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#top8

8 film per 8 brani musicali: sinestesia cinematografica

Abbiamo tentato di associare a 8 film altrettanti brani musicali di nostra scelta, cercando di restituirne l’essenza, di rievocarli nella memoria

Il Cinema è un’arte suggestiva, evocativa, visionaria.

 

I film accendono l’immaginazione, proiettandoci oltre il luogo fisico nel quale ci troviamo nel momento in cui ne facciamo esperienza, permettendoci di sognare, di spaventarci, di soffrire, di empatizzare e di riflettere.

 

Le immagini cinematografiche hanno il potere di richiamare alla mente vecchi ricordi, sensazioni sbadite dal tempo, musiche, odori e sapori; e al tempo stesso innestano nuove fascinazioni, nuove pulsioni, nuovi desideri. 

 

Intimamente si opera quindi un processo di rievocazione del passato, attraverso le rappresentazioni e i simboli che assumono per ognuno di noi maggior valore e significato; e contestualmente ci viene suggerito il futuro, che ci sussurra suadentemente le sue promesse, le sue pur affascinanti malefatte, le sue innumerevoli possibilità di vita, di dissoluzione, di depravazione, di redenzione. 

 

 

[Slavoj Zizek, uno dei principali filosofi contemporanei, a tal proposito afferma: "Bisogna che qualcuno ci insegni a desiderare. Il Cinema è l'arte perversa per eccellenza. Non ti offre quello che desideri, ti dice come desiderare"]

 

 

Questo meccanismo agisce in buona parte per correlazione: a un’immagine se ne sovrappone un’altra, e poi un’altra, e poi un suono, una melodia, una canzone, al fine di rievocare o creare una realtà dimenticata, mitizzata, desiderata o immaginata.

 

La straordinaria associazione tra visione e ascolto, in particolare, ha contribuito a determinare l’enorme successo del Cinema, ed è forse la principale artefice della persistenza di alcune scene e di svariati momenti cinematografici nella nostra memoria.

 

Sappiamo tutti quanto siano importanti le colonne sonore per la riuscita di un grande film. In alcuni casi la musica è inscindibile dal ricordo che abbiamo di una pellicola, tale è la sua memorabilità, intesa letteralmente come capacità di fissarsi nella memoria: basti pensare a Nuovo Cinema Paradiso, oppure a Lo Squalo o ancora a Requiem for a Dream

 

Nei casi appena citati la soundtrack è composta per il film, cucita su misura, perfettamente diegetica e adatta a quanto si voleva esprimere.

C’è totale corrispondenza tra immagine e musica, il loro rapporto è inestricabile e, di fatto, sono unite da una compartecipazione fondativa verso lo stesso scopo: appartengono cioè entrambe dichiaratamente al film per cui sono state create.

 

[Mrs. Robinson, una delle canzoni più note della Storia della Musica, è l’indimenticabile colonna sonora de Il Laureato]

 

 

Ci sono invece altre opere cinematografiche che attingono a piene mani da materiale musicale già esistente, individuando il brano giusto alle esigenze del film, operando, come si accennava in precedenza, un processo di correlazione. 

La Stangata sarebbe altrettanto frizzante, brillante e iconico senza il rag-time di Scott Joplin?

E la sequenza degli elicotteri in Apolcaypse Now con la Cavalcata delle Valchirie in sottofondo? 

 

Naturalmente queste associazioni, quando le consideriamo oggi, ci appaiono consolidate e quasi inevitabili nella loro giustezza, e chiaramente il loro successo premia e suggella ulteriormente questa sensazione di ineluttabilità: ed è quindi ancor più incredibile ricordare che di fatto furono il frutto di “semplici” intuizioni.

 

È straordinario pensare che nonostante questi brani non fossero stati originariamente intesi come legati a un determinato film, nondimeno toccano in qualche modo quelle stesse corde, attraverso l’atmosfera che evocano, le parole che utilizzano, le emozioni che trasmettono.

 

[La title track della seconda stagione di The Leftovers, ovverosia la canzone Let the Mystery Be di Iris DeMent del 1992, è eccezionalmente coerente con i temi espressi dalla serie, dando vita a un connubio particolarmente suggestivo] 

 

 

Così abbiamo pensato di fare un gioco.

 

Abbiamo tentato di associare a 8 film altrettanti brani musicali di nostra scelta, cercando di restituirne l’essenza, di rievocarli nella memoria.

 

Nel momento di scegliere gli abbinamenti ci si è ritrovati di fronte a una serie di dubbi metodologici: prendere in considerazione il solo testo, tentando di rimanere fedeli all’impalcatura della trama del film?

