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Gli 8 migliori film secondo CineFacts.it: 1960/1969

Dal 1960 al 1969: quali sono i migliori titoli del decennio secondo la redazione di CineFacts.it   

Nuovo appuntamento con le classifiche cattive di CineFacts.it: questa volta le decisioni complicatissime riguardano i film degli anni '60. 

 

Come potete immaginare dal decennio, questa non è la prima classifica di questo genere: grazie al tag Top di Decennio potete ritrovare tutte quelle pubblicate finora, ma per vostra comodità vi riportiamo qui gli articoli singoli nel caso foste interessati a un solo decennio in particolare. 

 

I migliori film dal 2010 al 2019

I migliori film degli anni 2000 

I migliori film degli anni '90

I migliori film degli anni '80 

I migliori film degli anni '70 

 

Lo abbiamo ribadito prima di ogni selezione appartente a questo diabolico ciclo e, anche in questo caso, non ci esimiamo dal ricordarvi che le nostre classifiche di decennio non nascono con un'intenzione superba o classista: sono invece un modo per parlare di Cinema e come tali andrebbero affrontate e discusse.

 

Possibilmente senza rotolarsi nel guano per l'assenza di tale titolo o farsi venire l'orticaria per la presenza di un altro.  

 

Questo tipo di contenuti aiuta noi a fare il punto su che tipo di Cinema ci ha entusiasmato negli anni e magari può aiutare voi a riscoprire titoli finiti nel dimenticatoio, o a parlare dei film che avete amato e che qui non vedete citati.

 

O che magari vedete nelle prime posizioni. 

 

 

[Stanley Kubrick sul set di 2001: Odissea nello spazio. In questa Top 8 il regista americano si porta a casa ben due posizioni]

 

 

Se le classifiche precedenti avevano dato il via a suicidi redazionali di massa, lotte intestine e sputi negli occhi fra redattori, con gli anni '60 la situazione è drasticamente peggiorata.

 

Il sesto decennio del '900 è stato infatti fonte inesauribile di capolavori cinematografici, popolato da autori capaci di innovare e inaugurare nuovi generi, oltre ad aver confermato l'importanza di movimenti che avrebbero segnato idelebilmente il Cinema a venire.

 

Ma procediamo con ordine. 

Partiamo da casa nostra.

 

Il decennio successivo alla nascita del Neorealismo si inaugura col botto, regalandosi la bellezza di 160 film solo nel 1960 (dei queli ben 61 co-produzioni con la Francia della Nouvelle Vague): dopo l'energica rinascita avvenuta dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Cinema Italiano entra nella sua fase di massimo splendore.

La macchina produttiva italica ha modo di esultare - e continuare a investire - a fronte del successo internazionale di pellicole come La dolce vita, La grande guerra e Il generale Della Rovere.

 

Il 1960 è un anno d'oro, un anno di grande Cinema: i titoli più premiati dal botteghino - in appena 12 mesi - sono Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini e il già citato La dolce vita di Federico Fellini.

 

Un annetto come un altro, insomma.

 

 

[Sophia Loren è La ciociara di Vittorio De Sica. Nemmeno un votante in redazione: forza, aprite il fuoco]

 

 

Il Cinema italiano si trova in un periodo di profondo cambiamento, dove molti suoi autori inaugurano sperimentazioni narrative e mutano i modelli iconografici, destabilizzando così la critica nostrana.

 

L'avventura (1960), La notte (1961), L'eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Blow-Up (1966), La dolce vita (1960), 8 ½ (1963), mirabili opere di Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, in fase di recensione vengono tacciate di incompletezza e frammentarietà da critici sì autorevoli, ma troppo spiazzati dal cambiamento per comprenderne appieno la brillante innovazione e i risvolti esistenzialistici.

 

Anni '60 vuol dire anche - e soprattutto - Cinema di genere.

 

Nel decennio preso in analisi si muovono ben quattro generazioni di registi che operano in totale libertà creativa e finanziaria, in molti casi trasformandosi in veri e propri "artigiani cinematografici", godendosi il boom produttivo e generando produzioni diametralmente opposte a quanto si era visto in precedenza, in perfetta sintonia col "nuovo gusto" degli spettatori che gremivano le sale.

 

La libertà creativa appena citata si traduce in un polimorfismo contenutistico e di toni, esplosivo nell'horror - gotico, provocatorio e liberissimo - di Mario Bava (I tre volti della paura, La frusta e il corpo, Operazione paura); graffiante nella sua indagine storica/politica/civile con Gillo Pontecorvo (Kapò; La battaglia di Algeri), Nanni Loy (Un giorno da leoni; Le quattro giornate di Napoli) e Francesco Rosi (Salvatore Giuliano; Le mani sulla città).

 

Ma anche autoironico e caustico nella commedia all'italiana di Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi ComenciniEttore Scola, Antonio PietrangeliPietro Germi, Luigi Zampa, Luciano Salce.

 

 

[Uno spietato Klaus Kinski ne Il grande silenzio (1968), l'anti-western di Sergio Corbucci]

 

 

Come avremo modo di notare dall'ingombrante presenza di Sergio Leone nelle nostre votazioni, il Cinema Italiano degli anni '60 ha anche l'enorme merito di lasciarsi andare a ottime sperimentazioni, ardite, pronte a sfidare Hollywood sul suo stesso territorio, reinventando il western nei modi narrativi, nelle mitologie, nella composizione, nella morale dei suoi protagonisti, oltre che nella geografia.

 

Emblematici in tal senso la sua Trilogia del dollaro, dove gli echi del Maestro Akira Kurosawa sono vibranti, Il buono, il brutto, il cattivo e C'era una volta il West.

Ma "spaghetti western" non vuol dire solo Leone: Sergio Garrone, Giuseppe Colizzi, Sergio Corbucci, Sergio Sollima, e gli stessi Lucio Fulci e Mario Bava si cimentarono coi revolver e i polverosi paesaggi del "vecchio ovest".

 

Lo storico del Cinema Gian Piero Brunetta definisce così questa fase:

"La bottega artigiana di Cinecittà raggiunge il punto di creatività più alta della sua Storia.

