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Il lago delle oche selvatiche - Recensione: un noir imperdibile - Cannes 2019

Dopo l'Orso d'Oro vinto a Berlino nel 2014, Diao Yinan porta a Cannes Il lago delle oche selvatiche, con in sala un inaspettato Quentin Tarantino

Dopo l'Orso d'oro vinto a Berlino nel 2014, Diao Yinan porta a Cannes Il lago delle oche selvatiche, con in sala un inaspettato Quentin Tarantino 

 

Figure scure si muovono tra enormi nubi di fumo bianco la cui presenza rappresenta un mistero tanto quanto la loro origine. Un cane sciolto scruta l'ombra scontornata con sospetto mentre ferito e con la mano resa viscida dal sangue afferra il calcio di una pistola, cercando il cane con il pollice per tirarlo all'attenti di un possibile agguato.

 

Una donna sinuosa e traditrice lo attira in un vicolo, nascosta da un trench stretto in vita.

Seguirla sarebbe avventato e stupido ma sempre meglio che cedere agli inviti di resa in formato calibro nove che la polizia continua a spedirgli alle spalle.

 

Un informatore smilzo reso sibillino dallo stuzzicadenti che ciancica tra i denti è l'anello di giunzione tra una serie di raggiri, tradimenti e doppiogiochismo.

 

 

 

L'intreccio si fa denso e sconclusionato da qualche parte tra due inviti fischiati alle orecchie, gli uomini di un gangster al quale il protagonista deve qualcosa, la donna in trench e lo stecco secco.

 

Il noir è un genere misterioso e affascinante sdoganato dal cinema americano, reso archetipico nelle fondamenta da leggendari da registi come Billly Wilder, Howard Hawks, Orson Welles e Fritz Lang e poi rimescolato da maestri moderni quali David Lynch, Michael Mann, i Fratelli Coen, Nicolas Winding RefnTom Ford o Christopher Nolan, capaci di avventurarsi nel neo-noir, contaminandolo con pennellate di horror, fantascienza, thriller psicologico, crime o dramma.

 

Un genere che se non fosse per un manipolo di coraggiosi cineasti, sarebbe ora, come si suol dire, più unico che raro; escludendo il sontuoso Animali Notturni di Tom Ford o il più recente Under The Silver Lake di David Robert Mitchell, nel recente passato il film più vicino al noir di stampo occidentale sarebbe Pokémon: Detective Pikachu.

 

Al Festival del Cinema di Cannes abbiamo avuto il piacere di calcare il rosso tappeto che conduce al prestigioso, quanto spettacolare, Grand Théatre Lumière per assistere alla prima de Il lago delle oche selvatiche, film scritto e diretto da Diao Yinan, già vincitore dell'Orso d'oro a Berlino con il suo Black Coal, Thin Ice.

 

 

 

 

Il noir costruito dal regista cinese abbandona le suggestioni dei fumi, delle donne sinuose il cui rosso delle labbra carnose si estende su affusolate sigarette, per abbracciare la caotica decadenza di quartieri criminali, di ladri di moto e motorini, di battaglie territoriali, di confusione sempre e comunque, di luci fluorescenti ad accendere vicoli disorganici eppure perfettamente inquadrati in quella composizione di ruggine, pozzanghere, accorpamento urbano selvaggio e vetrate lerce a nascondere incontri ai quali nessuno, oltre i partecipanti, dovrebbe assistere.


Le atmosfere de Il lago delle oche selvatiche raffigurano una Cina il cui crimine organizzato si regge su concetti di onore territoriale dove violenza genera violenza in eventi accidentali, casuali, involontari e le cui conseguenze riflettono il fallout di un domino apparentemente disordinato ma la cui geometria è paragonabile alle onde concentriche dell'ingegneria universale di un big bang umano.

 

 

 


Diao Yinan scrive un film il cui tono diventa sempre più grave e silenzioso con il passare dei minuti, nel quale la luce del sole illumina la superficie umida di un microcosmo senza regole, le cui rive vendono sesso e le cui acque ospitano gli umori opalescenti di clienti eccitati o semplicemente annoiati.

