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La zona d'interesse - Recensione: la giustezza delle immagini

Com'è vivere accanto ad Auschwitz? Com'è guardare chi vive accanto ad Auschwitz?

Se state cercando una recensione de La zona d'interesse, ultimo e acclamato film di Jonathan Glazer, scorrete pure fino al secondo paragrafo. 

 

Saltate la lunga premessa che ho voluto scrivere per offrire un'interpretazione non tanto dell'orizzonte concettuale relativo ai film dedicati all'Olocausto, quanto semmai del nostro (mio) incontrare le immagini.

 

[Il trailer de La zona d'interesse]

 

 

Una lunga premessa

 

Si torna alle vecchie condanne, alle parole di Jacques Rivette sul carrello di Kapò, a quest'eredità - "il modo Cahiers [du Cinéma, ndr] di tenere al cinema" - raccolta da Serge Daney, ai commenti di Jean-Luc Godard e Michael Haneke su Schindler's List, ancor prima a una citazione spesso fraintesa di Theodor Adorno ("scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie") e - soprattutto - alla diade Auschwitz/Hollywood esposta, assieme a Max Horkheimer, in Dialettica dell'illuminismo.

 

Pochi casi scientemente isolati a proposito di un esempio, la Shoah più che l'intero Olocausto, da non strappare dal tessuto del (discorso sul/del) reale, da non scaraventare strumentalmente tra gli astri immobili.

 

In un Occidente, non solo quello delle stanze dei bottoni, che oggi sta assistendo quantomeno inerme allo sterminio dei palestinesi, compiuto proprio da chi ha essenzializzato quell'immane catastrofe, la questione - neanche lontanamente coincidente con quella riguardante la soluzione finale - riemerge instancabilmente, ancora, nel pieno della propria natura etica. 

Questione che non può indirizzarsi solo ai grandi temi: il problema non è (solo) come rappresentare l'Olocausto, ma come fare - in ogni sfumatura: gli aspetti produttivi e tecnologici non possono essere trascurati - Cinema, un come che chiama un perché.

 

Limito il discorso al Cinema non perché questa dovrebbe essere una recensione de La zona d'interesse o perché in questa sede merita la maiuscola: chiaramente la materia è in gran parte comune alle arti e non solo alle arti; eppure, fotografia e Cinema si appartano in virtù di una peculiare indessicalità (tratto relativo anche alla tecnologia riproduttiva che le anima: impiego il termine rifacendomi all'irriducibile triade icona/indice/simbolo concepita da Charles Sanders Peirce) che storicamente ha determinato quelli che potremmo chiamare dei particolari effetti di verità (con l'edificazione di una rilevante separazione tra documentario e fiction) sommamente attivi in presenza di una restituzione del movimento.

 

La domanda sul come fare Cinema non può che coinvolgere la spettatorialità e insieme quella frangia di fruitori rappresentata dalla critica, (sempre meno, nell'epoca social) distinta grazie al ruolo (sempre meno?) riconosciutole nel dibattito pubblico.

 

Sostiamo soprattutto sulla seconda, con una postura dunque meta-critica: tentando di formulare una risposta a quella domanda, risposta costitutivamente mai definitiva perché il Cinema e gli uomini cambiano incessantemente, la critica deve farsi anche teoria nell'attimo esatto in cui compie simili rimeditazioni e prende esplicitamente posizione, lasciando il minor spazio possibile a presupposti (occulti) di carattere metafisico.

In quel 'deve' si manifesta naturalmente la posizione di chi scrive, come nel precedente accenno alla questione israelo-palestinese.

 

Ciò sottende un approccio metodologico più ampio, relativo alla vita quotidiana, che non va affatto disgiunto dall'interpretazione critico-teorica di immagini che per Philippe Dubois sono attive ("con la fotografia non ci è più possibile pensare all'immagine al di fuori dell'atto che l'ha creata") e per Adriano D'Aloia, sulla stessa scia, "enattive" (dando "rilevanza alla corporeità dei soggetti coinvolti; al loro essere inseriti in un contesto biologico, psicologico e culturale; alla mediazione tra corpo e ambiente offerta dal dispositivo tecnologico; e alla natura relazionale di tale pratica"): anche se quantitativamente minoritario nelle nostre esistenze, il Cinema non è una parentesi autonoma.

 

In questo senso, dalla continuità di approccio metodologico quotidiano, tutt'altro che teoreticistico in principio, e interpretazione critico-teorica può derivare, ad esempio, una valutazione etica negativa dell'escapismo, perlomeno in determinati contesti.

Sul versante artistico, oltre all'escapismo più consueto e ingenuo, il nodo cruciale riguarda la potenziale alleanza (se non coincidenza) tra questo fenomeno e un formalismo estetizzante tipico della coscienza borghese: muovendosi liberamente sopra le opere, astratte da ogni coordinata, quest'ultima - apparentata a quella che Hans-Georg Gadamer ha individuato come "coscienza estetica" - vive nell'illusione dell'arbitrio soggettivistico (individualistico) e può dominare effettivamente il proprio oggetto perché, dopo averlo allontanato, non lo colloca davvero nel proprio mondo.