Livelli diversi, finora indipendenti fra loro, sembrano darsi la mano e muoversi alla conquista del pubblico internazionale.

Per più di una decina d'anni si registrano le performance d'un cinema onnivoro, attraversato da sindromi d'onnipotenza e da uno spirito d'avventura [...]"

 

Sostanzialmente, gli anni '60 del Cinema italiano sono un universo mastodontico, troppo grande per essere affrontato - ci perdonerete - in poche righe e meritevole invece di essere studiato approfonditamente sui manuali di Storia Cinematografica

 

 

[Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Caposaldo del Cinema mondiale e della Nouvelle Vague ma... lo sapete, niente posizione in classifica]

 

 

Che dire poi dei cugini d'oltralpe, i francesi della Nouvelle Vague?

 

In accordo con gli stilemi narrativi e contenutistici del nostro Neorealismo, le storie raccontate dal Cinema transalpino si rivolgevano alla gente, raccontando realtà minute del popolo, comprensive del dolore postbellico, la povertà, le difficoltà quotidiane dell'uomo della strada.

Gli orpelli tecnico-stilistici vengono eliminati dai film, che si esprimo invece per mezzo di sceneggiature abbozzate e - spesso - attori non professionisti.

 

Come scritto dal nostro Pierluca Parise in questa bella Top 8 dedicata alla Nouvelle Vague

"Se un tempo le sceneggiature, predefinite e assolutamente consolidate ancor prima di iniziare le riprese, erano dunque una parte indispensabile dell'intero processo creativo cinematografico, nelle logiche della Nouvelle Vague esse perdono rilevanza e diventano al contrario abbozzate, provvisorie e suscettibili di continue modifiche ed evoluzioni, anche durante la stessa lavorazione del film.  


Per la prima volta, in modo così esplicito e dichiarato, la forma assume la stessa rilevanza del contenuto.

Nei film della Nouvelle Vague, infatti, l’accento non viene posto tanto sulla storia, intesa nella sua accezione squisitamente classica, quanto piuttosto sul modo di raccontarla.   

 

Alfred Hitchcock diceva che il Cinema fosse la vita con le parti noiose tagliate; ebbene, nel cinema della Nouvelle Vague il principio si rovescia e la realtà, così come ci appare, si fa oggetto di una rappresentazione priva di censure o forzature; tutte le parti di stallo, quelle cioè che nella nostra vita quotidiana costituiscono dei momenti di pausa, come di attesa di qualcosa tra un fatto e un altro fatto, tra un’azione e un’altra azione, vengono in questo caso non solo mostrate, ma anche e soprattutto esaltate." 

 

Sono anni in cui il tricolore francese si fregia dei nomi di François TruffautJean-Luc GodardJacques Rivette, Agnès VardaClaude Chabrol ed Éric Rohmer, mattatori assoluti della rivoluzionaria corrente cinematografica.

 

 

[Dustin Hoffman è Benjamin Braddock in Il laureato di Mike Nichols]

 

 

E oltreoceano?

Che accadeva a Hollywood?

Il Cinema statunitense, fino alla fine del decennio compreso fra il 1960 e il 1970, versava in uno stato di fortissima crisi.

Gli spettatori abbandonarono infatti le sale cinematografiche del paese per accomodarsi nei propri focolai domestici, invasi nel frattempo dal nuovo medium che stava cannibalizzando il cinematografo: la televisione.

 

La critica USA, inoltre, travolta dall'entusiasmo derivato dalle pellicole in arrivo dalla "Vecchia Europa" sfornate principalmente da Italia e Francia, aveva ben poco riguardo per le - esauste e stentoree - produzioni hollywoodiane.

 

È solo con pellicole "di rottura" come Il laureato (1967) di Mike Nichols, Gangster Story (1967) di Arthur Penn ed Easy Rider (1969) di Dennis Hopper che si posiziona idealmente l'esordio di quella New Hollywood che stravolse gli stilemi narrativi cononici, esemplificando al contempo la vera controcultura statunitense dell'epoca.

 

In scia agli autori e ai titoli sopracitati, negli anni '70 esordirono registi registi del calibro di Martin ScorseseRobert AltmanBrian De PalmaFrancis Ford CoppolaMichael CiminoWoody AllenSteven SpielbergRidley Scott e George Lucas; si consacrarono inoltre Hal AshbySam PeckinpahSydney PollackMike NicholsArthur Penn

 

Sulla scorta europea, anche gli States - grazie alla New Hollywood - videro la proliferazione di produzioni indipendenti, la nascita di autori 'forti', artefici del proprio destino e con licenza di final cut, oltre alla diffusione di pellicole che raccontavano la tumultuosa quotidianità dell'America con stili e toni differenti, utilizzando anche la leva del 'genere' appresa dai Maestri italiani e francesi.

 

Se l'occidente vide giganteggiare Italia e Francia e assistette alla nascita di un nuovo Cinema americano, in oriente la situazione era frammentaria, ma assolutamente viva nei suoi interpreti.

 

La Cina veniva influenzata dal realismo socialista sovietico realizzando prevalentemente pellicole di propaganda comunista.

 

 

[砂の女 - Suna no onna; La donna di sabbia di Hiroshi Teshigahara]

 

Il Giappone accoglieva il lascito di Yasujirō Ozu con Tardo autunno (1960), L'autunno della famiglia Kohayagawa (1961), Il gusto del Sakè (1962), continuava ad abbracciare i capolavori di Akira Kurosawa (La sfida del samurai; Sanjuro; Anatomia di un rapimento) e l'affermazione di Masaki Kobajashi (La condizione umana; Harakiri; Kwaidan; L'ultimo samurai).

 

Ricordiamo anche la produzione artistica del maestro degli Yakuza movie Seijun Suzuki (La farfalla sul mirino) e del surrealista Hiroshi Teshigahara (La donna di sabbia; The Face of Another), uno dei massimi rappresentatanti della Nuova corrente giapponese (ヌーベルバーグ).

