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All the Beauty and the Bloodshed - Recensione: interpretazione, dove sei? - Venezia 2022

Recensione dell'ultimo film di Laura Poitras, da Venezia 79

Partiamo con una semplice premessa, certo estendibile anche alla fiction ma non agente nella stessa misura sulle aspettative di alcuni spettatori: il valore artistico - se parliamo di rilevanza storico-documentale il discorso cambia - di un documentario, in questo caso All the Beauty and the Bloodshed, non dipende dalla levatura del suo soggetto, nemmeno indirettamente.

 

Conviene dichiararlo a chiare lettere perché l'ultima opera di Laura Poitras ha riscosso non pochi apprezzamenti motivati ad un livello nemmeno definibile come contenutistico in quanto lo scarto presupposto - parafrasando un'idea espressa anche dal semiologo Christian Metz - si situa già nel piano abitualmente individuato dal termine "contenuto": a dover essere soppesata criticamente è difatti la forma del contenuto, la scrittura, e non la materia da interpretare.

 

Il documentario è a tutti gli effetti un'interpretazione della realtà (di una realtà), lo è in maniera ambigua e potenzialmente più produttiva della finzione tradizionale, e dunque il giudizio non può che innestarsi sulla considerazione di un'estetica da intendere come interazione tra forma, forma del contenuto e materia di partenza.

 

 

[Nan Goldin e Laura Poitras presentano All the Beauty and the Bloodshed a Venezia 79]

 

 

Il problema non si pone per la prima volta in riferimento alla filmografia di Poitras, vincitrice dell'Oscar al miglior documentario con quel Citizenfour dedicato (quasi in tempo reale, nel 2014) alla querelle Snowden: lì la dimensione dell'evento, dell'incontro tra Edward Snowden e regista, risultava fondamentale e poteva sicuramente sorpassare valutazioni di natura artistica; tuttavia, la qualità del lavoro giornalistico e i procedimenti di traduzione filmica rendevano ammissibile un parere positivo, con particolare riferimento al tandem montaggio-scrittura.

 

Ecco, con All the Beauty and the Bloodshed - non così legato ad un evento - la regista statunitense non riesce a trovare una (necessariamente nuova) formula vincente.

 

Il film ha come fulcro la fotografa Nan Goldin e opera sostanzialmente su due binari, distinti con chiarezza a livello temporale e tematico: Poitras "intreccia il passato e il presente di Goldin, l'aspetto profondamente personale e quello politico" concentrandosi da un lato sull'adolescenza e sul successivo inserimento nel panorama underground degli USA degli anni Settanta-Ottanta e, dall'altro, sullo scandalo oppioidi scoppiato in terra americana di recente.

 

Attraverso una simile partizione, piuttosto netta, il documentario tenta di illuminare la persona di Goldin, artista la cui produzione eccelle proprio in virtù di un valore artistico discendente da quello estetico, o di un valore estetico discendente da quello politico, come nell'emblematico caso di The Ballad of Sexual Dependency.

 

Poitras giustappone il racconto della formazione e dei contesti di nascita delle sue opere più celebri a quello del suo impegno attivistico, impiega foto e filmati d'archivio, slideshow, interviste e voice-over nella speranza di comporre un ritratto sfaccettato, di rendere significativo (e drammaturgicamente nodale) il toccarsi dei due binari.

 

Purtroppo, il processo di discorsivizzazione - nucleo di questa tipologia di documentari - non sortisce gli effetti auspicati né stilisticamente né sul versante del(la forma del) contenuto: dal primo punto di vista, il linguaggio impiegato è fin troppo lineare, appiattito com'è su modalità espressive collaudate e privo di una riflessione critica sui materiali, invero quasi autosufficienti.

 

Dal secondo punto di vista, All the Beauty and the Bloodshed si perde poi andando a riprendere con eccessiva insistenza dei motivi marginali: l'illustrazione del milieu post-hippie aggiunge poco a quanto già ben sedimentatosi nell'immaginario artistico-culturale, e similmente la presentazione del caso Sackler - dal nome della famiglia proprietaria del gruppo Purdue Pharma, responsabile dell'aumento dei casi di dipendenza da ossicodone - sacrifica quasi ogni spinta investigativa a favore dell'interesse per manifestazioni più superficiali (nel senso di lontane dall'ipocentro concettuale).

 

Lo spazio legittimamente consacrato alla propaggine museale della questione è certamente rilevante in relazione a Goldin, e anche quello incentrato sull'esperienza privata di dipendenza della fotografa è concepito, in definitiva, come punto di congiunzione tra individuale e sociale; pure, ricomponendo il puzzle e depurandolo dalla componente biografica e/o da quella spiccatamente contingente rimane poco.

 

 

[Un frame da All the Beauty and the Bloodshed]

 

 

È allora ancor più problematico constatare come il film si riveli tutto sommato povero anche in riferimento alla rappresentazione della sua protagonista, sia sul versante artistico che, in misura comunque minore, personale.

 

Lo studio del rapporto tra opere e loro contesto di generazione/ispirazione è ad esempio limitato visti il prevalere di uno sguardo aneddotico e la mancanza di una vera sistemazione (estetica) a posteriori: curiosamente, domina anche in questo senso - quindi in scala minore - un approccio interessato perlopiù alla materia del contenuto.

 

Giusto quanto riservato al lato strettamente familiare, uno dei fili rossi del concorso di questa 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, dona qualche soddisfazione in più in un'opera complessivamente avara di spunti interpretativi.     

 

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