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#top8

8 film lunghi da recuperare durante il lockdown

Otto lunghissime pellicole per tutti i gusti 

Quante volte avete abbandonato l'idea di vedere un film perché era troppo lungo?

 

Quanto spesso è accaduto che avete rinunciato a una pellicola per la paura della sua lunghezza, della sua lentezza, pur consci del rischio di rinunciare a capolavori?

 

Quante volte, tornati a casa dopo giornate di studio e di lavoro, avete accuratamente scelto film inferiori alle due ore?

 

Ora non avete più scampo e i lunghissimi film che avevate riposto in fondo alla vostra watchlist sono tornati a bussare alla porta.

 

Dato che è nostro dovere rimanere a casa, a causa delle restrizioni imposte dai decreti governativi messi in atto per fronteggiare il diffondersi del Covid-19, tanto vale smettere di aggiornare la home di Instagram o il catalogo di Netflix e impegnarci nella visione di quei film lunghi e impegnativi che abbiamo sempre temuto di affrontare. 

 

Come sempre queste Top 8 non hanno l'intenzione di essere delle classifiche: sono una raccolta di consigli da parte di otto redattori, ordinati per lunghezza.

Dal più breve, poco meno di tre ore, al più lungo, che supera le sette. 

 

Inoltre, affinché questa lista di consigli potesse essere più eterogenea possibile, abbiamo scelto di selezionare otto film provenienti da otto diversi Paesi di produzione.

Abbiamo voluto dare un taglio internazionale alla Top 8 e non volevamo ripetere i soliti titoli noti. 

 

Volevamo servirvi titoli per ogni palato, dai classici senza tempo alle pellicole moderne.  

Speriamo che in questo periodo di oscurità e sconforto si comprenda il valore fondamentale del Cinema, arte amica e compagna che rende un po' più dolce questo periodo fatto di solitudini forzate. 

 

Saremo anche chiusi in casa, ma il Cinema può aiutarci a viaggiare per il mondo e per il tempo, dai salotti settecenteschi alle strade delle Filippine. 

 



Posizione 8

Stalker (162')

di Andrej Tarkovskij, 1979

 

In un futuro non troppo lontano, tre uomini si avventurano all’interno della “Zona”: un luogo nascosto, inaccessibile e sorvegliato dalle forze armate, che pare essere sottoposto a leggi misteriose e mistiche, e nel quale è possibile vedere esaudito il proprio desiderio più intimo e recondito.

 

Il ruolo dello Stalker è quello di condurre i suoi due clienti, emblematicamente denominati con gli pseudonimi di Scrittore e di Professore, all’interno della Zona. 

 

Servendosi accessoriamente dell’apparato fantascientifico, Stalker è in realtà un lungo viaggio esistenziale, volto principalmente ad esplorare le divergenze tra i tre personaggi principali, e della loro maniera di intendere la vita. 

 

Si potrebbe anche dire che la Zona non sia altro che una metafora dell’interiorità intellettuale e spirituale dei protagonisti, ognuno alla ricerca della verità, della felicità.

È infatti proprio agli infelici che è destinato questo luogo, spiega lo Stalker

Del resto, lo scenario di desolazione, decadimento desaturato, dissoluzione sudicia degli ambienti, di degrado umidiccio e monocromatico in cui versa la quotidianità dei personaggi appare chiaro sin dalle prime scene, di rara potenza evocativa. 

 

I tempi sono dilatati, quasi come a voler consentire a chi guarda di riflettere insieme al tempo del film, inducendolo nella propria personale Zona; Stalker si configura in effetti come una vera e propria esperienza visiva ed introspettiva, nella quale avviene una profonda trasfigurazione tra ciò che è mostrato e ciò che viene compreso, come un fluire ininterrotto di sensazioni e pensieri (e a proposito di fluidi: l’acqua è onnipresente, nel suo gocciolare, scorrere, nel mormorio, nello scroscio, nelle pozze, nei rivoli) che investe prima i personaggi, e poi anche lo spettatore.

