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Strade perdute: David Lynch e gli abissi della mente umana

In Strade Perdute David Lynch discute la contrapposizione tra apparenza e realtà, mostrando la nuda natura umana in tutta la sua dissennatezza 

Offrire un’interpretazione di Strade perdute di David Lynch risulta complesso, tanto è vero che lo stesso regista si è guardato da proporre una sua personale e precisa spiegazione; in aggiunta il tema trattato, ossia la follia umana, sfugge per definizione alla schematizzazione verbale.

 

Nondimeno mi propongo di fornire alcune chiavi di lettura che, seppur lontane dall’essere esaurienti, spero possano fornire alcuni punti di riferimento per la comprensione della pellicola.

 

[Il trailer di Strade perdute]

 

 

La liberazione dell’Es

 

La prima metà di Strade Perdute approfondisce la vita di Fred Madison (Bill Pullman), jazzista talentuoso ma insoddisfatto della propria vita privata a causa dei comportamenti ambigui della moglie, donna fredda e, agli occhi del marito, complice di un tradimento ai suoi danni.

 

David Lynch mostra fin da subito l’obiettivo cardine della pellicola, ossia squarciare il velo di sicurezze entro il quale tessiamo le nostre esperienze della realtà, mettendo a nudo l’irrazionalità che permea ogni percezione umana.

Fred infatti preferisce ricordare le cose nel modo in cui le ricorda e “non necessariamente come sono avvenute”dunque l’esperienza filmica, filtrata dalla soggettività del protagonista, non permette mai di discernere il fatto dalla sua interpretazione.

 

Che il tradimento sia avvenuto o meno tuttavia è irrilevante ai fini della trama in quanto, in accordo con quanto sostenuto dallo psicologo statunitense Albert Ellis, il nostro comportamento è dettato più che altro dalle credenze personali riguardo al mondo e, di conseguenza, è su queste che bisogna concentrarsi.

 

Fondamentale notare che le briglie della follia di Fred vengono sciolte nel momento in cui percepisce il suo matrimonio incrinarsi.

Il contratto matrimoniale infatti, lungi dal risolversi in amore eterno, sembra invece un maldestro tentativo di costruire una personale dimensione di certezza, dove è possibile dimenticare l’imprevedibilità intrisa nell'esistenza umana umana.

 

Renée Madison (Patricia Arquette) risveglia l’incertezza latente nell’animo di Fred e, con essa, il suo delirio, simboleggiato a mio giudizio dall’inquietante Mystery Man (Robert Blake) e le sue videocassette.

Quest’ultimo, aggirandosi indisturbato nella mente e nella dimora del protagonista, sembra impersonificare ciò che Sigmund Freud ha identificato come l'Es, la parte istintiva e irrazionale che rappresenta il nucleo della psiche umana.

 

L’incontro tra Fred e l’uomo misterioso è in tal senso emblematico: il macabro personaggio sembra essere contemporaneamente al cospetto del protagonista e nella sua casa, luogo d’origine della pazzia.

Come scriveva Lucio Anneo Seneca, “tu fuggi con te stesso”: non c’è luogo dove, una volta aperto il vaso della follia, vi si possa trovare riparo; certi pensieri, che dopo gli studi attuali chiameremmo disfunzionali, non abbandonano mai la mente del folle, riducendo la solitudine ad una tenue speranza.

 

La complessità dell’analisi psicologica di Lynch si fa ancora più intrigante quando sentiamo dire al Mystery Man: “non è mia usanza andare dove non sono stato invitato”.

Questo suggerisce probabilmente che sia possibile esercitare un controllo sulla nostra mente; tuttavia, questo non sembra essere il caso per Fred, che finirà per commettere un brutale omicidio della moglie e finire incarcerato e deriso dagli agenti della polizia, esecutori delle leggi sociali.