Scegliere brani musicali affini a quelli già presenti nella pellicola selezionata? 

 

Infine è emerso che l’unica ragionevole strategia di azione era, al contrario, quella di non affidarsi a nessun tipo di organizzazione stabilita a priori; le associazioni sono allora state quanto più naturali possibili, quasi similmente a un processo di stampo surrealista, se volete: qualcuno ha sognato una mano piena di formiche, qualcun altro un occhio e un rasoio… no, questa forse era un’altra storia.

 

Tralasciando gli scherzi, gli abbinamenti derivano unicamente dalla percezione personale, dal gusto individuale, dalla soggettività dei singoli redattori coinvolti, senza aver la presunzione di affermare che queste siano le correlazioni più giuste o più corrette in assoluto: le associazioni proposte spaziano tra i generi, sia musicali che filmici, al fine di restituire un quadro quanto più - si spera - interessante e stimolante possibile.

 

E voi siete d’accordo con le nostre scelte?

 

Quali sarebbero state le vostre?

 

[Introduzione a cura di Simone Braca

[Veste Grafica a cura di Drenny DeVito]

 

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Questa Top 8 è stata scelta tramite sondaggio da Gli Amici di CineFacts.it! 

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Posizione 8

Quel che resta del giorno 

di James Ivory (1993)

Knee 5 

di Philip Glass (1976)

 

La prima impressione dopo aver terminato la visione di Quel che resta del giorno è di aver assistito a una narrazione cristallizzata nel tempo, immobile, di eterna bellezza. 

Il film del 1993 diretto da James Ivory racconta in flashback la vita di Mr. James Stevens (Anthony Hopkins), maggiordomo della magione di Darlington Hall, nelle campagne inglesi, durante gli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale.

Un’epoca strana, dove i lord e i proprietari terrieri si stanno lentamente estinguendo, e con loro le svilenti condizioni in cui versa la servitù domestica.

 

Contesti fatti di giornali stirati, argenterie lucidate a specchio e posaterie la cui distanza viene misurata col righello.

Luoghi da fantascienza sociale, dove essere cameriera, maggiordomo o sguattera significa essere trattati come delle bestioline senza intelletto e dignità. 

Stevens vive nell’auto-annullamento, reprimendo pensiero e sentimenti, fino all’arrivo di Miss Sally (Emma Thompson), nuova governante al servizio di Lord Darlington.

Sarà lei che riuscirà a vedere attraverso la corazza del maggiordomo, protendendosi verso l’uomo che vi si cela dietro, sperando di riuscire anche solo a sfiorarlo. 

Quel che resta del giorno è un film impeccabilmente diretto che bisbiglia di rimpianti, errori, amori sottili e dello scorrere impietoso del tempo.

 

Philip Glass, pianista e compositore, è un mostro creativo che non ha bisogno di presentazioni. Un artista per il quale la lusinga iperbolica non è mai smodata, dato che il suo contributo al mondo del Cinema e della Musica non rende possibile la smentita. 

Knee play 5 - segmento dell’opera Einstein on the Beach - si apre con un organo elettrico, profondo, evocativo e ancestrale, che riporta alla memoria le note del capolavoro sfornato nel 1982 dal polistrumentista americano per Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio.

 

A pochi secondi dall’inizio entra il coro femminile.

Il testo cantato è ininfluente, una semplice conta: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8.

Si aggiungono due voci di donna che recitano parole rapide, dialogando e sovrapponendosi.

E, anche in questo caso, non c’è da prestare troppa attenzione ai significanti espressi. 

È un “chiacchiericcio di fondo”, forse come quello che ci accompagna quotidianamente nelle nostre vite. 

Glass porta questo mantra ipnotico all’estremo, lo sfinisce - rilanciando su un incipit che sembra non arrivare mai - fino al momento in cui, al minuto 3:56, il coro si ammutolisce e irrompe il violino. 

Chi ha avuto la pazienza di aspettare viene ricompensato: è una melodia malinconica, benedetta, che sembra poter spezzare le barriere del tempo.

 

Poi… arriva il narratore. Una voce maschile, chiara ed eterna, esplicita:

The day with its cares and perplexities is ended and the night is now upon us.

The night should be a time of peace and tranquillity, a time to relax and be calm.

 

Inizia il racconto.

E che sorta di storia si potrà mai dire, se non a familiar story, a story that is so very, very old, and yet it is so new. It is the old, old story of love.

Coro e violino crescono. 

 

Two lovers sat on a park bench with their bodies touching each other, holding hands in the moonlight. There was silence between them.

So profound was theire love for each other, they needed no words to express it. And so they sat in silence, on a park bench, with their bodies touching, holding hands in the moonlight.

