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Qīngchūn (Youth) - Recensione: gioventù rumore bianco - Cannes 2023

Il regista cinese Wang Bing concorre per la Palma d'Oro a Cannes 76 con Qīngchūn (Youth), documentario dedicato a seguire la vita di un gruppo di giovani lavoratori dell'industria tessile di Zhili  

Il Festival di Cannes 2023 è probabilmente una delle edizioni più ricche e sorprendeti degli ultimi anni e Qīngchūn, documentario di Wang Bing, conferma questa percezione, considerato quanto è raro che questo genere venga selezionato come parte della competizione ufficiale.   

 

Il regista cinque anni fa a Cannes aveva presentato Dead Souls, quest'anno ha voluto rimediare a tutto il tempo passato lontano dall'evento, portando anche Man in Black: prodotto nel 2023, il documentario ripercorre le cicatrici e le sofferenze lasciate sul corpo di Wang Xilin, compositore ottantaseienne oggetto di persecuzioni durante gli anni della rivoluzione culturale. 

Una parte di me sente che forse la visione di Man in Black avrebbe potuto mitigare la mia opinione su Wang Bing e avere un po' più di compassione verso il suo Qīngchūn; cercherò comunque di impegnarmi al meglio per esercitare grazia e gentilezza nella mia critica.   

 

Come avrete intuito, Qīngchūn è stato il mio secondo documentario di Cannes 76 dopo Occupied City, e una delle opere audiovisive che più mi ha piegato nel corso della mia vita.   

 

Wang Bing ha speso cinque anni, dal 2014 al 2019, a seguire la vita di un gruppo di giovani ragazzi impiegati nelle fabbriche tessili della regione di Zhili, capitale di questa industria, per raccontare come la loro giovinezza venga plasmata da un quotidiano che li vede costantemente a contatto con il lavoro, alienando la primavera della loro vita e lasciando pochi frammenti utili per vivere amicizia, amore e solidarietà.

 

Per quanto sia lodevole l'intento alla base di Qīngchūn, questo esiste solo ed esclusivamente nelle dichiarazioni di Wang Bing e nella descrizione del documentario offerta in distribuzione: Qīngchūn a mio avviso fallisce nel portare avanti i principi basilari non tanto del documentario come genere, ma proprio del racconto per immagini come strumento di narrazione. 

 

 

 

Qīngchūn, il cui ricco minutagio è di circa tre ore e trenta minuti, è la prima parte di un progetto la cui seconda parte è attualmente in post produzione, per consegnare al pubblico una pantagruelica opera di circa nove ore. 

 

Wang Bing scenglie una via pregevole per raccontare questo spaccato, diventando invisibile per lasciar parlare gli eventi, le situazioni e le immagini, evitando interviste o la ricerca posticcia di situazioni drammatiche sulle quali ricamare. 

Ancora una volta: l'intento è nobile. Il problema, secondo me, è l'esecuzione.

 

Prendiamo un documentarista come Gianfranco Rosi che con Notturno, candidato ai BAFTA e presentato in concorso alla Mostra di Venezia, segue un principio similare ma ricorda perfettamente come l'immagine sia un linguaggio utile a raccontare, una grammatica silenziosa che anche senza parole o l'aggiunta di una narrazione didascalica a sottolineare gli eventi, riesce a veicolare una storia, degli umori e delle sensazioni. 

Pur non avendo amato il documentario di Rosi in toto, lo sforzo artistico e creativo sono straordinari e i quadri che sceglie per parlare allo spettatore sono così potenti da parlare senza aggiungere altro. 

 

Notturno è un pregevole esempio di come si possa raccontare per immagini anche nel documentario, pur essendo un po' distaccato dal cuore degli eventi. 

 

Qīngchūn invece, pur scegliendo uno stile da camera a spalla più sporco - soluzione per me altrettanto gradita - trova le sue criticità nel non riuscire a identificare davvero dei protagonisti, ma soprattuto nello schivare con una precisione quasi chirurgica ogni possibilità di afferrare un filo rosso che leghi gli eventi in modo armonico: Wang Bing sembra sostanzialmente preda di una confusione assoluta, un autore che si siede di fronte alla sua macchina da scrivere con una vaga idea di come riempire il foglio, ma senza una vera traccia, finendo per girare in tondo, annaspare, ripetersi e soprattutto perdersi in una montagna di materiale del quale chiaramente sembra aver perso il controllo. 