 

Ricorrendo alla terminologia del giovane Martin Heidegger, il fenomeno - di per sé inevitabile e, siccome ontologico, non moralmente connotato - può essere denominato "rovinio", qualcosa che significa, in estrema sintesi, (dis)perdersi nel mondo, dimenticarsi.

Avanzando una tesi da vagliare con maggior cura potremmo dire che la coscienza (collettiva?) borghese - o un suo particolare stadio: il piano d'analisi riguarda anche le configurazioni socioeconomiche - ha ogni interesse (moralmente valutabile) a favorire il rovinio. 

Pensare eticamente, di contro, richiede di pensare la propria implicazione ineliminabile, senza speranza di trascenderla totalmente, anche perché ogni limite è una condizione di possibilità.

 

Considerato come il formalismo odierno risponda quasi esclusivamente alle logiche appena menzionate e come si annidi notevolmente anche in ambito non-critico, e rifiutato di pari passo ogni contenutismo sordo rispetto alle istanze stilistico-formali (perlomeno ingenuo: ne ho scritto diffusamente a proposito del film etnografico), una possibile soluzione risiede nel non accettare forma e contenuto in quanto categorie definitorie (a-priori) perché ciò determinerebbe una scissione interna all'immagine e/o, soprattutto, una scissione tra immagine e spettatore.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

A proposito di Kapò, nel 1961 Rivette nota come in una frase pronunciata da Jean-Luc Godard ("le carrellate sono una questione di morale") si sia voluto ritrovare "il culmine del formalismo", evidentemente ignorando o celando le ragioni profonde del suo pensiero estetico.

Anni dopo, come sintetizza Luca Venzi, Serge Daney chiede al film (non al regista) "di essere leale nei confronti di ciò che rappresenta e nei confronti dello spettatore a cui si indirizza […] mostrandosi [Daney, ndr] consapevole del fatto che un gesto formativo (un carrello […]) non si compone che in una dimensione morale".

 

Il campo da gioco - di ciò che non è affatto un gioco: per Daney, ha scritto mirabilmente è Max Nelson, "un film era qualcosa di simile a una vita: finito, perseguitato dalla sua stessa fine e per questo saturo di scelte che ne definivano la bussola morale e gli impegni politici" - non può essere la bellezza delle immagini: non bisogna pensare a quella bellezza, che rimane una questione comunque ideologica, ma (al)la "giustezza" delle immagini.

Dal momento in cui il cosa mostrare e il come mostrarlo si fondono in un'immagine, la giustezza - che non può tradursi in formule fisse - ha a che fare con l'alterità, con la relazione istituita nei confronti di un'alterità, con un incontro che si compie con dei margini intrinseci di libertà (doppia).

 

Daney, nume tutelare di cui non si può essere propriamente seguaci - come non si può essere seguaci dello Zarathustra nicciano - poiché non (può) consegna(re) alcuna dottrina, distingue pragmaticamente (cioè, aggiungo io, pensando a un incontro) "visuel" e "image": la prima categoria indica un'immagine recepita ("letta") in maniera univoca, acquisita meccanicamente in quanto, ad esempio, fondata sulla stereotipia, su una convenzionalità tanto intensa da cancellare ogni possibilità d'incontro, qualcosa che riguarda la postura dello spettatore e insieme ciò che l'immagine presenta (materialmente ma non in modo diretto), indica insomma una "verifica ottica di una procedura di potere" ideologicamente strutturata. 

La seconda categoria, come alternativa positiva, identifica di contro un'immagine che si può autenticamente guardare, che si può scoprire perché non è banale e non è approcciata banalmente, stancamente, che espone l'implicazione dello spettatore proprio perché reca in sé un'alterità.

 

Sempre denunciando l'abiezione (del film) di Gillo Pontecorvo, Rivette sosta sul soggetto dello sterminio nazista e loda il mediometraggio documentario Notte e nebbia: la sua forza, sostiene, deriva "meno dai documenti che dal montaggio […]. 

Altre volte si sono visti documenti ancora più atroci di quelli mostrati da Resnais; ma a che cosa l'uomo può non abituarsi? 

Ora, se non ci abituiamo a Nuit et brouillard è perché il cineasta giudica quello che mostra ed è giudicato dal modo in cui lo mostra".

 

Scavalcando il tema delle intenzioni autoriali e di una politique des auteurs così intesa, peraltro consapevoli di come sei anni più tardi Roland Barthes avrebbe sostenuto la morte dell'autore ("la scrittura è […] il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità […]. […] Non appena un fatto è raccontato […] la voce perde la sua origine, l'autore entra nella propria morte, la scrittura comincia"), è palese come Rivette non stia cercando di sancire una cristallizzazione dell'estetica.

Intrecciando il suo spunto con le tesi di Daney e Barthes, il rifiuto dell'abitudine (del visuel) passa attraverso l'incontro tra il non-sguardo di un'image che si smarca, nell'unione del cosa e del come, dalla stereotipia e il non-sguardo di un fruitore che comprende la propria implicazione tanto circa la stereotipia negata quanto circa la negazione, ovviamente mai autonoma. 