 

La melodia continua impetuosa e il protagonista si confessa.

 

I love you more than tongue can tell.

You are the light of my life. My sun, moon and stars.

You are my everything.

Without you I have no reason for being.

 

Il narratore si unisce al coro e al violino formando un’unica voce in un crescendo sublime, fino al raggiungimento del climax, dove ogni cosa si compie. 

Il tempo è fermo.

 

Disponibile su NetflixGoogle PlayApple iTunesChili, Microsoft StoreRakuten TV.

 

[A cura di Adriano Meis]

 

Posizione 7

Will Hunting - Genio Ribelle

di Gus Van Sant (1997)

I Could Have Lied 

di Red Hot Chili Peppers (1991)

 

Il brano del 1991 I Could Have Lied descrive la rottura della breve relazione tra Anthony Kiedis - frontman dei Red Hot Chili Peppers - e la cantante irlandese Sinéad O’Connor.

 

La canzone nasce come forma di terapia, utile a superare la separazione, da un suggerimento di John Frusciante - chitarrista della band - allo stesso Kiedis.  

 

Will Hunting di Gus Van Sant, per la sceneggiatura di Matt Damon e Ben Affleck, racconta la catarsi psicologica del protagonista, mettendolo al centro di una storia il cui solo scopo è quello di permettergli di elaborare i propri traumi e distruggere quel meccanismo di autodifesa che gli impedisce di accorgersi "del biglietto della lotteria sul quale poggia il proprio culo, ma che è troppo vigliacco per incassare" (semicit.).   

 

Un tema distante dalla ballata malinconica di Kiedis, eppure capace di adattarsi alla psicologia di Will, spostando i temi del rapporto di coppia a quelli di Will con l’esterno.   

 

Will è preda delle pieghe dell’America migliore e peggiore, pulendo come inserviente le aule dell’MIT (Massachusetts Institute of Technology) nelle quali dovrebbe invece lavorare come genio della matematica.

Il protagonista, invece, vive la propria esistenza con un costante senso di rancore verso qualcosa all'interno di se stesso che non riesce a disinnescare.

 

Un carattere distorto, la mente di un bambino che si sente colpevole d’innocenza e l’adulto disilluso da qualcosa che sembra sempre troppo bello per essere vero o troppo vero per essere bello, generando conflitto e contrasto ogniqualvolta si renda necessario allontanarsi, guardando ai possibili problemi che lo aspettano giù lungo la strada, a dieci miglia di distanza rispetto a dove si trova, usandoli come alibi.

 

There must be something In the way I feel / That she don't want me to feel

 

Skylar (Minnie Driver) rappresenta la relazione perfetta.

 

 

La ragazza legge fra le pieghe di Will qualcosa che la spingerebbe a strappargli via dall’anima quel dolore per lasciarlo guarire tra le sue braccia, anche se Will, in realtà, ha già pianificato la sua reazionaria fuga dalla felicità.

 

Sean (Robin Williams), il terapista del ragazzo, vede dietro il volto di Will un giovane uomo brillante ma vittima dell’ombra di un sequestratore emotivo, un cancro emozionale la cui unica cura è lui stesso, l’accettazione e la disgregazione di quel qualcosa che prova e invece non dovrebbe.

 

A mountain never seems to have / The need to speak / A look that shares so many seek 

 

Will Hunting e I Could Have Lied sono dominati da un dolente senso di abbandono e sofferenza, perfettamente veicolati dalla distorsione della chitarra di John Frusciante e dalla voce di Kiedis.

 

Il brano sa di anni '90, riporta alle case diroccate dei sobborghi di Boston, proietta immagini sul fumo delle sigarette, ricorda lo sguardo sommesso e fiero di Will, il suo gruppo disordinato di amici, e ci porta a camminare nell’autunno perenne descritto dal film.

 

Disponibile su SkyNow TV, Google PlayApple iTunesChili.

 

[a cura di Alessandro Dioguardi]

 

Posizione 6

Happiness - Felicità 

di Todd Solondz (1998)

Black Hole Sun 

di Soundgarden (1994)

 

Come spesso succede nella vita, nulla è come sembra.

 

Ma ciò che risulta davvero tragico e deludente si verifica quando l’essenza è peggiore dell’apparenza.

 

Proprio questo aspetto caratterizza il mio accostamento cinematografico-musicale: il titolo del terzo lungometraggio di Todd Solondz, Happiness - Felicità, e l’apparentemente rasserenante melodia del brano Black Hole Sun dei Soundgarden infatti non sono assolutamente quello che sembrano.

