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53 Wars - Recensione: il disfacimento di un individuo - Torino Film Festival 2018

Viaggio dentro al PTSD della moglie di un reporter

53 Wars: il primo film del 36° Torino Film Festival è un chiaro inno (già ritrovato durante il primo giorno in altre pellicole in concorso al Festival) di uno dei "filoni tematici" che si dirameranno all'interno delle proiezioni. In particolare parliamo del disfacimento dell'individuo e della coppia.

 

L'opera prima dietro alla macchina da presa dell'attrice Eva Bukowska parte da un racconto di Grazyna Jagielska e ci racconta la storia di Anna, moglie di Witek, corrispondente in zone di guerra.

 

Lei sta scrivendo un libro sulla situazione cecena, ma il marito reporter, sottintendendo implicitamente un maggior valore della sua figura e della sua professione, continua ad andare e venire dai più svariati conflitti senza alcuna soluzione di continuità. 

 

Ogni attesa è sempre più lacerante per la mente e il cuore della giovane madre, che prima vorrebbe seguire il marito per non essere più sola. per poi desiderare soltanto di vedere la fine del suo calvario.

 

 

 


Anna non è solo moglie e madre di due bambini, ma tutto intorno a lei sembrerebbe imporle il status di comprimaria, subordinata alle necessità altrui.

 

Da un lato la madre di lei che, pur continuando ad aiutarla nella gestione dei bambini, non perde occasione di ricordarle come sia un suo dovere essere "l'ancora di salvataggio" per il povero Witek-Ulisse, dall'altro il marito stesso che non la vuole vicina nelle sue spedizioni e che, implicitamente, non dà valore al lavoro della compagna nel suo viavai dalle 53 guerre che danno il titolo al film. 

 

L'interpretazione di Magdalena Poplawksa è una sorta di "one woman show" in questo viaggio dentro alla follia di una donna sola, una novella Penelope incatenata a una perenne ed estenuante attesa che la corrode poco a poco, inchiodandola in questa continua sospensione.

Non basteranno un tentato divorzio o la fuga dalla madre dei figli per salvarla da questa atipica sindrome da stress post-traumatico.

 

Tra marito e moglie c'è amore, ma il sentimento non è sufficiente a tenere insieme i cocci di questa donna distrutta e di questo rapporto autodistruttivo.

  

 

 


Inizialmente, il film  gioca nel portarci - anche visivamente - dentro alla relazione: guardiamo attraverso vetri, porte, infissi, come se stessimo spiando qualcosa di intimo, forse l'anima di questo rapporto fatto di appassionate scene d'amore e di una complicità assoluta e dirompente.


Poco a poco questa prima (e più funzionante di tutte) cifra stilistica si tuffa nella crescita della follia di Anna, tra jump-cut, un montaggio frenetico - oltre che inaspettato -, vere e proprie allucinazioni visive ed effettistiche, come nella sequenza dell'esplosione nel negozio di oggetti per la casa.

 

Il dramma familiare cede sempre più il passo ai toni del thriller e, così come la messa in scena, anche l'interpretazione, i dialoghi, la scrittura, si fanno sempre più carichi e sopra le righe, di concerto con l'aumento della frenesia della vicenda. 

 

Al culmine della disperazione Anna arriverà ad augurare a sè stessa la morte al consorte, arrivando persino a immaginare di averla sentita al telefono, raccontata dallo stesso marito.

 

Tutto è contorno rispetto al vortice quasi cariddiano in cui cade la protagonista: sia il rapporto con i figli - solo abbozzato -, sia le sue amiche, la madre sia Pawel, o il collega di Witek, che più di tutti si ritaglia un po' di spazio a fianco dei due coniugi.
Anche il marito un po' alla volta viene "coperto", tanto che, durante uno degli addi più significativi, non lo vediamo mai in volto. Ciò avviene anche nella scena di sesso precedente, con la camera che - con maestria - lo nasconde costantemente per mezzo del corpo e i capelli di Anna.

 

Interessantissimo il modo in cui la regista polacca - che asserisce di ispirarsi al cinema di Michael Haneke - riesce a far trascorrere lunghi tratti di tempo in periodi brevissimi attraverso ellissi sempre efficaci, tanto da risultare uno dei veri punti di forza del film.

 

Nel film c'è davvero qualcosa di Haneke, soprattutto nella prima mezz'ora, ma un po' alla volta, la voglia di chiarezza e di mostrare senza alcun sotteso (caratteristica tipica del maestro austriaco) prende la scena.

 

Di conseguenza tutto diventa volutamente più esagerato, risultando quindi non sempre centratissimo, nonostante la presenza di sequenze più che riuscite. 

 

 

 


Negli ultimi venti minuti il film si perde in una situazione che sarebbe anche potuta risultare molto interessante ma che, film alla mano, è probabilmente la meno riuscita.


Anna si ritrova, dopo il culmine dell'odio-follia per il marito, in una clinica di riabilitazione per malati di stress post-traumatico.

Qui la smodatezza dei modi e della rappresentazione straborda e la voglia - lecita - di sovraccaricare sfiora il grottesco.

 

Avrebbe senza dubbio meritato più spazio il rapporto con "i veri traumatizzati" (e non voglio affermare che il suo non fosse un trauma di pari livello, ma solo sottolineare come nell'immagine comune sia più facile immaginare questa patologia in dei militari piuttosto che nella moglie di un reporter).

 

Nel complesso 53 Wars è un film con tanti spunti interessanti, ma con alcuni momenti che non convincono del tutto.

 

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