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Cafarnao - Recensione: una dolorosa meraviglia

Il nuovo film di Nadine Labaki è arrivato in Italia dopo quasi un anno di premi in giro per il mondo

Quando il dodicenne Zain ti guarda negli occhi ti porta via tanto di quello che sei, ti costringe a pensare, a riflettere, a piangere. 


La forza impressionante di Cafarnao - Caos e Miracoli sta soprattutto nell'interpretazione del piccolo protagonista - e nell'abilità clamorosa della regista Nadine Labaki nel dirigerlo - e se in giro avete per caso letto di similitudini tra questo film e The Millionaire o Lion, non dategli retta: Cafarnao è vero, reale, autentico fino al midollo, e la cosa colpisce in faccia lungo tutti i centoventi minuti. 

 

Il film ha vinto il Premio della Giuria al Festival del Cinema di Cannes l'anno scorso ed è andato in nomination come Miglior Film in Lingua Straniera agli Oscar, ai Golden Globe, ai BAFTA e ai César. 

 

E a mio avviso si merita tutto. 

 

 

 

Volendo brevemente riassumere la storia si può raccontare che il film ci presenta il piccolo Zain in tribunale, dove si trova a denunciare i propri genitori per averlo messo al mondo condannandolo a una vita di stenti e sofferenza. 

 

Ma questo è solo l'incipit, una scusa che Labaki adopera per raccontarci poi in un lunghissimo flashback tutti gli avvenimenti che hanno portato Zain ad essere lì in quel momento, mentre sta scontando 5 anni di condanna per avere accoltellato "un figlio di puttana"

 

Siamo a Beirut, capitale del Libano, in uno dei quartieri più poveri costellato di baracche e miseria. 

Nonostante le evidenti difficoltà economiche la famiglia di Zain è numerosa, e questo non fa che peggiorare la situazione costringendo i piccoli a barcamenarsi per portare qualche soldo in casa.  

 

La possibilità che Zain possa frequentare la scuola viene vista semplicemente come un'occasione per la famiglia di ricevere beni materiali in cambio, come vestiti o materassi, con l'idea poi di guadagnarci qualcosa rivendendoli. 

 

Zain è però più utile come strillone che vende succo di barbabietola ai bordi della strada che come alunno, quindi i genitori decidono di mantenere il triste status quo.  

 

 



La già dolorosa esistenza di Zain viene definitivamente messa in crisi da un evento che segnerà violentemente il suo destino: l'adorata sorellina Sahar, sua coetanea per quanto è dato sapere, verrà data in sposa ad Assadd in cambio di un compenso economico. 

Assadd è un commerciante che frequenta la famiglia e per il quale lavora anche Zain, ma è adulto e la cosa non piace a nessuno dei ragazzini. 
I genitori però dicono di non avere scelta e scelgono quindi di vendere letteralmente una delle proprie figlie. 

 

Da qui in poi Zain sceglierà di vivere per conto suo, scappando di casa e finendo col vivere di espedienti, incontrando l'etiope Rahil - clandestina con un figlio piccolo - e affrontando la vita di strada che lo renderà più adulto del necessario, negandogli completamente l'infanzia a cui avrebbe diritto. 

 

Il film di Nadine Labaki è uno schiaffo in faccia. 

 

 

 

 

Da occidentale abituato al comfort e alle comodità, in un periodo storico in cui quotidianamente si sente parlare del "problema immigrazione" e della "delinquenza dei clandestini", Cafarnao mi ha sbattuto davanti agli occhi una realtà difficilissima da digerire proprio perché vera e presente a pochi chilometri da me. 

 

Una realtà in cui le vite delle persone si muovono tra letti occupati in sette, mestruazioni nascoste da magliette per non mostrare di essere cresciute, donne e bambini usati come oggetti e merce di scambio. 

 

Dove si spaccia il Tramadolo - analgesico oppiaceo - ottenuto con finte ricette, le cui pasticche vengono poi schiacciate e sminuzzate per essere mescolate con l'acqua in una bacinella: immergendo dei vestiti nell'acqua e facendoli asciugare si potranno quindi portare in carcere, dove verranno presi dai parenti in galera, di nuovo bagnati e strizzati per ottenere "una succhiata" da vendere per pochi centesimi. 

 

Dove i bambini sono legati a delle catene, e non solo in senso metaforico. 

 

Un mondo dove i documenti di identità hanno un significato completamente diverso da quello che siamo soliti attribuire loro.  

 

 

 


Per i genitori di Zain i documenti sono un impiccio: il piccolo non sa nemmeno quanti anni abbia perché alla nascita non è stato registrato e in questo modo risulta invisibile, inesistente agli occhi della burocrazia e, quindi, meno identificabile e perseguibile. 