Perché in antrambi i casi, di lieto e tranquillo, in verità non c’è proprio nulla. 

Ambedue le produzioni rappresentano nei fatti una dissacrante e schietta critica alla società statunitense.

 

Happiness - Felicità (premio FIPRESCI al Festival di Cannes nel 1998) potrebbe sembrare un titolo di un film ameno e innocente o addirittura di una commedia romantica e/o motivazionale, ma il regista invece pone questo sentimento come fulcro della sua disturbante analisi.

 

Solondz offre una visione cinica e provocatoria di ciò che si nasconde dietro la facciata perbenista statunitense: un’ossessione implacabile - costellata da perversioni e ipocrisie - per ciò che si pensa che sia la felicità, ma che in realtà si rivela una posticcia condizione priva di valori e significato che porta inevitabilmente al tracollo.

 

Per mostrare questa condizione patologica della middle class a stelle e strisce viene preso come modello lo strato familiare: le famiglie protagoniste della pellicola sono destinate al fallimento umano proprio come la società stessa.

O meglio, proprio perché ne fanno parte.

 

L’intento del lungometraggio è quello di scoprire tutte le degenerazioni che si celano nelle case della provincia americana, proprio come in quel Velluto Blu di lynchiana memoria.

Non è un caso, infatti, che per l’ambientazione dell’iconico video musicale (MTV Video Music Award per il Miglior Video Rock nel 1994) il regista Howard Greenhalgh si sia ispirato proprio alla scena iniziale della quarta pellicola del cineasta americano.

 

Il testo di Black Hole Sun, scritto dal compianto Chris Cornell, indica fin dal principio come quella che viene definita "felicità" rappresenti molto spesso una semplice maschera che non nasconde solo sentimenti diversi ma anche comportamenti di dubbia morale. 

 

In my eyes, indisposed / In disguises no one knows / Hides the face, lies the snake

 

Un'abitudine consolidata in una società che vive in uno stato comatoso tra casa e lavoro, ossessionata dal mito dell’eterna giovinezza (o forse dell’eterna salvezza) e in cui di frequente la slealtà ha vita più lunga rispetto alla correttezza. 

Times are gone for honest men / And sometimes far too long for snakes / In my shoes, a walking sleep / And my youth I pray to keep / Heaven send Hell away / No one sings like you anymore.

 

Ma l’importante in questo contesto è sembrare contenti, avere sempre il sorriso stampato sulla faccia: proprio come i ridicoli protagonisti medio borghesi del videoclip dei Soundgarden che tendono a sforzare all’inverosimile i loro sorrisi nonostante l’arrivo imminente dell’apocalisse, il Black Hole Sun che dà il titolo alla canzone.

 

Come loro, anche i personaggi della pellicola di Solondz, per i quali la ricerca della felicità è solo una scusa per giustificare i propri difetti e conformarsi a una mentalità che pretende di far coincidere l’essere con l’apparire.

 

Anche in questo caso, però, nulla è come sembra.

 

Acquistabile su Amazon.

 

[a cura di Jacopo Troise]

 

Posizione 5

WALL•E

di Andrew Stanton (2008) 

Ladies and gentlemen we are floating in space (I can't help falling in love)

di Spiritualized (1997)  

Ladies and gentlemen we are floating in space (I can't help falling in love) è la prima traccia del disco omonimo degli Spiritualized.

La band inglese, che oscilla tra lo shoegaze e la neo-psichedelia ed è in attività dal 1990, ruota intorno alla figura di Jason Pierce.

 

La formazione iniziale della band comprendeva anche la tastierista Kate Radley, ex fidanzata di Pierce, che sposò però segretamente Richard Ashcroft, il frontman dei Verve.

 

Questo gravoso tradimento e una lunga dipendenza dalle droghe diventano il seme da cui nasce e cresce un album che non è solo un progetto artistico, ma un vero proprio sfogo, exploit di un cuore distrutto.

 

In particolare la title track Ladies and gentlemen we are floating in space (I can't help falling in love) è una ballata malinconica e struggente di un uomo solo. 

 

Al testo originale di Pierce confluisce parte di Can't help falling in love di Elvis Presley.

Synth, archi, chitarre si intersecano per esprimere il più semplice, il più elementare, ma soprattutto il più umano dei desideri: amare ed essere amati.

 

All I want in life’s a little bit of love / To take the pain away / Getting strong today / A giant step each day

 

Amare fuori dal tempo, al di là dei confini geografici, nella dimensione più neutrale possibile: lo spazio.

L'amore è un sentimento impalpabile e due amanti non camminano, fluttuano; è il frutto di due anime che si scambiano parole, pensieri, fluidi, una dimensione a doppia corsia, mai totalmente esplicabile, di cui non conosciamo un limite reale e che è paragonabile soltanto all'infinità dell'universo.