 

Guardando Qīngchūn se ne intuiscono i temi dominanti, ma non si capisce per quale ragione vengano narrativamente sfilacciati e sfibrati fino a ridurli in rumore sullo schermo, annichilendo lo spettatore con l'assordante suono delle macchine da cucire industriali, il cui imponente chiasso è incessante.

Lungo le oltre tre ore di visione non seguiamo davvero nessuno di questi ragazzi, non ne capiamo le esigenze e le pulsioni, non veniamo calati davvero dietro i loro rapporti di amicizia e amore e sostanzialmente sembra di seguire una lunga diretta di un qualsiasi Grande Fratello, ma sprovvisto di autori.

 

Non c'è storytelling sociale o umano, non c'è nemmeno il buon senso di utilizzare il montaggio per filtrare tutto quel girato nel quale molte situazioni si ripetono ipnoticamente come il suono delle macchine industriali.

 

 

[In Qīngchūn si passa molto tempo in questi luoghi e l'alienazione sarebbe stata chiara anche distillando il documentario]

 

Si potrebbe parlare della famosa "scelta artistica", ma l'argomentazione è uno stuzzicadenti sotto una palla di cannone e il motivo è semplice: la scelta artistica può rivelarsi sbagliata, soprattutto se fa a botte con gli intenti che si vanno a dichiarare presentando la propria opera o nel caso in cui questa danneggi la riuscita della stessa. 

 

Qīngchūn dice di voler raccontare il duro lavoro e le dinamiche personali di quella realtà così assurda, ma nulla riesce davvero ad arrivare allo spettatore, proprio perché nell'elaborare il girato non ha trovato storie e protagonisti che fossero utili a quello scopo (senza contare che quando li trova tende ad abbandonarli). 

Quanto ritengo sia chiaro è un concetto molto semplice: per quanto mi riguarda il problema non sono le scelte compiute nel confezionare Qīngchūnun documentario dalla regia sporca, improntato sul racconto di un lavoro alienante che, per come è pensato, sostituisce quasi in toto il loro vissuto, ma l'aver gettato fuori dalla finestra la possibilità di dare un qualsivoglia impatto a questa storia, rendendola ridondate e priva di cuore.

 

Wang Bing dichiara di volersi sentire libero da qualsiasi restrizione di minutaggio e, come già detto, lo scopo è assolutamente nobile perché corta o lunga che sia un'opera non ha più o meno valore se segue una via piuttosto che l'altra.

Tuttavia stiamo parlando di un linguaggio decodificato il cui punto di partenza, come per qualsiasi altro genere o mezzo di storytelling, si basa sull'avere almeno una buona idea di quanto si vuole raccontare; sarebbe ottimale averne una cristallina, ma stiamo pur sempre parlando di territori inesplorati, soprattutto nel documentario, che possono sorprenderci rivelando aspetti che non pensavamo di toccare, finendo per trasformare il concept iniziale.

Inoltre, avere a disposizione un enorme quantitativo di girato può essere molto prezioso, perché lungo il viaggio si possono rappresentare più visioni, personaggi e magari, in montaggio, ci si può trovare tra le mani qualcosa di ancora più prezioso e inaspettato. 

 

Il problema è che in Qīngchūn non esiste curiosità o fascinazione nell'occhio di chi racconta, e anche dove ci sarebbe una storia si finisce per dare spazio e rilevanza a tutto senza far risaltare davvero niente e sembra di guardare a un libro di testo di uno studente che evidenzia tutto.

 

Wang Bing, nella sua prolissità e ridondanza di concetti, ha solo compromesso la riuscita di Qīngchūn, dimenticando di lavorare finemente per donare rilevanza a un racconto che invece aveva un proprio cuore.  

 

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