 

Senza voler anticipare null’altro, si tratta indubbiamente di uno dei più grandi film della Storia del Cinema.

Un'opera d'arte totale, che rimane impressa a lungo.

Ben più a lungo della propria durata.

 

[a cura di Simone Braca]

 

Qui lo trovate in home video.

 

Posizione 7

Mademoiselle (168')

di Park Chan-wook, 2016

 

Mademoiselle, conosciuto anche con i titolo di The Handmaiden, è l'ultima fatica di Park Chan-wook: autore di spicco del Cinema sudcoreano che in quest'ultimo periodo, complice il trionfo agli Oscar di Parasite, sta conoscendo il proprio momento di massima notorietà internazionale.

 

L'opera - presentata al Festival del Cinema di Cannes nel 2016 e arrivata nel nostro paese con colpevole ritardo nel 2019 - presenta due versioni, entrambe piuttosto lunghe, rispettivamente da 144 e da 168 minuti: entrambe, però, sono decisamente meritevoli della vostra attenzione e del vostro tempo.

 

Il film si ispira liberamente al libro inglese Ladra di Sarah Waters, ambientato nella Londra del 1862. 

Rispetto al suo modello l'opera, però, presenta numerose differenze: Park Chan-wook e il suo co-sceneggiatore Jeong Seo-gyeong hanno deciso di trasportare la storia nella Corea del Sud degli anni '30, in piena occupazione giapponese, per conferire all'opera delle differenti e pregnanti connotazioni politiche.

 

La trama del film ruota attorno al delicatissimo intreccio tra la vita di Sook-hee, abile ladra al soldo di un truffatore che si fa chiamare Conte Fujiwara, e quella di dama Hideko, un'ereditiera che vive reclusa nella villa di suo zio Kouzouki, ricchissimo collezionista di libri.

Sook-hee, su mandato del Conte Fujiwara, si fa assumere come nuova ancella di Hideko, con l'obiettivo di destabilizzare la giovane ereditiera, farla innamorare di Fujiwara e truffare sia lei che il suo anziano zio. 

 

L'opera si apre, dunque, come una sorta di heist-movie in costume ma assume ben presto contorni ben differenti, sconfinando continuamente in generi distanti tra loro senza mai perdere l'eleganza formale e la profondità tipica del suo autore.
La regia di Park Chan-wook, virtuosissima e interamente incentrata sul continuo svelamento dei particolari nascosti di una trama in continua evoluzione, rende l'opera al contempo irresistibile sotto l'aspetto visivo ed estremamente propensa a cambi di registro: lo spettatore viene avvolto in un melodramma, arriva ad assistere a stralci di spintissimo Cinema erotico, si ritrova squassato da dei plot-twist in perfetto stile thriller e finisce per contemplare le venature più classiche del revenge movie, genere tanto caro all'autore sudcoreano.

 

La narrazione, pur rispettando formalmente la suddivisione in tre atti, procede grazie alla completa decostruzione dell'intreccio.

L'uso del flash-back è massiccio ma pregnante e il montaggio operato da Kim Sang-bum è tanto coerente con le scelte registiche di Park quanto funzionale alla narrazione.

 

Il comparto tecnico dell'opera sorregge il tutto alla perfezione: l'approfonditissima ricostruzione di scenografie e costumi e il perfetto equilibrio delle composizioni costruite dal direttore della fotografia Chung Chung-hoon regala allo spettatore la perenne sensazione di ritrovarsi immerso in una serie di quadri impressionisti.

 

Nel suo complesso Mademoiselle va vissuto come un'esperienza totale, che vi porterà a divorare le sue quasi tre ore di durata senza accorgervene.

Al termine della visione, anzi, ne vorrete ancora di più.

 

[a cura di Jacopo Gramegna]

 

Qui lo trovate in home video.