 

Tornerò in seguito sulla natura di questa implicazione.

 

All'interno di questo fascio di problemi, una proposta di primaria importanza storica e teoretica è stata quella di Bertold Brecht: muovendo da una prospettiva d'ispirazione marxista, questi ha definito un concetto, quello di straniamento (Verfremdungseffekt), che comprende in sé un riferimento all'alterità e una precisa impostazione, in tal senso, del punto di vista spettatoriale.

Ogni opera avrebbe il compito di esibire la propria artificiosità (equiparandola obliquamente alla menzogna) per allontanare lo spettatore e innescare una fruizione attiva, eccentrica: gli interpreti hanno sovente insistito - non rispettando la visione del drammaturgo tedesco - sul carattere prettamente razionale della postura risultante, che invero avrebbe dovuto contemplare un sentimento da riassociare, depurato, alla razionalità.

 

Se né la sfera emozionale né il divertimento (troppo di frequente interpretato in ottica escapistica) sono banditi da Brecht, sono tuttavia altre due gli elementi che ne fanno collassare il sistema: in primo luogo, è ideologicamente e moralmente rischioso (come ha mostrato Jacques Rancière ne Il maestro ignorante) affidare unilateralmente all'autore e/o all'opera il risveglio della coscienza critica dello spettatore, giacché in quell'unilateralità andrebbe a rintanarsi, non visto, il germe dell'autoritarismo pedagogico; in secondo luogo, ammesso e non concesso il raggiungimento del risveglio, è miope credere che un'opera possa generare linearmente una consapevolezza politica e che questa possa eventualmente tradursi, in maniera altrettanto lineare, in prassi.

 

Un processo del genere può avvenire solo nel momento in cui opera, contesto di produzione/origine, contesto di ricezione e paratesto sono tanto saldati - allineati politicamente - da facilitare una trasmissione che però guadagna in linearità proprio in virtù di ciò che esula dalla sola immagine (comunque sempre irraggiungibile nella sua purezza); si può aggiungere, inoltre, che sono con ogni probabilità meccanismi analoghi a giustificare un rimando forte alle intenzioni autoriali.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Lo storicismo insito nelle varie interpretazioni marxiste, tanto guardando a Brecht quanto - soprattutto negli anni '60-'70 - a diverse penne dei Cahiers du Cinéma, presta poi potenzialmente il fianco a critiche incentrate ancora sul rapporto con l'alterità, con il discorso che giocoforza investe indirettamente la rappresentazione di eventi storici come l'Olocausto: al di là della complessa relazione tra Karl Marx e Hegel e della stessa ricezione dei due pensatori, è quantomeno azzardato credere di poter guadagnare una posizione di vantaggio per osservare asetticamente il passato (anche il proprio, quello biografico-esistenziale). 

 

Il problema è quello dello storicismo oggettivante, delle pretese scientifiche della coscienza storica attaccata da Heidegger e poi - con tutt'altra disposizione rispetto a Hegel - dal suo allievo Gadamer: come scrive il primo nel 1922, "la critica della Storia è sempre e solo critica del presente", ciò impone di pensare radicalmente la propria implicazione, ricusando peraltro - come afferma Hans Robert Jauss - quel mancato riconoscimento dell'"altro nella sua alterità" che mina l'ottimistico progetto gadameriano. 

 

Perno della presente argomentazione, il concetto di implicazione impiegato comprende anche l'accettazione di una dimensione anche emotiva, senza voler rendere mutualmente esclusive emozione e ragione: scrive Daney, allargando il raggio d'azione, che "se non si crede neanche un po' a ciò che si vede su uno schermo, non è il caso di perdere tempo con il Cinema"

 

Non mi dilungo troppo su questo punto, ma rinvio a un interessante saggio di Moira Weigel, Sadomodernism, che prendendo posizione in modo deciso e non sempre condivisibile interpreta il passaggio dal modernismo delle nuove onde e dei Michelangelo Antonioni al presunto "sadomodernismo" di autori contemporanei come Michael Haneke, che qui abbiamo appunto deciso di accostare in apertura a Godard a proposito delle critiche rivolte a Schindler's List.

Tali invettive insistono generalmente su tratti cinematografici storicamente e ideologicamente situati come quelli hollywoodiani, inserendo pertanto la spettatorialità nel gioco convenzionalmente escapistico della relativa industria culturale.

 

Senza concordare necessariamente con Weigel, la fama - nel medesimo establishment - di Haneke è notoriamente dovuta all'autopsia del linguaggio e della fruizione più tradizionalmente associati alle degenerazioni (o apoteosi?) della macro-estetica filo-hollywoodiana: Funny Games sarebbe in questo senso un esemplare lavoro di decostruzione di quella coalescenza che sussiste tra implicazione scopica e aspettative in rapporto alla (rappresentazione della) violenza. 

 

Converrebbe tuttavia soffermarsi sul tipo di distanza - ovvero di implicazione - che Haneke prevede nell'incontro tra opera e spettatore: lungi dal mimare le speranze brechtiane, a cosa mira e su cosa si innesta, quale processo presuppone, lo spaesamento (apparente?) che innerva la sua filmografia?