 

Per Rahil i documenti sono invece di vitale importanza: etiope rifugiata in Libano con un bimbo di pochi mesi, costretta a disegnarsi un finto neo per somigliare a quella donna che appare sulla carta d'identità, alla disperata ricerca di un modo per scappare via ancora, anche da Beirut, per provare a vivere un'esistenza più serena. 

 

Mille personaggi minori costellano le due intensissime ore di Cafarnao, dalla piccola Maysoun che vende fazzoletti alle auto in coda e che non vede l'ora di emigrare in Svezia al cosiddetto Uomo Scarafaggio, un anziano èmulo di Spider-Man con un altro animale preso a simbolo che fa il "butta dentro" per uno sgangherato luna park di quartiere, dal mercante Aspro, trafficante di cose e persone che promette a Rahil e Zain di trovare i documenti e organizzare loro il viaggio di fuga, al piccolissimo Yonas, il figlio di Rahil, inconsapevole e muto testimone di una miseria che lancina il cuore. 

 

 



È proprio nel rapporto tra Zain e Yonas, trovatisi a un certo punto forzatamente soli, che il film di Nadine Labaki colpisce più forte. 

 

Le scene in cui il dodicenne si prende cura del neonato sono di una dolcezza rara, e quelle dove le cose precipitano sono al contrario tra le più struggenti che personalmente abbia visto nel Cinema tutto degli ultimi vent'anni. 

 

Identificarsi con Zain è pressoché impossibile, se si vive al di sopra del Mediterraneo, ma empatizzare con lui è immediato soprattutto perché la regista riesce a non trasformarlo mai in una figura pietosa: Cafarnao è vero proprio perché non sfrutta la situazione terribile che racconta per fare sensazione, non commercializza la commiserazione. 

 

Si percepisce come Labaki conosca benissimo quella realtà e di conseguenza sceglie di mostrarcela senza compassione per quello che è: il contrappunto musicale è pressoché inesistente lungo tutto il film, se non si conta la musica diegetica proveniente dalle auto, dalle radioline, dalla voce dei venditori ambulanti. 

 

La colonna sonora è il caos del traffico, dei clacson, dei pianti dei bimbi, delle urla e dei litigi, non c'è musica atta a commuovere a comando.  

 

 

 

 

La macchina da presa è sempre in costante movimento, che sia macchina a mano o steadicam, e sta incollata ai personaggi e ai loro volti segnati dallo sporco e dalla disillusione, ai piedi neri e stanchi, ai muri scrostati e tra le strade cariche di spazzatura. 

 

Gli occhi sono al centro della scena, quegli occhi così carichi di tutto. 

Il giovanissimo Zain Al Rafeea interpreta il suo ruolo con un'impressionante maturità: una figurina che appare molto più piccola e gracile dei dichiarati dodici anni, che ruggisce e reagisce come e più di un adulto senza avere paura di niente. 

 

Sa che non ha quasi niente da perdere, e quel poco che potrebbe perdere lo difende con tutto se stesso. 

Costretto ad essere grande prima del dovuto, ad essere fratello maggiore e a diventare addirittura quasi un padre acquisito, combatte contro il mondo e il suo destino, già segnato in partenza. 

 

Ed è per questo che decide a un certo punto di denunciare i genitori, rei di essere consapevoli della miseria alla quale lo avrebbero condannato dandolo alla luce. 


È per questo che esige davanti al giudice che i suoi non facciano mai più figli.  

 

 



Cafarnao - Caos e Miracoli è secondo me un film maledettamente doloroso e altrettanto splendido. 


Costringe a riflettere su quante volte abbiamo noi giudicato qualcun altro solo guardandolo, senza minimamente conoscere cosa l'abbia portato lì. 

Con quanta presunzione ci arroghiamo il diritto di urlare slogan a difesa dei confini nazionali o contro una determinata etnia. 

 

Se solo conoscessimo a fondo la storia di ognuna di quelle che persone che non vediamo, ma che sappiamo muoversi nel mondo e che scelgono di allontanarsi dalla propria casa e dai propri affetti, se solo sapessimo quali tragici eventi hanno costruito il loro carattere, se solo potessimo farci raccontare cos'hanno dovuto affrontare solo per provare a cercare di vivere un'esistenza migliore. 

Se solo fossimo consapevoli che il fatto di nascere in un luogo e non in un altro è solo frutto del caso. 

 

 



Nadine Labaki sceglie di mostrarci una piccola parte dell'esistenza di uno di quegli invisibili


Senza giudicare né lui né noi. 

Lasciandoci il tempo di riflettere, di rielaborare, di piangere e di reagire. 

 

Scegliendo con l'ultimissima inquadratura di regalarci un po' di speranza, perché quel piccolo e incredibile Zain potrebbe essere ognuno di noi. 

 

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