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Magnolia - Recensione: la maschera a pezzi sul volto degli Stati Uniti

Un'analisi del complesso film di PTA a vent'anni dall'uscita in sala

Magnolia ha ormai più di vent'anni: un buon lasso di tempo per iniziare ad analizzare la resa storica di un film, per considerare come sia invecchiata la sua ossatura tematica.

 

Certo: si parla di Paul Thomas Anderson, regista che che con il suo tocco delicato traccia linee espressive che raramente rischiano di decadere con il passare del tempo, ma porsi delle domande a riguardo non è mai sbagliato, perché riconoscere a un film il pregio di essere sopravvissuto a decenni significa imparare a riconoscere il mix di ingredienti che trasforma un prodotto mediatico in arte.

 

Se mi è concesso, mi assumo oggi il superbo compito di insignire Magnolia di questo titolo.

 

La potenza evocativa del film e la perfetta immedesimazione che riesce a creare superano qualsiasi linea temporale.

 

Magnolia Magnolia Magnolia

 

Il filo conduttore di Magnolia, il suo nucleo tematico sospeso tra i concetti di caso e destino, rimane affascinante e attuale indipendentemente dal guscio cinematografico che lo racchiude, dando a PTA il merito di aver gestito con sapiente maestria argomenti in grado di rapire lo spettatore, facendo leva su un livello di empatia transgenerazionale.

 

Il punto focale della trama ci viene presentato tramite una breve sequenza di finti storici (raccolti da una serie di miti e leggende urbane) in cui le vite di alcune persone si ritrovano inconsapevolmente intrecciate l’una all’altra, lungo la scia di coincidenze incredibili, alcune di poco conto, altre sconvolgenti.

 

Le coincidenze esistono: questo è il concetto da cui Magnolia vuole partire, ma quale sia la loro natura non ci è dato saperlo.

L’ambiguità insita nell’idea stessa di coincidenza può essere superata solo da spiegazioni e credenze individuali, che tuttavia lasciano sempre spazio a un senso di imprevedibilità.

 

Una volta offertoci questo enigmatico punto di vista Magnolia entra nel vivo: ci permette di conoscere le vite dei suoi protagonisti e i loro legami reciproci.

Lo fa tramite un privilegiato sguardo d’insieme che la vita non ci offre quasi mai davvero: un punto di vista extradiegetico che consente di cogliere la contemporaneità di certe esperienze e la profondità di alcuni sentimenti, in una mappa trasversale di cui gli stessi personaggi - come ciascuno di noi nella vita di ogni giorno - non vedono che una piccola parte.

 

 

[John C. Reilly e Melora Walters in un frame di Magnolia]

 

 

Magnolia ci parla di nove persone, legate l’una all’altra da un’invisibile rete sociale ed emotiva.

 

Non si tratta di un espediente nuovo nel mondo del Cinema.

La teoria di vite destinate a incrociarsi e a determinarsi inevitabilmente a vicenda è una di quelle idee metafisiche che da sempre popolano racconti, libri e chissà quante altre forme artistiche.

 

Qui il discorso però si fa più ampio, perché non è solo l’idea di essere legati a qualcun altro da una sottile trama relazionale che ci colpisce, ma il fittissimo intreccio di temi e sotto-temi emotivi che stratificano il film di PTA e lo rendono un delicato affresco di realtà.

 

Earl Partrige (Jason Robards) è un produttore televisivo malato di cancro e in fin di vita; legati a lui ci sono un infermiere (Philip Seymour Hoffman) e una seconda moglie, giovane e sull’orlo di una crisi di nervi (Julianne Moore).

 

Da anni Earl non parla con il figlio Jack/Frank (Tom Cruise) che ha trovato la sua strada costruendosi un personaggio spregiudicato, una maschera sociale intrisa di rabbia e disagio, attraverso cui ottenere apparentemente tutto ciò che desidera nella vita: delle attenzioni.

Il programma televisivo creato da Earl è ormai nelle mani dell’anziano conduttore Jimmy Gator (Philip Baker Hall) che, quasi per un assurdo gioco del destino, scopre a sua volta di essere malato di cancro.

 

Anche Jimmy non parla da anni con la figlia Claudia.

Potremmo sostenere quindi che in questo gioco di specchi Claudia sia la controparte femminile di Frank.

Sebbene entrambi vivano il tragico fallimento nell’instaurare delle sane relazioni sociali e affettive, Claudia per superare il proprio passato ha sostituito l’autoesaltazione di Frank con l’autodistruzione.

 

Nella sua vita entra casualmente Jim (John C. Reilly), un agente di polizia alla ricerca di una quasi divina opportunità di amare.

Al programma televisivo che lega queste vite hanno partecipato Donnie (William H. Macy), un tempo bambino prodigio maturato in un malsano ambiente familiare e oggi misero impiegato sommerso dai debiti, gelosamente attaccato al ricordo della grandi speranze giovanili, e Stanley (Jeremy Blackman), giovane concorrente ancora in gara e quasi alla soglia dei record, che il padre maltratta nell’obiettivo di sfruttarne il potenziale.