Quanto sono visuel e quanto sono image quelle immagini che vorrebbero porsi come alterità spiazzanti? 

 

Sospendiamo ogni risposta, anche perché qui non si parla di Haneke, lasciamo volutamente indeterminati numerosi accenni, sviluppiamo in sede propriamente critica quegli obliqui riferimenti a etica e implicazione e vediamo di saltare bruscamente a La zona d'interesse

 

Le sue immagini non dovranno essere belle, questo lo lascio ai formalisti; non dovranno essere tecnicamente ineccepibili, questo lo lascio agli aspiranti registi; non dovranno essere solamente diverse, perché troppo spesso - scriveva Heidegger - "ci teniamo lontani dalla 'gran massa' come ci si tiene lontani".

Le sue immagini dovranno essere giuste.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Una lunga recensione (o un'altra premessa?)

 

Togliamoci di torno la sinossi ricorrendo al paratesto fornito dalla casa di produzione A24: "iI comandante di Auschwitz Rudolf Höss e sua moglie Hedwig tentano di costruire una vita da sogno per la loro famiglia in una casa con giardino accanto al campo" (elemento che peraltro nel film non è subito evidente, almeno nella sua pienezza). 

 

La liquido così perché La zona d'interesse, liberamente ispirato al romanzo di Martin Amis, non è minimamente un film di trama: pensando tanto al tipo di costruzione narrativa quanto alle scelte tecniche, si è parlato anche di documentarismo, tendenzialmente scomodando - indirettamente o meno, consapevolmente o meno - quella "modalità osservativa" che Bill Nichols ha attribuito, tra i tanti, ai documentari di Frederick Wiseman.

 

In questa lettura, che se non approfondita rischia di essere facilmente fraintendibile, nella maggioranza dei casi riveste un ruolo anche il peculiare processo di ripresa che Jonathan Glazer - non nuovo a esperimenti del genere: si veda Under the Skin - ha adottato parzialmente: la ricostruita abitazione totalmente funzionante della famiglia Höss è stata difatti riempita di cineprese, anche nascoste, e gli attori sono stati diretti da remoto. 

Non più la candid camera e gli attori sociali, con tutte le potenziali problematiche etiche del caso, ma una pluralità di punti di vista à la Grande Fratello, con una dose analoga di consapevolezza attoriale. 

 

Se la questione è essere giusti nei confronti di ciò che si rappresenta, come dicevo nella premessa, e se l'essere giusti nei confronti di chi si rappresenta scema inevitabilmente nella fiction classicamente intesa (magari mutando forma), questo aspetto strettamente tecnico interessa però poco, anzi potrebbe non interessare del tutto.

 

Conta il precipitato rinvenibile nelle immagini, e il recente Pacifiction di Albert Serra, intrecciando il discorso con la base tecnica, ne offre una prova: lì Benoît Magimel, già bersagliato da indicazioni contraddittorie in cuffia, era incalzato da tre cineprese manovrate da operatori che avevano ricevuto istruzioni e gradi di libertà differenti.

Dallo scompiglio derivava, oltre che la palpabile confusione di un Magimel impossibilitato a offrirsi a un tempo ai tre punti macchina, una singolare configurazione del rapporto tra ragioni compositive e collocazione (non solo spaziale) dell'attore, configurazione straordinariamente in linea con altre istanze del film.

 

Ne La zona d'interesse, di contro, il dispositivo non sembra determinare chissà quali effetti: il naturalismo delle interpretazioni - di per sé ottime - e delle azioni compiute in continuità (e idealmente in autonomia) non si allontana sensibilmente da esiti ottenuti per altre vie: il motivo principale riguarda il posizionamento spaziale delle cineprese e la strutturazione sintattica apportata dal montaggio.

Evitando - legittimamente - una messa in questione apertamente voyeuristica del punto di vista, Glazer utilizza quasi esclusivamente oggettive accuratamente composte in cui, comunque, la continuità e la molteplicità delle prospettive sono ben rappresentate.

 

Si potrebbe forse riflettere sulla discrepanza tra l'algida rigidità della messa in quadro in relazione alla scenografia e una libertà di movimento, sicuramente favorita dal sistema a mo' di reality show, che palesemente non rispecchia una direzione così precisa (come potrebbe invece essere il caso, al di là dei suggerimenti in sé, nelle pellicole di Robert Bresson), ma l'ipotesi convince a metà soprattutto volgendo lo sguardo a opere che hanno concepito - e tematizzato - un rapporto spaziale tra campo e fuori campo ben più radicale.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Sugli aspetti non solo compositivi si è espresso peraltro Paul Schrader, secondo cui La zona d'interesse è "un esempio da manuale dei dispositivi di distanziamento descritti nella versione aggiornata [uscita nel 2018, mentre la prima edizione risale al 1972, ndr] di Trascendental Style in Filmcamera statica, assenza di panoramiche e tilt [panoramiche verticali], composizioni planometriche [che deformano in altezza], assenza di foregrounding [che potremmo intendere come messa in rilievo materiale, tra filmico e profilmico, di un elemento a scapito degli altri], composizioni con punto di fuga al centro, illuminazione piatta, assenza di musica, effetti sonori amplificati, assenza di primi piani, long take, recitazione inespressiva".