 

I will love you 'til I die / And I will love you all the time / So, please, put your sweet hand in mine / And float in space and drift in time / All the time until I die / We'll float in space, just you and I 

 

L’animazione, per antonomasia, ha la possibilità di concretizzare delle immagini impossibili e dare delle forme ai sentimenti che la natura sfortunatamente non ci ha fornito.

 

I buoni film d’animazione estrapolano e impacchettano dei concetti che altrimenti non avrebbero riscontro visivo.

 

Ascoltando questo brano l'ho associato immediatamente - in modo quasi infantile e sicuramente istintivo - a una scena in particolare del film WALL•E: il bacio e la danza tra il protagonista e la robottina Eve che… fluttuano, appunto, nello spazio.

 

Ecco brevissimamente la sinossi del film Pixar: in un futuro distopico e post-apocalittico la terra è un pianeta disabitato, gli umani hanno abbandonato il pianeta alla scoperta del cosmo, lasciandolo sommerso dai rifiuti. Poco prima dell’esodo sono stati lasciati sulla Terra dei robot spazzini chiamati WALL•E. 

Dopo 700 anni ne è sopravvissuto solo uno.

 

L’ultimo WALL•E continua a svolgere il suo compito ispezionando e compattando rifiuti, ma nel frattempo sviluppa atteggiamenti umani: ne comprendiamo la solitudine, l’alienazione, l’insofferenza verso la monotonia, la curiosità verso la volta celeste e ciò che nasconde.

Dalle sue lenti sporche si può scorgere un guizzo di commozione mentre guarda e riguarda Hello, Dolly!, un musical pluripremiato del 1969, con Barbra Streisand e Walter Matthau

 

Il bisogno di interagire con l’altro è palese nel momento in cui il dolcissimo robot mima il gesto di abbracciare un’altra persona, come nelle scene che adora. 

 

Tutto cambierà quando sulla Terra giungerà il robot-sonda Eve.

 

Eve salva WALL•E dalla sua solitudine apparentemente ineluttabile e, insieme, realizzano quel semplice desiderio di un amore siderale e atemporale, comprensibile agli occhi di un bambino e al cuore di un adulto, di cui parla Ladies and Gentlemen we are floating in space (I can't help falling in love).

 

Disponibile su Disney+.

 

[A cura di Lorenza Guerra]

 

Posizione 4

Valhalla Rising - Regno di sangue

di Nicolas Winding Refn (2009)

Fjara

di Sólstafir (2011) 

 

In principio c'erano solo l'uomo e la natura.

Gli uomini vennero portando croci e guidarono i pagani ai margini della Terra.

Incipit di Valhalla Rising

 

Una frase che da sola racchiude tutto ciò che è il film del 2009 di Nicolas Winding Refn, presentato a Toronto e Venezia: un'opera che racconta le vicende del combattente vichingo One Eye (Mads Mikkelsen) nel mondo nordico dell'XI secolo, tra crociate, pagani e cristiani, ma che soprattutto cerca di costruire un'atmosfera e uno spazio in cui entrare in connessione con l'uomo e con il suo viaggio.

 

Qui entra in gioco Fjara, canzone dei Sólstafir, tratta dall'album Svartir Sandar del 2011 e pezzo più noto della band islandese che oscilla tra il post-metal, il post-rock e il black metal.

Nasce lenta, trascinata e rituale per poi esplodere in un grido di rabbia: sembra riportarci immediatamente nelle colline nebbiose e inospitali del film di Refn.

 

"Art is an act of Violence"

Nicolas Winding Refn

 

Proprio il rapporto strettissimo che si crea in Fjara tra la ritualità - che si espleta nell'attesa e nella ripetizione dei primi minuti - e la rabbia che invece esplode nel grido del cantante Aðalbjörn "Addi" Tryggvason è stato uno degli aspetti che mi ha subito fatto pensare a Valhalla Rising: natura e violenza, religione e rabbia, nostalgia e un mondo morente.

 

Entrambe le opere raccontano una discesa all'inferno verso un'inevitabile disfatta, un percorso di ricerca che disvela due dei grandi riferimenti del film, ovvero Werner Herzog e Terrence Malick, che da sempre parlano di natura, di superuomini sconfitti e religione.

 

Da un lato la desolazione e la nostalgia che diventano rabbia, dall'altro uno schiavo, dalle caratteristiche che ricordano quelle di un semidio, che prima si trasforma in guerriero e infine attraverso il sacrificio sembra diventare immortale.