 

Il pazzo, d’altronde, offre motivo di scherno non tanto perché sia ridicolo, quanto perchè ci ricorda la comune essenza illogica da cui tutti rifuggiamo: in fin dei conti ci sono pochi metodi di distacco efficaci come la risata.

 

 

[Il Mystery Man e la sua cinepresa]

 

 

Pete Dayton e la comparsa del Super-io

 

L’incarcerazione di Fred funge da spartiacque all’interno della pellicola; dopo qualche giorno di detenzione, le guardie scoprono nella cella dell’omicida un altro ragazzo, parimenti scosso ma giuridicamente non colpevole.

Sono dunque costretti a scarcerarlo, ad indicare forse che, per quanto ci si sforzi, la follia non segue le leggi della comunità.

 

Lynch offre ora allo spettatore le vicende di Pete Dayton (Balthazar Getty), il giovane uscito di prigione senza alcun ricordo.

Ciò che a prima vista ricorda un’ordinaria quotidianità di un ventenne, assume connotazione equivoche alla comparsa di Mr. Eddy (Frank Loggia), boss mafioso interessato a Pete.

 

Il rapporto tra i due coincide con una delle scene chiave della pellicola, dove il ragazzo, obbligato da Mr. Eddy a salire in macchina, assiste ad un pestaggio avvenuto sul ciglio della strada: il mafioso infatti, infastidito da un automobilista che infrange il codice stradale, lo fa sbandare per poi accanirvisi con pugni e minacce.

 

Usando sempre Freud come filo rosso per leggere la pellicola, possiamo dedurre che Mr. Eddy impersonifica un’altra parte fondamentale per la tripartizione freudiana: il Super-io.

 

Anche in questo caso Lynch non manca di evidenziare la fragilità delle norme sociali, linee sbiadite al di là delle quali si nasconde la più profonda dissennatezza.

Il boss infatti è sicuro di difendere una regola intersoggettivamente accettata e, in difesa di questa, si sente libero di sfogare la propria aggressività su uno sventurato, colpevole di essere venuto meno a questo patto.

 

Senza voler discutere un tema così complesso come la mafia, risulta tuttavia interessante notare come sia proprio un criminale a simboleggiare il Super-io; le associazioni mafiose,infatti, sono caratterizzate dalla tedenza a sostituirsi allo Stato, organizzando i loro sottoposti tramite schemi assiologici alternativi che, se traditi, vengono difesi nei modi più crudeli possibili.

 

 

[Pete (Balthazar Getty) a colloquio con Mr. Eddy (Robert Loggia)]

 

 

L’indomabilità della follia

 

I guai di Pete sono tuttavia lontani dall’essere finiti: in una normale giornata in officina il ragazzo incontra Alice Wakefield (Patricia Arquette), donna misteriosa e affascinante, di aspetto quasi identico alla defunta Renée.

La loro somiglianza traccia la prima linea di congiunzione tra Fred e Pete, preannunciando una conclusione parimenti raccapricciante.

 

Pete perde la testa (ricambiato) per Alice che, essendo la donna del boss e coinvolta in un giro di pornografia illegale, è costretta a intraprendere la relazione con il ragazzo in segreto.

Se assumiamo che Mr. Eddy incarni il Super-io freudiano, ossia l'incarnazione psichica delle norme sociali deputate a trattenere i nostri impulsi irrazionali, possiamo allora leggere il rapporto tra i due amanti come un amore dissennato, lontano dalle inibizioni della ragione.

 

In ultima analisi, Lynch, seguendo questa interpretazione, esibisce sullo schermo le due pulsioni fondamentali di Freud: la storia di Fred illustra la liberazione del principio di Morte (Thanatos) e, d’altro canto, la storia di Pete ci invita ad osservare le conseguenze dell’impulso dell'Eros affrancato dal controllo razionale.

 

Tornando alla diegesi, osserviamo la relazione procedere di gran carriera fino a quando Mr. Eddy scopre il legame tra i due amanti, allarmandoli e costringendoli a escogitare un piano di fuga.