 

Nel mentre, la Corea del Sud assisteva all'esordio di uno dei suoi figli prediletti, l'iper-prolifico Im Kwon-taek (Dumanganga jal itgeola; Jeonjaenggwa noin).

 

Nel concludere questa - panoramica - carrellata sul Cinema degli anni '60 vogliamo ribadire come la redazione di CineFacts.it abbia "gettato il sangue" per operare le proprie dolorissime scelte: in questo decennio, come abbiamo visto, ci sono autori da capogiro, nuove e importantissime correnti oltre a un numero impressionante di capisaldi della Storia del Cinema.

 

 

[Chi sostiene di non amare il barone Fefé di Cefalù di Divorzio all'italiana è solo un lurido baro]

 

Fra gli eminenti esclusi compaiono nomi da brivido come quelli di Luis Buñuel, Michelangelo Antonioni, Roman PolanskiBilly WilderSam PeckinpahDino Risi, George Romero...

Dopo coltellate fratricide abbiamo - colpevolmente - eliminato titoli impressionanti: Jules et Jim, Cul-de-sac, La battaglia di Algeri, Fino all'ultimo respiro, AccattoneIl gattopardo, Lawrence d'Arabia (e tanti, troppi, altri ancora).

 

Ogni redattore, va da sé, ha background, sensibilità e gusti diversi da quelli dei propri colleghi: dai punti di contatto fra queste differenze abbiamo ottenuto la cernita finale.  

Vi pregheremmo pertanto di non lapidarci col vostro disappunto, per il semplice fatto che l'abbiamo già abbondantemente fatto da soli.

 

A fare - parzialmente - da ammenda, ci sono più di 70 titoli e oltre 60 registi diversi proposti dai 18 redattori votanti; sperando che questa Top 8 possa essere fonte di consigli, e che lo possano essere anche tutte le classifiche personali che tra poco potrete leggere prima della selezione ultima.  

 

Ovviamente, aspettiamo i vostri commenti, opinioni e soprattutto le vostre classifiche dei Migliori Film prodotti tra il 1960 e il 1969.

 

[Introduzione di Adriano Meis]

 

 

[La maschera del demonio (1960) del Maestro Mario Bava. Votato, ma niente top finale per lui]

 

 

Prima di iniziare con la classifica, riportiamo di seguito "l'auto-regolamentazione" che ci ha condotto ad essa: ogni redattore che ha voluto partecipare alla stesura ha scelto i propri 10 titoli degli ultimi 10 anni e li ha classificati.     

 

Le regole imposte erano due:     

- I film devono essere prodotti tra il 1960 e il 1969 

- Si potevano scegliere un massimo di 3 film per ogni anno           

 

Per correttezza e trasparenza - oltre che per una vostra eventuale curiosità - ecco le classifiche dei singoli redattori: 

 

Francesco Amodeo

 

2001: Odissea nello Spazio (1968)

Blow-Up (1966)

8 ½ (1963)

La Notte (1961)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

La dolce vita (1960)

Persona (1966)

Cleo: dalle 5 alle 7 (1962)

La mia notte con Maud (1969)

Lawrence d'Arabia (1962)

________________

 

Emanuele Antolini

 

C'era una volta il West (1968)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Fino all'ultimo respiro (1960)

La notte (1961)

8 ½ (1963)

Psyco (1960)

Sei donne per l’assassino (1964)

Persona (1966)

Rosemary's Baby (1968)

________________

 

Marco Batelli

 

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

L'appartamento (1960)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Gli uccelli (1963)

Il Gattopardo (1963)

C'era una volta il West (1968)

La mia notte con Maud (1969)

Persona (1966)

8 ½ (1963)

Matrimonio all’italiana (1964)

 

 

[Soy Cuba di Michail Kalatozov: sei fuori!]

 

 

Simone Braca

 

L'angelo sterminatore (1962)

8 ½ (1963)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

Viridiana (1961)

Il deserto rosso (1964)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966)

L'avventura (1960)

Fino all'ultimo respiro (1960)

Persona (1966)

________________

 

Simone Colistra

 

2001: Odissea nello spazio (1968)

Persona (1966)

C'era una volta il West (1968)

Blow-Up (1966)

Il sorpasso (1962)

L'occhio che uccide (1960)

La farfalla sul mirino (1967)

Divorzio all'italiana (1962)

La sposa in nero (1968)

8 ½ (1963)

________________

 

Morena Falcone

 

8 ½ (1963)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

Psyco (1960)

La dolce vita (1960)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

Matrimonio all’italiana (1964)

Jules e Jim (1962)

Il sorpasso (1962)

Il signore delle mosche (1963)

________________

 

Fabrizio Fois

 

Psyco (1960)

Divorzio all'italiana (1962)

Gli invasati (1963)

I tre volti della paura (1963)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Rosemary's Baby (1968)

Il mucchio selvaggio (1969)

La notte dei morti viventi (1968)

 

 

[È rimasto fuori anche Roman Polanski e il suo Rosemary's Baby. Siamo proprio dei figli del demonio]

 

 

Jacopo Gramegna

 

8 ½ (1963)

Persona (1966)

2001: Odissea nello spazio (1968)

L'appartamento (1960)

La dolce vita (1960)

Psyco (1960)

Lawrence d'Arabia (1962)

Rosemary's Baby (1968)

Il laureato (1967)

Blow-Up (1966)

________________

 

Mattia Gritti

 

Persona (1966)

8 ½ (1963)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

La dolce vita (1960)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

Come in uno specchio (1960)

Fino all'ultimo respiro (1960)

Soy Cuba (1964)

Il servo (1963)

________________

 

Lorenza Guerra

 

Persona (1966)

8 ½ (1963)

La notte (1961)

Bara no Sōretsu (1969)

Uccellacci e uccellini (1966)

Au hasard Balthazar (1966)

Divorzio all'italiana (1962)

La mia notte con Maud (1969)

L'angelo sterminatore (1962)

La donna di sabbia (1964)  

________________

 

Lens Kuba

 

Play Time - Tempo di divertimento (1967)

Il processo (1962)

Cul-de-sac (1966)

Persona (1966)

Soy Cuba (1964)