 

Tanto One Eye quanto il mondo attorno a lui crescono e cambiano con la progressione dei capitoli presentati dal film (Wrath, Silent Warrior, Men of God, The Holy Land, Hell e Sacrifice), raggiungendo attraverso la rabbia e la violenza una catarsi - tra il mistico e il religioso - che ritroviamo sia nella voce femminile sia nei bellissimi cori quasi angelici del finale di Fjara.

 

"Le promesse infrante non saranno più le stesse"

Un verso di Fjara

 

Il dubbio religioso - e di conseguenza la guerra tra panismo pagano e monoteismo cristiano - è uno degli snodi principali di Valhalla Rising e in questo il grido di Fjara sembra estremamente vicino.

 

Non solo nei silenzi e nelle promesse di cui parla il testo, ma nell'immagine che la canzone dei Sólstafir sembra costruire: un urlo contro il vento e contro il cielo, dal picco di una scogliera scandinava.

 

Come dimenticare poi la violenza, il tratto fondante del Cinema refniano e una delle pietre angolari del black metal (e del post-metal che ne è naturale evoluzione): un misto tra brutalità e coreografia, tra estetica e sofferenza che non si limita solo a un gusto per il combattimento (mai così brutale e sporco nella carriera del regista danese), ma che permea la natura, i dilemmi e i pensieri di entrambe le opere.

 

Non solo un'assonanza geografica, ma una vera e propria vicinanza di sensazioni.

 

Disponibile su MUBIGoogle PlayChili.

 

[a cura di Fabrizio Cassandro]

 

Posizione 3

Il segreto dei suoi occhi

di Juan José Campanella (2009)

Historia de un amor

di Carlos Eleta Almarán (1955)

 

Una passione fortissima. La separazione forzata.

Lo scorrere inesorabile del tempo. Il Sudamerica.

 

Se vi dessi queste coordinate e vi chiedessi di chiudere gli occhi e di pensare a una canzone, forse non ci mettereste molto a citarmi Historia de un amor, scritta nel 1955 sotto forma di bolero dal cantautore panamense Carlos Eleta Almarán, incisa per la prima volta dall’argentino Leo Marini e divenuta famosissima in tutto il mondo grazie alle sue continue reinterpretazioni in più lingue e secondo più arrangiamenti.

 

Se invece voi mi chiedeste di condurvi a un film che mi fornisca le stesse sensazioni della canzone, partendo dalle medesime coordinate, io vi risponderei senza alcun dubbio e senza esitazione Il segreto dei suoi occhi, pellicola capace di vincere l’Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera nel 2010.

 

Le due opere toccano le stesse medesime corde.

Attraverso un romanticismo malinconico - ma mai melenso - e un’innata capacità di lasciarci percepire la dilatazione temporale che intercorre tra il tempo della narrazione e i ricordi rievocati, film e canzone riescono a descrivere i patemi di un amore mai del tutto compiuto e le conseguenze che questa privazione ha avuto sulla vita dei propri protagonisti.

 

Ne Il segreto dei suoi occhi, un amore perfettamente paragonabile a quello narrato nella canzone potrebbe senz’altro essere incarnato tanto da quello impossibile tra i protagonisti, Benjamin e Irene, quanto da quello bruscamente interrottosi tra le due vittime, Ricardo e Liliana.

 

Ma, a ben vedere, un sentimento così è declinabile secondo più prospettive, ciascuna delle quali viene fortemente influenzata dalla nostalgia e allo scorrere del tempo.

 

Cos’è, se non un fortissimo amore per la verità, a spingere Benjamin (interpretato da un monumentale Ricardo Darìn) a indagare tanto a fondo nell’omicidio di Liliana fino a spingersi all’auto-esilio?

Cos’è, se non la passione, declinata nelle proprie accezioni, il comune denominatore di ciascuno degli snodi di trama di quest'opera?

 

Cos’è, se non un grandissimo atto di amore verso l’Argentina, questo film di Juan José Campanella, regista allontanatosi dalla patria negli anni precedenti per trovare il successo negli Stati Uniti e tornato a casa per girare il suo capolavoro? 

 

Esattamente come nel pezzo scritto da Almarán, nel film di Campanella l’amore e le privazioni rappresentano un pretesto per mettere sotto una luce diversa e comprendere gli avvenimenti e le contraddizioni (todo el bien, todo el mal) di un’intera nazione.

L’Argentina che ne emerge è mossa da passioni profonde e lacerata da ferite inarginabili.

L’attenzione profondissima apprestata alle dinamiche più intimiste nei rapporti tra individui si intreccia con la voglia di dipingere un affresco sempre più ampio e dettagliato di una terra che vive di chiaroscuri.