Il climax della pellicola può finalmente raggiungere il suo culmine: Pete tendando un furto in casa rimane involontariamente coinvolto in un omicidio, seguendo anche lui le orme tracciate dal suo Es.

 

I due scappano poi in un rifugio isolato sulla spiaggia e, con il pretesto di aspettare un contatto di Alice, si abbandonano alla passione in una delle scene più toccanti e, al contempo, disturbanti di Strade Perdute.

 

Sospinti dal vento e accarezzati dai granelli di sabbia, Pete e Alice consumano il coronamento del loro amore; i colori si fanno accecanti, accompagnati dalle note di Song to the Siren di Tim Buckley (nella versione eterea dei This Mortal Coil) e dai respiri soffocati dei due giovani, creando un tutt’uno tra le emozioni dello spettatore e la sensazione ultraterrena che sta pervadendo Pete.

Quello che quest’ultimo non aveva compreso però, è che tentare di domare la follia amorosa è come aspirare a raggiungere il paradiso nel mondo mortale: una volta che lo sfiori con un dito esso ti sfugge.

 

Proprio al culmine del piacere, mentre Pete ansima un insistente: “Io ti voglio”, Alice, accompagnata da un cambio inquietante di tono, proclama: “Tu non mi avrai mai”.

Ecco svelata l’indomabilità dell’Es, presente dentro ognuno di noi, ma inaccessibile al nostro dominio.

 

Riecheggiando le parole di un celebre interprete del caos sul grande schermo, il Joker di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro,: “La follia è come la gravità, basta solo una piccola spinta”, dunque la possibilità di tornare indietro è stata preclusa a Pete nel momento in cui i suoi occhi hanno desiderato quelli di Alice.  

 

 

[Il primo incontro tra Alice (Patricia Arquette) e Pete (Balthazar Getty)]

 

 

La vittoria definitiva dell’Es

 

A questo punto della storia non sorprende scoprire che Alice altri non è che il Mystery Man, lo spettro della pazzia impossessatosi anche di Pete; ciò che lascia stupiti è invece vedere quest’ultimo rialzarsi dalla sabbia con le sembianze di Fred, l’uxoricida abbandonato a metà pellicola.

 

È in questo momento che si chiude la struttura del film, sovrapponibile secondo l’autore Andrea Minuz al nastro di Möbius, una superficie non orientabile, ossia, essendo priva di spigoli, con un solo lato e un solo bordo.

Questa costituzione, oltre a delineare un rapporto di ciclicità tra i due protagonisti, dice qualcosa anche sul modo di presentarsi dell’irrazionale, pensato come ineluttabile, uno scheletro dell’esistenza umana che, per quanto si cerchi di distaccarsene, non lascia vie di fuga.

 

In ogni caso, il ritrovato Fred si presenta alla porta di Mr. Eddy, lo rapisce e lo conduce sulla spiaggia, dove i due avranno una colluttazione, rappresentativa del conflitto che anima la nostra psiche: il boss, simbolo come detto del Super-io freudiano, sembra avere la meglio fino a quando il Mystery Man, fuori campo e forse anche fuori dalla consapevolezza, fornisce a Fred un coltello con cui uccidere il boss.

 

Chi meglio dell’uomo misterioso, rappresentante della follia, avrebbe potuto fornire a Fred gli strumenti necessari per sovvertire le regole sociali che dominano la sua mente? Alla fine, Fred osserverà l’incarnazione del suo Es sparare il colpo decisivo per eliminare il Super-io, ovvero Mr. Eddy

La situazione a questo punto è chiara: la follia, scatenata in entrambi i protagonisti dall’amore, è irreversibile, conquistando ogni angolo della mente e dirigendo ogni comportamento.

