'esorcista - situata, per i più curiosi, al numero 3600 di Prospect Street, a Washington.
La colonna sonora - curata dalla compositrice Hildur Guðnadottir, già violoncellista per Arrival, Revenant e Prisoners - presenta per la grossissima parte il timbro degli archi, nello specifico dei violoncelli.
Il tema principale di Joker è un continuo riarrangiamento di due note, il Re e il La, che erano poste in chiusura di molte delle sezioni sonore composte da Hans Zimmer per la trilogia dei Batman di Nolan.
Una coppia di canzoni dal significativo testo solcano la pellicola.
Gli appassionati delle opere dei creatori originari del personaggio sapranno senza dubbio apprezzarne i rifermenti, non sfuggono infatti quelli più smaccati al graphic novel Batman: The Killing Joke di Alan Moore.
Fare ridere il prossimo è una delle competenze sociali più basilari, volte all'abbassamento della potenziale aggressività e delle altrui difese al fine di aumentare le possibilità di essere accolti positivamente. Lo apprendiamo fin da bambini.
È per questo che "gobble, gobble.." Arthur, Joker, è "...uno di noi".
E i film su di lui difficilmente cesseranno.
Si è venuta a creare una sequela di attori ad altissima professionalità per animare il Joker.
Mai come dopo questo film il risultato sul miglior interprete sarà scontato. Una sequela, insomma, che non meno della figura stessa rappresentata è già fenomeno di culto.
E un culto costituisce un archetipo e un archetipo comporta che, in una certa parte, la cultura di massa abbia conosciuto un aggiornamento delle sue figure linguistiche di riferimento e del suo immaginario.
Ecco cosa fa di un personaggio motivo di profonde riflessioni di filosofia morale e filosofia politica.
Ecco come si genera quello che il mio amato Roland Barthes chiamerebbe "mito d'oggi".
Ecco perché il Joker è un personaggio-capolavoro.
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