 

Se Historia de un amor, in ciascuna delle sue interpretazioni è in grado di fornirci una sfumatura diversa - un po’ tango, un po’ ballata e, perché no, pezzo di musica leggera - allo stesso modo Il segreto dei suoi occhi è in grado di assumere conformazioni diverse man mano che la narrazione progredisce. Un po’ poliziesco dalle venature thriller, un po’ melodramma, il film, sceneggiato da Campanella e dal romanziere Eduardo Sacheri, raggiunge dei momenti di elevatissima raffinatezza nella commistione tra generi e temi, senza mai sfilacciarsi e tradire la propria anima. 

 

Un’opera complessissima, che potremmo tranquillamente inserire tra le migliori dell’ultimo ventennio e che, ovviamente, non poteva che generare un - a mio avviso dimenticabile - remake statunitense. 

 

Indimenticabili sono invece le sensazioni che Campanella e Almarán ci hanno provocato con le loro opere, che sembrano nate per restare saldamente assieme nel nostro immaginario.

 

Disponibile su Rakuten TV, Google Play, Chili e Tim Vision.

 

[a cura di Jacopo Gramegna]

 

Posizione 2

Blue Jay

di Alex Lehmann (2016)

Alone Together

di Chet Baker (1959)

 

Malinconia, non tristezza.

Questo il sentimento dominante, non unico, che accomuna Alone Together e Blue Jay, opere tanto diverse quanto così banalmente connesse.

 

Il brano risale al 1932, composto da Arthur Schwartz per un musical di Broadway, ma è qui considerato in una sua peculiare versione, solo strumentale.

 

Nel 1959 esce Chet, album di Chet Baker, trombettista tra i più noti esponenti del cosiddetto cool jazz, e la prima traccia è proprio un'interpretazione di quello che diventerà, in seguito, un classico del genere (e non solo).

 

Baker, per Alone Together, si avvale di cinque collaboratori di livello assoluto: Herbie Mann al flauto contralto, Pepper Adams al sassofono baritono, Connie Kay alla batteria, Paul Chambers al basso e Bill Evans al pianoforte.

 

Il sestetto confeziona una chicca dalle sonorità indimenticabili, nel segno di una malinconia ora velata ora dolcissima, nel suo essere struggente.

 

Il tocco delicato di Evans commenta e sostiene, assieme al meno evidente (ma non meno importante) lavoro di Chambers e Kay, interazioni e alternanze dei tre attori principali.

 

In apertura tromba, sax e flauto tendono a non sovrapporsi, privilegiando suoni lunghi e gravi, creando un ritmo lento e, appunto, malinconico.

Solo in seguito il sound acquisisce un po' di vivacità, con note acute e una cadenza più sostenuta, convergendo però, comunque, verso una conclusione morbida e toccante, con Baker, Adams e Mann che stavolta sì, interagiscono, interagiscono alla grande. 

Parte di tali atmosfere e di tali dinamiche è presente, in modo chiaramente diverso, anche in Blue Jay.

 

Questo film è un ottimo esempio di un Cinema indipendente americano che possiamo definire post-mumblecore, originatosi nel solco del movimento dei primi anni Duemila e (macro)caratterizzato da un certo raffinamento formale e contenutistico.

Il che, considerate le premesse, non è necessariamente un merito.

 

Diretta da Alex Lehmann, già direttore della fotografia, la pellicola è prodotta tra gli altri dai fratelli Duplass, autori appartenenti al (defunto?) filone mumblecore

Mark Duplass, unico sceneggiatore, è inoltre co-protagonista assieme alla bravissima Sarah Paulson: i due impersonano Jim e Amanda, ex-fidanzati di liceo che si incontrano per caso, più di vent'anni dopo, nella cittadina natale.

Ricordi e rimpianti si mescolano inesorabilmente, come le loro personalità, tratteggiando passato, presente e, chissà, futuro.

 

In tal senso, potrebbe essere istituito un paragone col drammaturgo Henrik Ibsen, sia dal punto di vista della scrittura che della rappresentazione: mi riferisco, ad esempio, al tema della memoria, alla tecnica analitica del dialogo (qui sfruttata per fini diversi, non simil-sociologici) e all'importanza dei conflitti, latenti o espliciti, interiori o interpersonali.

Considerato ciò, la scelta del bianco e nero elegantissimo e curato dallo stesso regista si rivela particolarmente sensata, specie quando esso è accompagnato da una colonna sonora, poco sfruttata, così intimista.