 

L’Es, ormai sovrano indiscusso dell’animo di Fred lo conduce ad un ultima fuga disperata, inseguito dalle leggi del mondo civilizzato risuonanti nelle sirene della polizia; con ogni probabilità verrà catturato e costretto, così come chiunque non sappia darsi autonomamente una legge, in quell’abisso di umanità che chiamiamo prigione.

 

Ciò che conta tuttavia, è che il caos abita ognuno di noi e che, se riesce a suscitare eccessivo fascino, rischia di costringerci in un tunnel di morte e sofferenza che neanche le nostre sofisticate regole sociali riescono a limitare.

 

 

[L'esplosione del cottage sulla spiaggia: la scena è ispirata al classico del noir Un bacio e una pistola (1955), di Robert Aldrich]

 

 

David Lynch tra apparenza e realtà

 

Ripercorsa la trama siamo ora in grado di tracciare alcune riflessioni conclusive.

Strade perdute, oltre ad essere fertile ad una trattazione in chiave psicanalitica, discute il tema della contrapposizione tra apparenza e realtà, inserendosi in una tradizione antica quanto il pensiero stesso.

 

Lynch tuttavia tratta il tema in maniera dissimile dai pensatori più celebri che vi hanno fatto riferimento; tra questi è opportuno ricordare, primo fra tutti, Platone, il quale concepiva la realtà esperienziale come copia mal fatta del mondo delle idee, luogo divino ospitante le verità eterne.

 

Molti secoli dopo fu Immanuel Kant ad affrontare questo tema, tracciando una distinzione tra il mondo fenomenico e il noumeno, dove quest’ultimo rappresentava l’unico luogo di possibilità della legge morale compiuta, contrapposto al regno mortale, occupato da menti dirette, almeno in parte, dagli istinti animali.

Entrambi i filosofi condividono l’idea che la realtà che si presenta ai sensi sia mera parvenza, sotto la quale si cela un mondo di perfezione e rettitudine.

 

Lynch espone il problema in modo antitetico, mostrando, attraverso i deliri dei suoi personaggi, come la giustizia sociale e l’organizzazione civile siano illusorie, una patina volta a nascondere la vera natura umana, ferina e irrazionale.

 

A ben guardare tuttavia, un antecedente di tale pensiero è esistito ancor prima che Socrate iniziasse ad infastidire i suoi concittadini ateniesi; mi riferisco alla scuola presocratica del Cinismo.

 

Il maggior esponente di tale dottrina fu Diogene il cane, così chiamato per le sue abitudini stravaganti quali dormire in una botte o espletare i suoi bisogni lungo le strade della città.

Viene ricordato come un vecchio che si aggirava per le piazze con una lanterna, simbolo di una verità che solo il filosofo aveva colto, ossia che in fondo non siamo che animali, impegnati costantemente a sopprimere le loro più profonde pulsioni filtrandole tramite la finzione sociale.

 

Lynch si fa qui portavoce di tale pensiero, proponendo allo spettatore le azioni dissennate di personaggi che, come ricorda il titolo, hanno perduto la strada della ragione, facoltà tanto salvifica quanto facile da rinnegare.

 

L’esito di Strade perdute tuttavia ci rammenta paradossalmente l’importanza di ciò che lo storico Yuval Noah Harari chiama “ordine immaginario costituito”, ossia il sistema di narrazioni astratte che, seppur privo di realtà materiale, fonda la cooperazione tra gli esseri umani.

Seguendo l’argomentazione dello studioso scopriamo che è proprio la capacità di creare tali finzioni che permise ad homo sapiens di prosperare e, in ultima analisi, di allargare la discrepanza che ci separa dagli altri animali.

 

In conclusione dunque, se da un lato è utile riconoscere l’irrazionalità appartenente ad ognuno di noi, dall’altro è fondamentale non perdere la speranza nelle nostre organizzazioni sociali che, seppur imperfette, costituiscono il miglior mezzo per convivere senza sprofondare nella crudeltà.

 

[articolo a cura di Leonardo Riccelli]

 

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