 

Se ha senso solo in maniera relativa rivendicare l'originalità di una singola scelta formale, questo perché il significato non è solo questione di forma e comunque va valutato in modo sistemico, qui si pone un primo quesito circa un sistema di strumenti tecnico-formali che, in effetti, compare nel film di Glazer come in altri innumerevoli casi: il nodo concerne la leggibilità delle immagini, il loro spessore (ovvero la distinzione, ricordata nella premessa, tra visuel e image). 

Nel volume summenzionato, compiendo una ricognizione sul Cinema contemporaneo più autoriale e compilando persino un diagramma riassuntivo, Schrader ricorre a un concetto, quello di "telecamera di sorveglianza", che invero richiama le suggestioni orwelliane esplicitate da Glazer e che viene inoltre attribuito anche al Serra pre-Pacifiction (e pre-Liberté, che a posteriori potrebbe essere l'acme, nella sua filmografia, di tale estetica).

 

Sia Glazer sia Serra sono cineasti che pensano per immagini, con il primo che poggia anche sull'esperienza da regista di videoclip così sapientemente riversata (al di là della giustezza) in Under the Skin. 

Circa il suo ultimo film, tuttavia, la categoria di Schrader risulta indebolita - ancora, legittimamente - dal momento in cui al dispositivo reali(ty)stico sono affiancate, ad esempio, precisissime carrellate che rivelano un controllo di natura differente rispetto a quello trasmesso dalla rigidità compositiva relativa alla camera fissa.

 

Naturalmente La zona d'interesse presenta squarci che, interrompendo e dunque modificando il tessuto estetico pseudo-osservativo, frenano in modo volontario ogni adesione pedissequa al paradigma schraderiano e/o - ipoteticamente - alla modalità osservativa.

A questi squarci Glazer affida un compito di primaria importanza, quasi letteralmente una funzione di commento, esibendo tra le altre cose la tenace sopravvivenza di un'altra umanità.

 

Quelle carrellate fanno invece parte della rappresentazione della vita degli Höss e contribuiscono a definirne il senso: di per sé non costituiscono affatto un problema, alterano solo la distanza e la qualità del rapporto con ciò che si rappresenta.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Torniamo alla modalità osservativa e pensiamo a Wiseman, che non compare nel diagramma di Schrader ma che sembra avere qualcosa di affine alla surveillance cam: è proficuo meditare sul suo percorso cinematografico dato che il passaggio da Titicut Follies (1967) alla produzione più matura va interpretato confrontandosi con quei concetti di direct cinema e/o cinéma vérité a cui l'esordio risponde più convenzionalmente.

 

Pur non contemplando l'intervento diretto tramite il voice-over o la presenza fisica in scena, la macchina a mano di Titicut Follies rivela scopertamente un punto di vista umano che si costruisce dinamicamente in senso relazionale: la prossimità concettuale rispetto agli esperimenti di un Jean Rouch - il cui percorso verso la etnofiction è altrettanto significativo - è palese.

Muovendoci nella tassonomia di Nichols, la modalità pare più partecipativa che osservativa.

 

Con il passare degli anni, tuttavia, le inquadrature di Wiseman si irrigidiscono, le analisi divengono più estese e il montaggio acquisisce una preminenza che affonda le radici in Dziga Vertov; Wiseman nel frattempo non accoglie le etichette di Cinema osservativo o di cinéma vérité perché termini simili sembrano sottintendere che "una cosa vale quanto un'altra, e questo non è vero. 

Perlomeno, non è vero per me".

 

Il tema non è il foregrounding come procedimento tecnico, l'eccezionale forza est-etica del Cinema di Wiseman si misura nella distanza tra la cinepresa e ciò che si rappresenta (e chi si rappresenta) e nella distanza tra immagini, nel montaggio.

 

La prima distanza, più volte evocata, è meramente spaziale - Schrader parla a ragione di assenza di primi piani - solo se siamo formalisti, se parliamo di composizione e, latamente, di bellezza; essendo però il senso determinato da un qualcosa che precede la distinzione di forma e contenuto, sanandone dunque la frattura ai nostri occhi abituati alla scissione, la distanza è anzitutto etica, umana, e solo in questa chiave si esprime spazialmente.

Quella sorta di relativismo iconografico criticato da Wiseman, parente della coscienza estetica richiamata nella premessa, ha a che fare con il contenuto ma non dipende esclusivamente dall'obliqua separazione fiction/documentario.

 

Quel qualcosa in Wiseman che potrebbe rimandare alla telecamera di sorveglianza è solo la forma, che è un'astrazione (il che non significa che non possa essere utile). 

 

La sua presunta osservazione sembrerebbe implicare una distanza maggiore rispetto alla modalità partecipativa e la questione non è diminuire la distanza, ma trovare quella giusta in vista di fini non coincidenti; sa quando fare un passo indietro e quando farne uno in avanti: una telecamera di sorveglianza non fa invece alcun passo, se non quello ottico di uno zoom che ne mostra l'essere manovrata oppure l'autonomia, soprattutto nell'epoca delle intelligenze artificiali, è per definizione inumana, e sorveglia. 