 

Attorno a questi personaggi, un ulteriore microcosmo di mogli, colleghi, amici, datori di lavoro, dipendenti.

In un cast ricchissimo che aggiunge a Felicity Huffman e Alfred Molina tanti altri attori di spessore più o meno noti.

 

La trama lineare è importante nel quadro più ampio dei significati nascosti lungo il film, in cui ogni piccolo evento nella sua apparente insignificanza è legato a qualcos’altro e sebbene quel legame non sia immediatamente chiaro allo spettatore sin dall’inizio, la matassa si dipana di minuto in minuto, quando si approfondisce il film al microscopio.

 

Innanzitutto la malattia come elemento di trasalimento interiore.

Il cancro è quella molla scatenante che impone a parte dei personaggi e alle persone loro circostanti di prendere atto della propria vita, di tirare le somme, riconsiderare i propri errori, ripensare ai propri rimpianti e usare la forza del rimorso per provare a sistemare quanto si è rovinato nel corso degli anni.

 

Il titolo non solo richiama la Magnolia Boulevard in cui gran parte della vicenda si svolge ma, se crediamo a quanto riportato da numerosi siti, trasmette l’impegno di Paul Thomas Anderson nello studio della simbologia dei fiori di magnolia le cui bacche (secondo alcune teorie) aiuterebbero a curare il cancro.

 

Si tratta di uno degli innumerevoli significati che si stratificano nell’analisi del titolo, così breve eppure così pregno di simbologie.  

 

 

[Julianne Moore e Jason Robards in una scena di Magnolia]

 

Il rapporto tra padre e figli.

 

Magnolia indaga la biblica idea secondo cui “le colpe dei padri ricadranno sui figli”, studiando in che modo le assenze o (peggio) le malsane presenze genitoriali arrivino a distruggere e determinare quelle giovani vite, privandole di strumenti positivi e lasciando al loro posto ferite difficili da rimarginare.

Su questa tematica quasi tutti i personaggi finiscono per scontrarsi e dividersi tra vittime e carnefici.

 

Figli abbandonati, bistrattati, e padri assenti, a volte pentiti a volte indifferenti.

 

Il rapporto tra realtà e finzione, tra necessità sociali e verità e quelle numerose maschere che ci costruiamo per affrontare la vita e per superare i nostri traumi.

In questo caso emblematico è il personaggio di Frank T.J. Mackey interpretato da Tom Cruise, che nel disperato tentativo di recidere le proprie radici arriva ad un passo dal creare una nuova identità.

 

Più banalmente il personaggio di Donnie (William H. Macy) ha dovuto sostituire la propria figura pubblica di piccolo genio con quella di persona sconfitta, bisognosa d’amore e proprio per questo costantemente disposta ad auto-affliggersi.

 

Il presentatore è costretto a condurre il gioco televisivo nonostante la propria malattia, pur di non lasciare che la maschera si sgretoli agli occhi del pubblico e così via.

 

La maschera viene tenuta addosso a tutti i costi fino a che lentamente (e inesorabilmente) ogni personaggio non arriva a dover fare i conti con il proprio vero essere, con i propri desideri.

 

 

[Tom Cruise: in Magnolia l'attore regala una delle sue migliori performance della sua carriera]

 

A tal proposito interviene il testo della canzone Wise Up come intermezzo musicale che tormenta i personaggi con un unico imperativo: il bisogno di crescere, maturare, accettare i propri cambiamenti, accettare la propria natura, rassegnarsi a ciò che è stato ed è ormai fuori controllo e abbracciare il presente fino a stringerlo in pugno, afferrare le redini della propria vita per segnare una nuova rotta.

 

A questo punto entra in campo il meta-cinema.

 

Il film stesso, tramite musiche e dialoghi, diventa strumento di comunicazione con lo spettatore.

Ciò che avviene in Magnolia non deve per forza rimanere legato a un mondo di finzione, ma può verificarsi nella realtà se si ascolta, se si rimane attenti a ciò che ci circonda, se si agisce.

 

Certi dilemmi sul dolore, la sconfitta, il bisogno di affetto e di perdono sono sentimenti universali e non importa quando o come si manifestino nella nostra vita, perché tutti prima o poi vi entreremo in contatto.

 

Magnolia si articola di fatto in tre fasi.

La prima ha una funzione descrittiva, perché ci consente di conoscere i personaggi, ci mette a parte delle loro condizioni, dei loro legami superficiali.

 

La seconda rappresenta il momento della crisi: è lo snodo, il momento in cui ci protagonisti toccano il fondo, entrano in contatto con il sé più profondo ed emergono con rinnovata consapevolezza dal mare che li aveva sopraffatti.