Il servo (1963)

Repulsione (1965)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Rosemary's Baby (1968)

Lawrence d'Arabia (1962)

 

 

["E il Toshirô Mifune de La sfida del samurai di Akira Kurosawa? Ce l'avete messo?" Macché]

 

 

Adriano Meis

 

C'era una volta il West (1968)

La battaglia di Algeri (1966)

Psyco (1960)

Che fine ha fatto Baby Jane? (1962)

Irma la dolce (1963)

Divorzio all'italiana (1962)

Una vita difficile (1961)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

8 ½ (1963)

La maschera del demonio (1960)

________________

 

Sebastiano Miotti

 

Psyco (1960)

Jules e Jim (1962)

2001: Odissea nello spazio (1968)

La mia notte con Maud (1969)

Rocco e i suoi fratelli (1960)

Gli uccelli (1963)

La notte (1961)

Romeo e Giulietta (1968)

Repulsione (1965)

…e l’uomo creò Satana (1960)

________________

 

Nadia Pannone

 

Persona (1966)

L'angelo sterminatore (1962)

8 ½ (1963)

Il sorpasso (1962)

La notte (1961)

Repulsione (1965)

Un uomo da marciapiede (1965)

Psyco (1960)

Accattone (1961)

Il volto di un altro (1966)

________________

 

Yorgos Papanicolaou

 

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

2001: Odissea nello spazio (1968)

Lawrence d'Arabia (1962)

Zorba il greco (1964)

Luci d’inverno (1963)

Il laureato (1967)

Il servo (1963)

L'angelo sterminatore (1962)

Divorzio all'italiana (1962)

 

 

[L'appartamento non sarà in classifica, ma Billy Wilder, Jack Lemmon e Shirley MacLaine li veneriamo comunque, credeteci sulla parola]

 

 

Pierluca Parise

 

2001: Odissea nello spazio (1968)

La mia notte con Maud (1969)

Il disprezzo (1963)

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964)

Fino all'ultimo respiro (1960)

Psyco (1960)

Il servo (1963)

8 ½ (1963)

La mia droga si chiama Julie (1969)

L'angelo sterminatore (1962)  

________________

 

Jacopo Troise

C'era una volta il West (1968)

2001: Odissea nello spazio (1968)

La dolce vita (1960)

L'uomo che uccise Liberty Valance (1962)

Divorzio all'italiana (1962)

Tutte le ore feriscono… l'ultima uccide (1966)

Le mani sulla città (1963)

L'occhio che uccide (1960)

L'incidente (1967)

Storia immortale (1968)

________________

 

Teo Youssoufian

 

2001: Odissea nello spazio (1968)

Psyco (1960)

Rocco e i suoi fratelli (1960)

Soy Cuba (1964)

8 ½ (1963)

Falstaff (1966)

Il buono, il brutto, il cattivo (1966)

L'appartamento (1960)

Persona (1966) 

Andrej Rublëv (1969)

________________



Posizione 8

La dolce vita

di Federico Fellini, 1960

 

Dirige l'orchestra il Maestro Federico Fellini, che compone uno dei più lucidi e taglienti affreschi sul bel paese. 

 

 

Siamo nel 1960, nel pieno del miracolo economico italiano, uno di quei periodi che ciclicamente portano con sé un'ondata di inestinguibile ottimismo.

 

 

Più precisamente ci troviamo nella Roma della mitica Via Veneto, tempio profano della mondanità.

 

Quattro menti, quelle di Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi, individuano una sottile decadenza insita in un così vivace contesto, e la traducono in inchiostro.

 

Nasce così La dolce vita, un film che ha segnato un'epoca e ha costruito un'immagario diffusosi ben oltre i confini nazionali, andando al di là di quella indimenticabile punta dell'iceberg che è Anita Ekberg nella fontana di Trevi e di vocaboli come "paparazzo".

 

 

La pellicola, dal punto narrativo, è una "scomposizione picassiana" che si articola attraverso quadri diegetici sostanzialmente autonomi, collegati solo dalla presenza di Marcello (Rubini e Mastroianni).

 

Egli, giornalista di bassa lega, balza di posto in posto accompagnato solo da un'inguaribile noia e insoddisfazione, che continua a perpetuarsi nonostante il vortice senza fine di eventi non proprio ordinari.

 

 

La sua parabola è una morbosa discesa simil-dantesca, all'insegna dell'edonismo più sfrenato, a cui fa da tragico contrappunto la vicenda di Steiner, che con un impronosticabile omicidio-suicidio porta alla luce, senza mezzi termini, la decadenza morale e interiore della società del tempo.

 

Nel complesso non si contano le scene memorabili, da quella del presunto miracolo all'esibizione di un giovanissimo Adriano Celentano, così come abbondano anche i piani di lettura, che toccano tanto la religione quanto il mondo dei media.

 

 

Ma forse, per tentare di comprendere davvero La dolce vita, bastano davvero la prima e l'ultima sequenza.

 

Il rumore, quello di un elicottero o quello del mare, impedisce infatti il dialogo, lasciando i personaggi, che pure cercano di comunicare, irrimediabilmente soli.

 

 

Soli in un mondo che sempre più si connette e si appiatisce, dietro ad una patina d'ingenua felicità.

 

Come scrisse Vincenzo Cardarelli, citato proprio da Ennio Flaiano:

 

"La speranza è nell'opera.

 

...io sono un cinico che ha fede in quel che fa".

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 7

C'era una volta il West

di Sergio Leone, 1968 

 

"Era quasi come fosse una scuola di Cinema in un film.

 

Ha davvero mostrato come un regista possa avere un impatto forte.

Come dare una firma al tuo lavoro. Mi sono trovato completamente affascinato, pensando: 'È così che si fa'.

 

Mi ha davvero costruito una certa sensibilità.

Ci sono stati solo pochi cineasti che sono entrati in un genere vecchio e da lì hanno creato un nuovo universo."

 

 

Basterebbero queste parole pronunciate da Quentin Tarantino per descrivere l'importanza di C'era una volta il West all'interno della Storia del Cinema.