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Tralasciando il montaggio, che forse non può mai essere davvero inumano, in Glazer l'approccio reali(ty)stico agli Höss non si vuole inumano: le inquadrature fisse sono tanto calibrate da rendere lampante la propria costruzione orientata, ma soprattutto le carrellate laterali si premurano di mantenere costante il distacco.

 

Fuori casa, poche marcate plongée fanno addirittura intravedere il sovrumano, l'autore.  

Il regista non può che prendere una posizione e a contare è l'incrociarsi dei tratti individuati da Schrader, gli squarci e il tema dell'Olocausto. 

 

I dispositivi di distanziamento non si mascherano come oggettivi, anche perché l'oggettività cinematografica si forma in genere, nella fiction, tramite una convenzionalità trasparente (visuel): il mondo de La zona d'interesse è geometrico e piatto e ci separa inequivocabilmente dai nazisti, con cui è pressoché impossibile empatizzare (il che, a dispetto delle apparenze, non è ovvio); l'andamento anti-climatico della narrazione, con gli effetti di verità che comporta, assolve a questa funzione.

 

Le parole d'ordine sono efficienza e normalità e l'asse che struttura gran parte dei significati è costituito - all'interno del film, ma anche sul versante intertestuale - da campo (di sterminio) e controcampo.

La normalità è costruita ideologicamente e non senza fatica: la madre di Hedwig, ad esempio, reagisce alla presenza del campo così come le inservienti e alcuni deportati testimoniano la non-autosufficienza di casa Höss, che pertanto ha pacificamente (?) rapporti con l'esterno. 

 

La normalità è la consapevole realizzazione di un progetto, di un concetto, quello di Lebensraum (spazio vitale), di una visione del mondo che vuole assicurarsi il completo dominio (tecnico) sull'oggetto e sull'Altro, o - meglio - sull'Altro reso oggetto. 

 

Ai nostri occhi sconvolti la normalità è la rimozione dell'orrore che penetra terribilmente a livello sonoro, orrore acusmatico la cui origine incombe, che sfalda e insieme autorizza la compostezza delle immagini che scorrono ottusamente, compostezza che è il prevalere asfissiante della forma, della tecnica. 

A ben vedere, però, si tratta davvero di una rimozione? 

 

Su questo e su ciò che ne consegue si gioca la giustezza de La zona d'interesse: le immagini si posizionano eticamente e consentono un posizionamento etico quando ospitano l'alterità (imponendosi come image), e ora la domanda-guida è: qual è il discorso sui nazisti?

 

Rudolf Höss è un burocrate interessato a rendere più efficiente la soluzione finale soprattutto per guadagnare galloni: l'ideologia, si può ipotizzare, ha attecchito tanto da non richiedere rimozioni.

Appena aleggia la possibilità di un trasferimento del marito, Hedwig parla espressamente del Lebensraum che regge il focolare: come potrebbe toccarla la morte di chi non è nemmeno umano?

 

La coppia non è perfetta, la situazione generale non è idilliaca, nemmeno Hedwig risulta gradevole: la normalità è piuttosto grigia, e gira e rigira - anche perché è sempre un esercizio sano confrontarsi con ciò che è incastonato nel discorso comune - il grigiore trascolora forse nella banalità e si inciampa in Hannah Arendt.

Le tesi - invero dibattute e spesso criticate - proposte in La banalità del male si fanno avanti: Glazer sta riversando quella interpretazione di Eichmann negli Höss, o quantomeno in Rudolf (come personaggio)?

 

Senza perdere di vista il sentiero battuto, ecco un passo del saggio, tra i più celebri: 

"Nessun segno in lui [Eichmann, ndr] di ferme convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvagie, […] non stupidità ma mancanza di pensiero"

Posta la comprovata scorrettezza storiografica del riferimento alle credenze del gerarca, pure ridimensionabile dinnanzi a un disegno filosofico più ampio, conviene domandarsi se è 1) sensato e 2) utile escludere e/o minimizzare il peso dell'ideologia. 

 

Personalmente rispondo fermamente di no in entrambi i casi.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Non si tratta di chiedere a La zona d'interesse di essere un saggio o un trattato sul Male o - riprendendo le parole del Glazer intervistato su Rolling Stone - una "lezione di Storia": la giustezza non riguarda il messaggio, non può essere così direttamente pedagogica; attiene invece al (o 'si identifica col'?) discorso che incrina e alle possibilità che dischiude.

 

Ugualmente non si tratta di porre veti: in primo luogo si rifiuta qui di reputare l'Olocausto più irrappresentabile di altre tragedie o, concependo diversamente l'irrappresentabilità, di altri eventi, come se al crescere della gravità attribuita ai fatti incrementasse proporzionalmente l'interdizione iconoclasta (il che significa immobilizzare l'Olocausto - o solo la Shoah? - come estremo superiore?); ciò non equivale, naturalmente, a negare la specificità (storica? morale?) di quella catastrofe, ma significa semmai schivare ogni essenzializzazione. 