Iniziano infine un’inesorabile risalita, che si completa con la riscoperta del senso del perdono, della pace con se stessi.

 

Ultimo tra i temi, ma decisamente non per importanza, è il concetto del divino e dell’imprevisto.

Magnolia è un diretto riferimento al termine Magonia, un folkloristico e ipotetico spazio nel cielo in cui le cose vengono conservate fino a che non sono pronte a ricadere sulla terra. 

 

Il film quindi è volutamente attraversato da un enigmatico interesse per le condizioni metereologiche, come se l’imprevisto ci piovesse dal cielo non meno che un qualsiasi altro evento atmosferico.

La Magonia nelle leggende si riteneva essere la patria di misteriose figure, pirati del cielo, pronte a modificare il tempo a loro piacimento.

 

E sarà proprio nel corso di un misterioso e biblico fenomeno atmosferico, che il film troverà il suo epilogo, svegliando ciascun personaggio dal torpore del proprio dolore e ricordando loro che esiste qualcosa al di là della loro dimensione.

Una sequenza estraniante e scioccante (in tutto il suo significato positivo) anche per lo spettatore.

 

L’espediente narrativo biblico voluto dal regista è infatti un vero e proprio deus ex machina che costringe non solo i personaggi, ma gli stessi fruitori a confrontarsi con quell’indefinito (perché personale) evento traumatico della vita.

 

Magnolia ci mette a confronto con le nostre più profonde paure e allo stesso tempo ci investe con la sua forza evocativa e ci permette di astrarci per un momento, di fronte a questo sublime kantiano, da ciò che stiamo vivendo per rimanere in pura contemplazione.

Paul Thomas Anderson sottolinea con il suo finale la futilità della vita e ci ricorda la presenza di uno schema più grande, che non ha per forza una connotazione religiosa, ma che si manifesta in ogni caso come elemento talmente al di sopra della nostra portata da non poter essere compresa a pieno.

 

 

[L'incredibile scena della pioggia di rane in Magnolia]

 

Ecco perché sostengo che Magnolia sia un film dal tempismo perfetto.

 

Non importa che non si stia vivendo una crisi esistenziale, che nella vita non si abbia vissuto un qualche lutto distruttivo o una malattia invalidante, perché il film stesso ci pone di fronte all’inevitabile esperienza del perdono e al nostro rapporto con esso.

Ci consente infine di riconsiderare il filo conduttore che ci lega ad ogni spiacevole evento della nostra vita, ad ogni incontro più o meno significativo, ad ogni lezione che il passato ha voluto che metabolizzassimo.

 

Tramite questa comunione di sensibilità umana rimaniamo appesi tra noi esattamente come i petali di un fiore, indipendenti  l’uno del l’altro e potenzialmente separabili, ma pur sempre legati ad un unico stelo e ad un’unica radice.

 

Magnolia è uscito negli Stati Uniti il 7 gennaio 2000, per arrivare da noi il 17 marzo. 

 

Da allora la tecnica di PTA si è affinata, il gusto estetico accentuato a dismisura, ma è rimasta la potenza espressiva di un regista che è riuscito a costruire sapientemente una storia equilibrata.

Un racconto che pur rimanendo settoriale non annoia, mantiene il ritmo e taglia esattamente dove dovrebbe per mantenere solido il filo narrativo.

 

Un montaggio che si fa velocissimo mentre ci presenta i personaggi o quando vuole offrirci il senso di contemporaneità degli eventi.

Ma che sa anche abbandonarsi a lunghe riprese e a ritmi introspettivi quando c’è da indagare la psiche dei personaggi ed osservare quei meccanismi stanchi che piano piano tornano al loro posto.

Non è insomma un caso che Magnolia abbia conquistato l'Orso d'oro al Festival del Cinema di Berlino  e abbia fatto incetta di candidature tra Oscar, Golden Globe e altre tra le maggiori associazioni del settore.

 

La fotografia mantiene toni cupi per gran parte del tempo, offrendoci un'idea visiva dei sentimenti angoscianti che opprimono i personaggi, poca luce e soffusa se si esclude quella dei riflettori che accentuano spesso un senso di solitudine.

La colonna sonora è una costante del film, a volte passa inosservata perché si fonde e diventa tutt’uno con le immagini, con i dialoghi e con il significato della sequenza, a volte ci investe con la sua forza espressiva, determinando la potenza stessa delle nostre percezioni, bombardandoci di sensazioni tra un magma e un’esplosione emotiva.

 

Il film infine colma il bisogno di pace che portavamo dentro o che forse, senza accorgercene, abbiamo maturato insieme ai suoi protagonisti.

 

Questa sensazione dà un significato a tutta l’esperienza visiva: lo spazio temporale che separa la prima uscita di Magnolia dal pubblico attuale si assottiglia e il messaggio del film continua a viaggiare, pronto oggi come allora a piombare dal cielo sull’ignaro spettatore in cerca di conforto, nel prossimo futuro.

 

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