 

Sergio Leone, che ha rivoluzionato il genere western con la Trilogia del Dollaro, ha sempre desiderato lavorare con i grandi attori del Cinema americano e così, dato l'enorme successo dei film precedenti, per C'era una volta il West riuscì a ottenere un cast stellare: Henry Fonda, Charles Bronson, Claudia Cardinale e Jason Robards.

 

 

L'inizo del film è qualcosa di unico: nessun dialogo, tre brutti ceffi irrompono in una piccola e lurida stazione ferroviaria per aspettare qualcuno.

 

Il tempo passa scandito dal cigolio di una ventola e dal ronzio fastidioso di una mosca fino a quando dopo 10 minuti il treno arriva accompagnato dal suono di un'armonica, la macchina da presa si allontana per poter immortalare i tre "spolverini senza tempo" per poi staccare sul primo piano di un iconico Charles Bronson che scandisce le prime parole del film, a cui seguiranno poche memorabili battute che si concluderanno in una cruda sparatoria.

 

Un inizio folgorante che apre a una storia che si può perfettamente descrivere con il suo titolo: C'era una volta il West.

 

 

La rappresentazione di un' epoca e di un modo di fare Cinema scomparso con la morte di Sergio Leone, la storia di una donna forte, la bellissima Jill interpretata dalla stupenda Claudia Cardinale, che insegue l'american dream subito deflagrato dall'ambizione di Frank, uno spietato Henry Fonda.

 

Nel mezzo, la vendetta di Armonica (Charles Bronson) e la bontà di Cheyenne (Jason Robards).

 

 

Una sorta di favola che sancisce la fine del genere western e che influenzò centinaia di registi; lo stesso Stanley Kubrick non riusciva a capire come Leone fosse riuscito a realizzare il connubio perfetto fra immagini e l'immortale colonna sonora di Ennio Morricone durante l'arrivo alla stazione di Jill, tanto da dichiarare: "Senza Sergio Leone non avrei potuto fare Arancia Meccanica."

 

 

C'era una volta il West è un capolavoro della Storia del Cinema, un'epopea colossale come i suoi personaggi, un'opera immortale per ciò che ha rappresentato e che tutt'ora rappresenta: la capacità di creare un mondo nuovo e senza tempo attraverso l'uso della macchina da presa.

 

[A cura di Emanuele Antolini]

 

Posizione 6

Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

di Stanley Kubrick, 1964

Mai come con questa fatica cinematografica Stanley Kubrick ha dimostrato di essere un regista-pensatore immerso nel suo tempo.


Nei primi anni '60 le lotte contro il riarmo atomico erano una realtà bruciante.

 

 

Lo spettro dell'estinzione della specie era per la prima volta nella storia dell'umanità un'eventualità concreta con la quale fare i conti, anche moralmente.

 

E per inciso questa eventualità non si è certamente dissolta.

 

 

Tutti coloro che avessero una voce rilevante nel discorso pubblico erano chiamati a schierarsi e il noto cineasta lo fa con la sua consueta eleganza.

 

Il sottotitolo è il segno del tono emotivo del film: interamente basato su una risposta sarcastica e perfino grottesca alla tragedia bellica. 

 

 

Una commedia amara come lo è la satira su due superpotenze e che pure stuzzicando massimamente il pubblico di allora riesce ancora a fare pensare proprio perché "l'era della bomba atomica" potrebbe non concludersi mai ora che (e per sempre) le conseguenze delle nostre azioni per via del progresso tecnologico possono perfino superare la nostra immaginazione.

[a cura di Sebastiano Miotti]

 

Posizione 5

Il buono, il brutto, il cattivo

di Sergio Leone, 1966    

 

Uscito nei cinema italiani il 23 dicembre 1966 (per la data potrebbe addirittura essere considerato un cinepanettone!), Il buono, il brutto, il cattivo è la degna conclusione della mitica Trilogia del dollaro, che contribuì a lanciare nomi fino ad allora semisconosciuti come Sergio Leone, Clint Eastwood ed Ennio Morricone.      

 

 

Fin troppo nota è la trama, che segue le peripezie di tre pistoleri mentre infuria la guerra civile americana: il buono Biondo (Eastwood), il brutto Tuco (Eli Wallach) e il cattivo Sentenza (Lee Van Cleef)  

 

La ricerca di un tesoro, nascosto da un soldato confederato in un cimitero, porterà i protagonisti a giocarsi la vita in un triello mortale (e immortale).

 

 

Se l’obiettivo di Leone - per sua stessa ammissione - era quello di voler demistificare figure e aggettivi legati al genere western, c’è ampiamente riuscito: solo il cattivo tiene fede alla sua nomea, mentre il buono è un tipo vendicativo e il brutto risulta simpatico e irriverente.

 

A questo proposito, perno del film è proprio Eli Wallach, che coi suoi modi istrionici ruba la scena ai suoi colleghi, Eastwood in primis.     

 

 

Il film unisce la microstoria della ricerca del tesoro alla macrostoria della Guerra Civile Americana: la distinzione fra le due vicende è spesso marcata dall’utilizzo alternato di primi piani dei protagonisti e campi lunghi per le scene belliche.  

 

E della guerra è dimostrata proprio l’assurdità: poco prima della sequenza che mostra l’esplosione del ponte, il Biondo sentenzia di non aver mai visto morire tanta gente e tanto male.

 

 

Anche il campo civile di Betterville (che ironicamente suonerebbe in italiano come “posto migliore”) sembra rimandare ai lager nazisti della Seconda Guerra Mondiale.

 

Naturalmente, importanti per il successo della pellicola furono le musiche di Ennio Morricone, che gli attori ascoltavano sul set per meglio calarsi nelle parti.

 

 

Indimenticabile è L’estasi dell’oro, che accompagna la corsa di Tuco fra le lapidi del cimitero di Sad Hill (costruito all’occorrenza anche grazie all’aiuto dell’esercito spagnolo).      

 

 

Il buono, il brutto, il cattivo incassò complessivamente circa 25 milioni di dollari, una cifra altissima considerando il genere d’appartenenza; l’opera di Sergio Leone può inoltre contare sull’endorsement di registi come Quentin Tarantino, che da sempre indica il film fra i suoi preferiti.