 

Ragionando su un caso di iconoclastia come il documentario Shoah di Claude Lanzmann e sulla querelle a cui fa riferimento il volume Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Huberman, Jacques Rancière scrive così ne Lo spettatore emancipato

"Il problema non sta nel sapere se occorre o meno mostrare gli orrori subiti dalla vittima di questa o quella violenza.

Il problema sta nella costruzione della vittima come elemento di una certa distribuzione del visibile. 

Un'immagine non è mai da sola. Essa è parte di un dispositivo di visibilità che regola lo statuto dei corpi rappresentati e il tipo di attenzione che meritano".

 

In secondo luogo, sempre Rancière rigetta un secondo veto prospettato da Godard: la fiction sarebbe costitutivamente inadatta a (far) raccontare le vittime.

 

Lungi dal voler ridurre il pensiero godardiano, tradendolo, a un'ingenua valutazione riproduttiva del documentario, la faccenda concerne le possibilità proprie alla finzione, che qui distinguiamo terminologicamente dalla fiction per marcare la tesi rancièriana secondo cui alla finzione - che include sia fiction che documentario - non va assegnata alcuna qualità menzognera: "le parole sono soltanto parole e gli spettacoli solo spettacoli" e le immagini solo immagini, e in quel 'solo' non si nasconde alcuna superficialità, né il common sense.

 

Con una torsione meta-critica, gli spettatori - e siamo tutti spettatori - non devono più attendere un Messia che ne interrompa (linearmente) il sonno.

  

"Siamo diventati desensibilizzati a queste storie. È impossibile mostrare quello che è successo all'interno di quelle mura. E secondo me non si dovrebbe nemmeno provare a farlo" ha dichiarato Glazer, che ha ragione se parliamo di ruoli così definiti che, appunto, sconfinano nella stereotipia scoraggiando qualsiasi incontro con l'alterità.

 

In linea teorica, fiction/documentario e rappresentazione/iconoclastia non sono coppie di alternative moralmente connotate di per sé. 

Glazer fa legittimamente proprio l'irrappresentabile di Lanzmann e altrettanto legittimamente non ne segue né il percorso documentario né - se non in uno squarcio - il pensiero sulla testimonianza; insieme afferma: "ero determinato a non fare un film sul passato, ma sull'oggi"

 

Nel collocare fuori campo i rumorosi 'vicini di casa' degli Höss compie indiscutibilmente una scelta inconsueta: il proscenio (senza foregrounding) è occupato da carnefici o complici che non necessitano di esibire, se non qua e là, alcun segno convenzionale di crudeltà. 

Gli squarci non solo commentano, ma aggrediscono anche la nostra già precaria normalità di fruitori, costruita nella distanza; le strategie formali e la scrittura dei personaggi inibiscono - si diceva - l'immedesimazione.

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]
 

 

Dov'è l'alterità, l'image, ne La zona d'interesse?

 

Sempre nel pezzo citato - non che un'intervista debba guidare la lettura del film: già considerarla in questa sede può essere un esercizio controproducente - Glazer dice due cose che rimandano anche al saggio di Arendt, a cui in un'altra occasione ha fatto esplicito riferimento: 

1) "quando si dice: «Erano dei mostri», si dice anche: «Noi non potremmo mai essere così». È una mentalità molto pericolosa";

2) gli Höss erano "creature dell'orrore non pensanti, borghesi, carrieriste".

 

Questa seconda tesi trova riscontro nel film: Rudolf è un novello Eichmann arendtiano; e qual è la posizione che le immagini suggeriscono di assumere davanti alla sua assurda normalità? 

In battaglia con la quiete visiva, il sonoro convoca lo sdegno e approfondisce il distacco già conquistato grazie agli strumenti segnalati da Schrader: quelle esistenze banali sono da condannare, e nulla spinge a rendere metafisica la loro abiezione. 

Non sono mostri: "non sono nati assassini di massa, ma un percorso li ha fatti diventare quelli che sono stati. 

Molte persone hanno abdicato la responsabilità morale".

 

Ne La zona d'interesse cosa rimane di quel percorso? 

La banalità è costruita, nei singoli atti la vita della famiglia Höss è banale in quanto soggetto cinematografico, ma più che banalità quella è una tranquillità che poggia altrove, che precede le vicende e più o meno consapevolmente si rinnova giorno dopo giorno. 

 

Del fatto che quell'altrove possa essere ideologico non si fa sostanzialmente menzione se non quando Hedwig si appella al Lebensraum, né si sottolinea quel rinnovarsi; il punto non è compensare a livello enciclopedico pensando al contenuto della concettualità nazista o, peggio, a ciò che storiograficamente precederebbe le vicende.

Il punto è la relazione tra uomo (cos'è?) e ideologia (cos'è?), o - se si vuole, se il secondo termine spaventa o pare troppo limitato - tra uomo e discorso: soprattutto così La zona d'interesse si rivolge al presente. 

 

Come si può vivere accanto ad Auschwitz?

Meglio: come si può vivere solo nella propria zona d'interesse?