 

Giocando abilmente con profondità di campo e di fuoco (calibrando ciò in funzione della scenografia, à la Ibsen) e prediligendo una regia statica e gentile, non di rado concentrata anche sul contesto di provincia, Lehmann realizza un'opera sui cui aleggia un onnipresente senso di malinconia, più o meno lampante, anche nei fraseggi apparentemente spensierati.

 

Come tromba, sax e flauto, o come parte iniziale e intermedia del brano di Chet Baker, Jim e Amanda sembrano spesso avvicinarsi o confrontarsi, ma talvolta i dialoghi appaiono come somma di monologhi, che si intersecano giusto qua e là.

 

Disponibile su Netflix e Google Play.

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 1

Il diritto di contare

di Theodore Melfi (2016)

Woman is the nigger of the world

di John Lennon (1972)

 

Nel 1961 la corsa allo spazio vedeva in vantaggio l’Unione Sovietica grazie all’astronauta Jurij Gagarin che, portando a termine la sua missione di volo a bordo della Vostok 1, diede uno schiaffo agli Stati Uniti in mondovisione, mostrando come anche i sovietici potessero essere competitivi nell’ambito aerospaziale.

 

L’intensità del fervore tecnologico e scientifico che smuoveva gli USA in quegli anni, esemplificato dagli ambiziosi programmi spaziali NASA come i celebri Mercury e Apollo, era purtroppo proporzionale alla forza con cui un’illegittima ideologia razzista era tenacemente radicata nella mente dei bianchi che sfruttavano, disprezzavano e umiliavano la comunità afroamericana.

 

È in questo clima di piena segregazione razziale che si sviluppano gli eventi de Il diritto di contare, film che racconta la vera storia della scienziata della NASA Katherine Johnson (Taraji P. Henson) e delle sue amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), tutte e tre donne appassionate e incredibilmente dotate per le materie tecnico-scientifiche, con due soli problemi: non essere bianche e non essere uomini. 

 

Perché, come se non bastasse lo "sfortunato" colore della pelle, un grosso ostacolo dell'epoca era essere donne, pretendendo che ciò non fosse sinonimo di essere una "fabbrica di bambini", donna delle pulizie, cameriera o cuoca che avrebbe fatto trovare la cenetta pronta al proprio caro marito lavoratore.

 

Il film di Theodore Melfi mostra la cattiveria delle umiliazioni sociali che le donne afroamericane hanno subito in quegli anni - e che purtroppo in alcuni casi continuano a subire -  essendo allo stesso tempo un grido di ribellione da parte di coloro che decisero di non sottostare a regole dettate da ignoranza e immotivata convinzione di superiorità.

 

Lo stesso grido che undici anni dopo irruppe nelle radio americane prima e mondiali poi, con l’irriverente aspra voce del cantautore inglese John Lennon che urlava “Woman is the nigger of the world”, criticando gli atteggiamenti sessisti che affliggevano le donne, rappresentate nella canzone come vittime del mondo intero, negre del pianeta, schiave per lo schiavo stesso.

 

Com’era prevedibile in una società perbenista che, anche se temporalmente distante da quella de Gli indifferenti di Alberto Moravia, ne era affine per falsità e ipocrisia, il brano di Lennon fu vittima di una forte censura a causa della parola “nigger”.

 

L’uso del dispregiativo, però, era una palese provocazione nei confronti di un sistema che sminuiva la donna e, al contempo, denigrava gli afroamericani.

 

When she's young we kill her will to be free,

While telling her not to be so smart we put her down for being so dumb

 

Ne Il diritto di contare Katherine, Dorothy e Janelle sfidano con azioni concrete il razzismo e la misoginia dilaganti, lottano per far sentire la loro voce e non essere figure nascoste in un ambiente monopolizzato da maschi bianchi, agli occhi dei quali loro sono semplicemente degli esseri mentalmente inferiori, i cui unico pensiero dovrebbe essere il binomio casa-prole.

 

La voce arrabbiata di John Lennon è la rabbia di un’epoca, di un movimento.

 

È la voce femminile afroamericana che rivendica il diritto all’istruzione, la possibilità di usare gli stessi mezzi di trasporto o bagni pubblici dei bianchi e l’accesso a qualunque tipo di lavoro.

 

È un grido al diritto di contare.

 

Disponibile su Disney+, Google Play, Infinity, Apple iTunes, Chili, Rakuten TV.

 

[a cura di Morena Falcone]

 



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2 commenti

Adriano Meis

2 anni fa

Ohibò, sono un intellettuale? E io che mi credevo cazzaro.
Felice che ti sia piaciuta Knee 5. Glass è un mostro.

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Morena Falcone

2 anni fa

I complimenti da parte tua per un pezzo del genere vengono doppio 💛

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