 

Mica male!

 

[a cura di Marco Batelli]

 

Posizione 4

Psyco

di Alfred Hitchcock, 1960

 

Tra i pilastri della Storia del Cinema e tra i più famosi lavori del Maestro della suspense Alfred Hitchcock (nonché il suo maggior successo al botteghino), Psyco è uno di quei film che sono entrati a far parte della cultura di massa in maniera così importante che difficilmente si trova qualcuno che non conosca una citazione o almeno il famoso tema musicale del film, pur ignorandone la provenienza.

 

 

Thriller dalle venature horror, in Psyco vengono raccontate le vicende che nel 1959 animarono il celebre Bates Motel, alberghetto gestito da Norman Bates (Anthony Perkins) sotto la supervisione della sua severa madre, in cui la bella segretaria Marion Crane (Janet Leigh) trova rifugio durante un temporale, mentre fugge dopo avere effettuato un furto.

 

Ma Marion capirà presto, a sue spese, che fermarsi in quel motel non è stata una grande idea.

 

 

Con quel suo poco rassicurante ghigno stampato in faccia, Norman Bates, interpretato da un indimenticabile Anthony Perkins, è uno dei villain rimasto più impresso nell’immaginario collettivo.

 
“Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico.

Non è [solo, n.d.r.] una grande interpretazione che lo ha sconvolto.

Non è un romanzo che ha molto apprezzato che l'ha avvinto.

Quello che ha commosso il pubblico è stato il film puro.”

 

Dalle parole del regista capiamo come Psyco sia un preciso equilibrio tra fotografia, montaggio e musiche, un’attenta ricerca e calibrazione degli elementi del “film puro” - elementi su cui non è possibile avere il controllo nella vita di tutti i giorni - al fine di ottenere quella costante tensione che pervade tutto il film.

 

 

Basta guardare il trailer per capire quanto per Hitchcock fosse di fondamentale importanza incuriosire senza, al contempo, dare troppi indizi.

 

Il bianco e nero in Psyco viene sfruttato magistralmente: luci e ombre si appoggiano le une sulle altre e colorano i volti dei personaggi per far risaltare le loro espressioni, i loro sguardi; inquietanti silhouette sbucano all’improvviso lasciando lo spettatore incapace di affermare con certezza cosa ha appena visto.

 

 

Tutto è costruito per non essere nitido e più la chiarezza viene a mancare più cresce l’inquietudine, ma di pari passo anche la curiosità di chi osserva il destino di quei malcapitati personaggi che si trovano a passare da quel dimenticato angolo di mondo, che provano a districarsi in una ragnatela di misteri tessuta con maestria da un colpevole che sembra (?) essere invisibile.

 

Le musiche di Bernard Herrmann sono l’eloquente voce delle scene mute e i violini della famosa scena della vasca da bagno stridono nella nostra testa più di come avrebbe potuto fare la voce della protagonista di quella sequenza.

 

È proprio in quella scena che musiche e montaggio si esprimono al massimo, quasi lottando e replicando in tecnica ciò che viene messo in scena dagli attori.

 

 

Psyco ottenne quattro nomination ai Premi Oscar del 1961 tra cui Miglior Regia, Miglior Fotografia, Miglior Scenografia e Migliore Attrice non Protagonista per Janet Leigh che per l'interpretazione di Marion Crane si aggiudicò il Golden Globe nella stessa categoria.

 

 

Se non avete ancora visto Psyco e, arrivati fin qui, vi siete incuriositi pur non avendo effettivamente capito cosa accade in quel cupo e macabro Bates Motel, Alfred Hitchcock sarebbe contento della vostra confusione mista a interesse e vi suggerirebbe sicuramente di passare a fare un salutino a Norman Bates... e alla sua mamma. 

 

 

Perché, del resto, si sa:

 

"Il migliore amico di un ragazzo è la propria madre."

 

[a cura di Morena Falcone]

 

Posizione 3

Persona

di Ingmar Bergman, 1966

 

"Tutto ciò che qualcuno può dire su Persona può essere contraddetto; l'opposto sarà allo stesso modo vero"

Peter Cowie

 

Che Ingmar Bergman sia uno dei registi più importanti della Storia del Cinema e che alcuni dei suoi capolavori siano tra le opere migliori che la Settima Arte abbia saputo produrre sono due di quegli assunti che nessun critico o cinefilo si sognerebbe mai di mettere in dubbio. 

 

Poi, come spesso capita per registi di questo calibro (e come dimostra questa selezione), scegliere un solo film in uno dei decenni in cui ha saputo produrre opere come La Vergogna, L'Ora del Lupo, La Fontana della Vergine, Come in uno Specchio, Luci d'Inverno, Il Silenzio e Passione è praticamente impossibile.

 

 

Persona, però, è una di quelle pochissime opere nella Storia del Cinema che prevarica la grandezza del suo autore e della sua epoca: uno di quei pochissimi film che lascia nello spettatore la convinzione di essere davanti a uno dei motivi per cui è nato il Cinema stesso e che senza di essa non sarebbe mai potuto esistere in nessun'altra forma.

 

Persona non è solo la summa del cinema bergmaniano (come abbiamo visto nel suo incipit), un saggio fotografico sul primo piano, una parte della tetralogia di Fårö, un capolavoro del Cinema d'autore europeo degli anni '60 o una delle migliaia di altri modi in cui lo si può definire.

 

 

Avrebbe dunque poco senso provare a scardinare questo Everest della critica cinematografica: un complesso insieme di ingranaggi e piani che si muovono tra esistenzialismo e psicologia, simbolismo ed erotismo, teologia e tragedia classica, riferimenti strindberghiani, maternità e molto altro.

 

"Da quel dibattito, scrivere di Persona è stato per critici cinematografici e studiosi ciò che l'arrampicata sull'Everest è per gli alpinisti: l'ultima sfida professionale.

 

Oltre a Quarto Potere, è probabilmente il film su cui la critica ha scritto di più.