 

 

[Un frame da La zona d'interesse]

 

 

Torno alle critiche formulate da Paul Schrader: "nello stile trascendentale [Schrader pensa soprattutto a Ozu, Bresson e Dreyer, ndr] e nello Slow Cinema i dispositivi di distanziamento sono usati per forzare lo spettatore a trovare il mistero sotto la superficie. 

Ma ne La zona d'interesse […] lo spettatore sa precisamente cosa giace sotto la superficie […]. 

Uno stile pensato per vedere l'ignoto viene impiegato per la ragione opposta".

 

L'argomentazione convince a metà, perché la questione non riguarda (solo) le conoscenze enciclopediche, magari di storiografia oggettivante; è bene però notare come le differenze sussistenti tra Bresson e Ozu - i più rigorosi - scartino ogni riduzione dello stile trascendentale a lista di precetti, checché ne sembrino talvolta dire le tendenze formaliste di Schrader.  

 

Senza sovrapporre il "completamente Altro" che Schrader riprende dal teologo Rudolf Otto e l'alterità della/nella image, il vedere l'ignoto non è frenato dalle informazioni già disponibili al pubblico.

 

La zona d'interesse favorisce il passaggio dal "come si può vivere accanto ad Auschwitz" al "come si può vivere solo nella propria zona d'interesse"?

Oggi la zona d'interesse può essere - ma gli esempi non vogliono affatto ridurre il discorso al piano geografico-spaziale, solo ricollegarsi al film - una casa accanto a un CPR o a un insediamento israeliano.

 

Glazer avrebbe dovuto obbligatoriamente individuare delle cause chiare e circondarle da un discorso teorico? No. 

Avrebbe dovuto obbligatoriamente istituire un parallelo esplicito con un evento contemporaneo? No. 

Avrebbe dovuto obbligatoriamente farci immedesimare o empatizzare, almeno un poco, con gli Höss? No. 

 

Il nazismo non è essenzializzato, non diventa un Male irripetibile; per quanto possa apparire paradossale, per chi scrive è però banalizzato nel momento in cui è dipinto sposando contenutisticamente le idee di Arendt e, insieme, adottando un assetto formale il cui esito emozionale e concettuale è collaudato e, tutto sommato, facilmente decodificabile.

E comunque lo si interpreti, il finale - a proposito del quale è doveroso ritornare, tra le altre cose, a The Act of Killing, non solo in quanto ispirazione dichiarata per Christian Friedel, interprete di Rudolf - non sembra gettare all'indietro una luce decisiva sul piano discorsivo.

 

Dire che le immagini de La zona d'interesse sono visuel e sono da decodificare meccanicamente è eccessivo; tuttavia, la loro relativa diversità sembra spesso avvitarsi su di sé e lasciare poco spazio per un incontro reale.

 

E che dire circa la deviazione rispetto all'ideologia che informa l'immaginario comune?

 

Oltre che contrastare la normalità degli Höss, il sonoro denuncia involontariamente anche la costruzione delle immagini di quella normalità, che non sono mai messe in questione in quanto immagini: il dispositivo complessivo, considerando anche gli squarci, ne esce indenne.

Il problema, parafrasando Rancière, non sta nel mostrare i carnefici invece che le vittime, anzi: il problema è la distribuzione del visibile, lavorando sulla quale dovrebbe manifestarsi una postura etica e soprattutto l'esercizio di un pensiero che è implicazione.

 

Riporto un energico stralcio di Rivette su Kapò, scritto in un contesto differente, prima del postmodernismo, di cui vale soprattutto la pena conservare la seconda metà: 

"Ci sono cose che non devono essere affrontate se non nella paura e nel tremore; la morte è una di queste, senza dubbio; e come, nel momento di filmare [ovviamente anche nella fiction, ndr] una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un impostore? 

In ogni caso sarebbe meglio porsi la domanda, e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma".

 

Ora un passaggio dalla già richiamata intervista concessa da Glazer: 

"Non volevo che la gente avesse una distanza di sicurezza dal passato e se ne andasse senza restare turbata da ciò che aveva appena visto"

 

Sul turbamento: conviene interrogarsi sulla natura della risposta prescritta, se il turbamento può essere un fine in sé e che cosa sottintende. 

 

Sulla distanza di sicurezza, che ha a che fare con l'alterità, l'implicazione e l'image: a mio avviso La zona d'interesse - che rappresenta chi dà la morte e il mistero dietro/in quest'atto - ha questa distanza di sicurezza, non ha la giusta distanza. 

 

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2 commenti

Nic Cage

2 mesi fa

Film stupendo.
Il regista ci ha donato una nuova prospettiva da cui guardare e riflettere e visto il tema trattato non era per nulla semplice.
Il tenere sullo sfondo quel abominio li, il mostrare la vita gioiosa ed idilliaca di chi ha contribuito alla realizzazione di una realtà abominevole, la scalata verso il successo, moglie e marito stereotipi degli arrampicatori sociali, è stato un modo inusuale e paradossale (e forse quello che fa più male ed azzeccatissimo) di rappresentare la vicenda e che poi, con le dovute proporzioni, è quello che ahimè continuiamo a vivere ripetutamente fino ad oggi .

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Andrea Zanini

2 mesi fa

Film straordinario. Mica Levi straordinaria

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