 

La notte si arricchisce di tagli di luce, ombre in fuga verso destinazioni sconosciute e delle quali non vi è davvero certezza di riparo, mentre anarchiche incursioni di disordinata azione stravolgono il placido contesto dello storytelling noir per immagini e suggestioni, proponendo la messa in scena di elementi classici del genere, sfruttando l'allungarsi delle figure proiettate da luci calde, rendendo gli scontri brevi, brutali e a volte pulp, cercando sempre di smorzare l'adrenalina, ricordando perciò la regola secondo la quale, nel noir, il ritmo non deve mai raggiungere l'apice.

 

 

 

 

L'intreccio, nella sua semplicità, si affida perciò allo storytelling visivo, impreziosito non soltanto dalla moderna concezione di messa in scena noir, quella del fluo à la Michael Mann, ma altrettanto dalla ricerca di movimenti di macchina magistralmente integrati a quelli dei personaggi, donando una fluidità di azione che vuole dare allo spostarsi dei caratteri in scena un'orchestrazione sinuosa, densa di tensione e mai artefatta.

 

Entrano i piani sequenza, la regia invisibile a dare risalto al nervosismo degli sguardi, dei pruriti compulsivi scatenati da minacce nascoste dall'ambiente affollato eppure quieto, affamando il mistero dei silenzi, dei languori e degl'inseguimenti dove l'inseguito non sa sempre bene da chi fugge ma si rende consapevole da cosa, messo in guardia, come lo spettatore, dal risuonare dei boati dei colpi di pistola.

 

Se ne Il lago delle oche selvatiche la polizia è l'anticamera della goffaggine - una forza dell'ordine che non sa sparare, marionetta dei giochi delle parti a schiacciare il protagonista in fuga - il sottobosco criminale prolifera e si sviluppa totalmente indisturbato grazie all'ecosistema di un Goose Lake dove sesso e decesso s'intrecciano in ogni scena nella quale questo è protagonista.

 

Un luogo che forse in passato ha provato a essere ritrovo e spensieratezza, il classico pier dove godere della goliardia di una destabilizzante sala degli specchi e delle arti mistiche, marginalmente rievocando e reinterpretando il gioco di riflessi e labirintico disorientamento de La signora di Shanghai di Orson Welles.

 

 

 

 

Diao Yinan sembra ispirato dal noir classico e nell'adattarlo alla sua Cina, all'invenzione di uno spazio indefinito, entra nei canoni di una storia apparentemente semplice il cui intreccio si annoda, snoda ed evolve attraverso punti di giunzione sfilacciati nelle dinamiche quanto negl'intenti, mettendo in moto gl'ingranaggi di una narrativa sconclusionata, la cui destinazione sarà agrodolce e brutale nella sua compagine amara.   

 

Allo stesso modo, le donne di questo film sono dark lady e white lady, luce e ombra bilanciate in quel concetto di yin e yang caro alla cultura orientale, stratificandosi in qualcosa di completamente inaspettato e deus ex machina del destino del protagonista, riscrivendo il ruolo di caratteri archetipici le cui intenzioni e azioni si alternano e mescolano tra luce e assenza di essa.

 

 

 

 

 Il lago delle oche selvatiche colpisce per la grazia della sua regia e l'arguzia delle idee di messa in scena che non si fermano soltanto alla scelta di stile, divenendo diegetiche nella fruizione di momenti del film e valorizzando trovate di sceneggiatura utili a suscitare reazioni dal pubblico, al mood della storia e alle modalità di racconto.


Un film capace di proporre un protagonista in lotta con una sfortunata decisione messagli in mano dal destino tanto quanto dalle leggi anarchiche del mondo in cui vive, nel quale le azioni di uno hanno un enorme impatto sul destino di molti, ed il cui fato è inesorabile forse fin da subito ma dal quale veniamo distratti grazie all'eleganza dei movimenti di macchina, all'alternarsi delle situazioni sopra le righe e l'incredibile scelta di sovrapporre classico e moderno, noir e neo-noir.

 

Un film splendidamente perfetto e imperfetto nella sua esecuzione e scrittura, commedia e dramma, violento e posato, colpo di pistola nel buio di una notte umida e piovosa e crimine alla luce del sole, stupro e consenso, sesso e decesso.

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1 commento

Grazie mille per il complimento.
Mi sono fatto la stessa domanda e credo che una certa scena sia stata di suo gradimento.
Non posso dire molto a riguardo ma ricorda solo ... ombrello.
Quando vedrai il film, capirai.

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