 

Raymond Bellour e Jacques Aumont, Robin Wood e Roger Ebert, Paisley Livingston e P. Adams Sitney, insieme a Sontag e Sarris, hanno tutti scritto con gravità e grande intuizione su Persona, senza contare diversi libri e raccolte interamente dedicate al film."

Thomas Elsaesser

 

 

La quantità di diversi piani di lettura e interpretazioni che si compenetrano - come le due protagoniste del film - è talmente densa, precisa e sfaccettata da far quasi pensare che non possa essere il solo intelletto umano ad averla partorita, ma che sia l'arte stessa, una musa greca o qualsiasi altra entità trascendente ad averla ispirata e guidata. 

 

Tutti gli aspetti che compongono il Cinema si fondono in un'unica melodia tra interpretazioni in stato di grazia, artificio tecnico, gusto fotografico, scrittura drammatica di prim'ordine e gestione dei simboli talmente perfetta da aver bisogno di soli 85 minuti per manifestarsi: tutto in Persona è allo stesso tempo protagonista e rafforzativo.

 

 

Si potrebbe, per fare un paio di esempi, perdere ore a disquisire sull'uso del bianco e nero in relazione al tema del doppio o al modo in cui l'erotismo che permea tutto il rapporto scenico tra Alma ed Elisabeth si relazioni con la psicologia junghiana o, ancora, come la rottura del mezzo filmico sia funzionale alla descrizione introspettiva delle due donne. 

 

Perché sì: Persona racconta "solo" l'isolamento a Fårö (luogo chiave per comprendere Bergman) di Elisabeth Vogler (Liv Ullman) e dell'infermiera Alma (Bibi Andersson).

 

La prima è un'attrice affermata che tutto d'un tratto durante una rappresentazione teatrale decide di smettere di parlare, la seconda è l'infermiera personale che la accompagna nel ritiro consigliatole per farla rinsavire.

 

 

La strana convivenza con una voce sola sfocia presto nella sovrapposizione, nella gelosia e nello scontro: non solo tra i due personaggi, ma tra anima e corpo, tra silenzio e parola, tra fede e disillusione, tra i ricordi del passato della giovane infermiera e un rapporto mai del tutto disvelato.

 

 

Un'opera incredibile che non solo si attesta tra i più grandi film di sempre, ma che prende il mezzo cinematografico, lo indaga, lo decostruisce e infine lo esalta alla sua massima potenza.

 

[a cura di Fabrizio Cassandro]

 

Posizione 2

8 ½

di Federico Fellini, 1963

 

Si può filmare l'idea di non avere un'idea?

 

Si può filmare l'impossibilità di un regista, nelle sue radici più esistenziali, di ordinare nella propria testa tutta una serie di percezioni e intuizioni confuse per farne un'opera d'arte?

 

 

Sì: si può. Lo fa Federico Fellini, in una delle opere più blasonate della storia del cinema italiana e mondiale: ½

 

Lo fa Federico Fellini dopo sei film girati interamente da lui e tre film co-diretti con altri registi.

 

Non ci vuole un genio della matematica per capire il significato del titolo.

 

 

Il regista riminese, ormai all'apice della fama, non sa più cosa filmare; decide allora di filmare se stesso che non sa cosa filmare.

 

L'inaridimento della sua creatività diventa il pretesto per dirigere un capolavoro senza tempo. 

 

 

Vincitore di numerosissimi premi tra cui 2 Oscar - Miglior Film in Lingua Straniera e Migliori Costumi - 8 ½ non rappresenta soltanto un ricettacolo di plausi e premi, ma una pietra miliare nel modo di fare Cinema, un'opera tutt'oggi unica e ancora sotto oggetto di osservazioni, interpretazioni, analisi, che arriva allo spettatore spesso in modo differente.

 

Il protagonista è Guido Anselmi, interpretato da un intramontabile Marcello Mastroianni: un regista in crisi, in bilico perenne tra la dimensione del suo io e il suo io in relazione alla società che lo circonda. 

 

 

Il film inizia proprio con il sogno di volare, sfuggire via dalle pressioni insistenti della macchina produttiva cinematografica, ma anche dalle donne della sua vita, ognuna delle quali rappresenta un lato dell'esistenza di cui vuole fare a meno ma da cui è dipendente. 

 

C'è una corda però a tenerlo saldo a terra impedendogli di sfuggire tra le nuvole.

 

Guido Anselmi è apatico in una realtà sincopata, Fellini non è (auto)indulgente con il suo protagonista, dalla cui genialità emerge una figura tanto sensibile quanto meschina. 

 

È un uomo incastrato in una modernità continuamente strattonata tra un'educazione cattolica sempre votata alla colpa - in particolare per quanto riguarda la sfera sessuale - e i nuovi dogmi dell'industria dello spettacolo, è l'artista che cerca nell'immaginazione una bellezza primigenia e ispiratrice da cui ripartire.

 

 

È l'impulso del corpo a venire condannato e bollato, a seconda delle istituzioni, come infantilismo o peccato.

 

Guido Anselmi ripercorre le sue memorie dall'infanzia sdoganando l'impulso del corpo, liberandole dalle catene che lo controllano. 

 

L'intellettuale, a differenza dell'artista, non riesce sempre a cogliere la necessità di sprigionare questo fanciullino interiore per il processo creativo.

 

 

È una constatazione applicabile anche alla critica moderna, alla continua ricerca di spiegazioni e appigli filosofici per razionalizzare le opere artistiche.

 

 

È in una locuzione quasi magica in bocca a dei bambini, spirituale ma non religiosa, quasi pagana, che il protagonista sembra vedere il senso delle cose: Asa Nisi Masa.

 

L'anima. 

 

[a cura di Lorenza Guerra]

 

Posizione 1

2001: Odissea nello spazio

di Stanley Kubrick, 1968

 

In tutta onestà ho sperato fino all'ultimo momento di non essere colui che si sarebbe dovuto occupare di questo film in questa Top 8.

Non mi vergogno ad ammettere che personalmente ritengo 2001: Odissea nello spazio - assieme all'Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, per ragioni diverse - la massima espressione dell'arte cinematografica, un film talmente oltre da diventare paradigma di cosa sia il Cinema, un'opera tanto grande da non potersi più nemmeno definire film e neanche Arte, perché si eleva al punto di diventare qualcosa di ancora più alto. 

Dovendone parlare dunque soffro per due motivi: il primo è che so di non essere in grado di rendere giustizia a tale capolavoro e il secondo è che mi spiace doverci provare in poche righe.

Ma dato che affrontai il medesimo affanno in occasione della Top 8 dedicata alle Palme d'oro, parlando del film di Coppola, ci provo. 

 

Penso sia inutile sottolineare che l'opera nasca dal romanzo di Arthur C. Clarke o provare a riassumerla: non è quello l'importante. 

La cosa importante a mio avviso è rimarcare il fatto che il 2001 di Stanley Kubrick è esso stesso un monolite nella Storia del Cinema: esiste un prima e un dopo quest'opera ed è innegabile che ancora oggi a più di 50 anni di distanza il film non abbia perso niente di ciò che era quando uscì. 

Il rapporto tra uomo e macchina, la consapevolezza di ciò che siamo noi come specie, il salto evolutivo, la riflessione sul fatto che creando macchine senzienti ci poniamo sullo stesso livello di un dio che dona la vita, ricordandoci però che le creature che abbiamo inventato possono decidere di togliercela. 

Nel film c'è un famosissimo stacco di montaggio passato alla Storia come l'ellissi temporale più lunga di sempre. 

I nostri antenati scoprono la potenza di un "oggetto": per farsi valere sulle tribù nemiche potranno quindi usare non solo le mani, ma anche un utensile che diventa un'arma; in questo modo la loro genìa avrà un seguito e si evolveranno a discapito degli altri. 

Quel momento è fondamentale per l'intera Storia dell'Umanità. 

Kubrick sceglie di interromperlo subito dopo avercelo mostrato e in montaggio passa dall'osso-arma lanciato verso il cielo a una navicella spaziale che viaggia nel cosmo. 

Un salto di decine di migliaia di anni racchiuso in un ventiquattresimo di secondo. 

Così come l'evoluzione ha compiuto un passo incredibile per gli ominidi, così sarà per le macchine inventate dall'uomo che prenderanno coscienza e decideranno autonomamente. 

In tutto ciò la parte relativa a noi, all'uomo in quanto tale, viene completamente eliminata. 

Noi non esistiamo: siamo semplicemente un ponte tra la presa di coscienza dell'ominide e quella del computer. 

E questa assenza, questo vuoto, permea tutto il film da quello stacco in poi: l'infinità dell'universo ci opprime, quel nero imperscrutabile e silenzioso nel quale si muovono delle piccole macchine con all'interno delle persone ci spaventa e per rassicurarci il regista sceglie di abbbinarlo a della musica classica. 

L'accompagnamento musicale del film diventa così un conforto per lo spettatore, che può lasciarsi cullare dalle note senza tempo dei compositori classici. 

La musica del film è ormai inscindibile dal film stesso, tanto da far esclamare a dei bambini di una scuola inglese "La musica dello spazio!" nonostante non avessero mai visto 2001, ma non è affatto un caso se il tema più noto e più eterno legato all'opera di Kubrick sia quello di Richard Strauss titolato Also sprach Zarathustra. 

Opera sinfonica ispirata all'opera omonima del filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche che parla - guarda un po' - della morte di Dio e dell'avvento del Superuomo. 

Il filosofo la scrisse attorno al 1885, il compositore nel 1896, il Cinema in quanto tale nasce per convenzione nel 1895. 

In 2001: Odissea nello spazio ogni fotogramma è denso di significati, ogni movimento o non-movimento di macchina è proiettato verso lo scopo di farci porre delle domande.

Quel vuoto universale angosciante, quell'abisso oscuro - che come disse lo stesso Nietzsche se guardato a lungo restituisce lo sguardo - nel quale vengono precipitati i poveri David, Frank in compagnia di HAL 9000 è a mio avviso l'abisso che alberga in ognuno di noi nel momento in cui sceglie di scendere da questo luna park che è l'esistenza di tutti i giorni e si ferma a riflettere sul suo posto nel mondo. 

Sul posto del mondo all'interno della nostra galassia e sul posto della nostra galassia all'interno dell'universo conosciuto. 

Il terrore che ci coglie impreparati nel momento in cui scopriamo di essere dei piccoli granelli di sabbia e di non avere ancora ben compreso quale sia il nostro scopo, a meno che non sia quello di evolverci ancora e sempre di più fino però a perdere la nostra identità, a invecchiare dentro di colpo dopo un viaggio nell'insondabile, per renderci conto di essere semplicemente dei figli delle stelle. 

Nati da una coincidenza astronomica che ha reso possibile l'incontro tra sostanze chimiche, in un angolino di universo dove abbiamo potuto germogliare, imparare, alzarci in piedi e camminare verso il nostro destino. 

Oppure nati ed evoluti grazie a un intervento esterno, un parallelepipedo nero e lucente che per uno strano motivo sceglie di farci compiere dei passi in avanti ogni volta che ne veniamo a contatto. 

Ma dove ci porterà la nuova e ulteriore evoluzione non possiamo saperlo, né possiamo pensarci su senza provare un brivido e una vertigine all'idea di essere semplicemente di passaggio, dei piccoli testimoni di qualcosa di più gigantesco di noi e del quale abbiamo fatto parte solo per un po', per poi scomparire esattamente come siamo arrivati, diventando pulviscolo stellare e disperdendoci dell'infinità di ciò che c'è "là fuori" mentre cerchiamo un po' di conforto rannicchiandoci come dei neonati nell'unica cosa che crediamo di conoscere davvero: noi stessi. 

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 



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2 commenti

Francesco Broccoli

3 anni fa

Cavolo hai ragione, ora però è difficilissimo toglierne uno!
Forse terrei fuori sciarada a questo punto

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Emanuele Antolini

3 anni fa

Gran top! Però non hai rispettato una regola: massimo 3 film per lo stesso anno 😁

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