 

 

Posizione 6

Barry Lyndon (184')

di Stanley Kubrick, 1975  

 

Dicesi kubrickiano "un meticoloso perfezionismo, padronanza degli aspetti tecnici del film-making, e uno stile visivo atmosferico".

Questa la definizione data dal prestigioso Oxford English Dictionary, questo il perfetto aggettivo per Barry Lyndon.   

 

Indicative sono le quattro statuette dell'Academy raccolte dalla pellicola nel 1976: per la fotografia a John Alcott, per i costumi all'italianissima Milena Canonero, per la scenografia a Ken Adam e al compositore Leonard Rosenman

 

Il film racconta, in poco più di tre ore, l'ascesa e la caduta dell'irlandese Redmond Barry, interpretato da Ryan O'Neal, tanto smanioso di scalare le gerachie sociali quanto poco propenso alla stabilità.

Sorprendentemente, vista l'impostazione del romanzo di William Makepeace Thackereray adattato da Kubrick, le sue sorti non egemonizzano però la pellicola, anzi.

 

Chiarissime sono le parole del regista: "Mi ha sempre attirato un film in cui il destino del protagonista è già inciso sul primo fotogramma".

In tal senso, è esemplare il particolare ruolo del commentario in voice-over, che talvolta, addirittura, anticipa importanti snodi narrativi.

 

Il vero protagonista del film è il Settecento, del quale è dipinto un superbo affresco su pellicola.

 

Innanzitutto, è significativa la scelta, ardita, di evitare - quasi - totalmente l'impiego di illuminazione artificiale, a favore di una resa molto più realistica. 

Le fonti luminose sono dunque la sola luce solare, nelle sessioni diurne, e il debole ausilio di candele e lampade, in quelle notturne. 

 

Ciò ha portato all'utilizzo di uno degli obiettivi più luminosi della storia della fotografia: il Zeiss Planar 50mm f/0.7, progettato per la NASA.

 

Altro aspetto fondamentale, vero e proprio marchio di fabbrica del regista, è l'attentissima composizione delle inquadrature.

 

Fonte di ispirazione sono stati infatti numerosi dipinti del XVIII secolo, con il facilmente riconoscibile esempio de Il bacio di Francesco Hayez, ricreato a mo' di tableau vivant.

Nei frequenti campi lunghi e lunghissimi, nei quali i personaggi sembrano scomparire, si scorgono invece i rimandi ai grandi paesaggisti settecenteschi, anche grazie al prezioso lavoro dello scenografo Ken Adam.

 

Degna di nota è poi la colonna sonora, premiata dall'Academy, che contribuisce a confezionare un prodotto armonioso ed equilibrato.

 

La scelta di Kubrick è ricaduta, anche visto il grandioso esempio di 2001: Odissea nello Spazio, su alcuni dei più grandi compositori della storia, da Schubert a Mozart, da Händel a Bach, ed è riuscita a creare, in toto, un'opera cinematografica dall'altissimo impatto artistico. 

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Il film è disponibile su Chili.

 

Posizione 5

Il Gattopardo (205')

di Luchino Visconti, 1963

 

Se si dovesse descrivere Il Gattopardo con un solo aggettivo questo potrebbe essere "sontuoso".

 

Luchino Visconti dipinge un potente affresco di un momento cruciale della storia italiana: siamo agli inizi degli anni ‘60 del XIX secolo e la Sicilia (insieme a tutto il meridione) è in procinto di passare dal dominio Borbonico al nascente regno Italiano.

 

Scrive Paolo Mereghetti:

"Dietro la messinscena fastosa, il regista è riuscito a non tradire lo spirito scettico e amaro dell'omonimo romanzo di Tomasi Lampedusa".

La nobiltà (come ben sanno i protagonisti) è destinata a soccombere, soppiantata dalla borghesia, classe sociale la cui ascesa è ormai inarrestabile.  

 

Naturalmente, il film focalizza la sua attenzione su Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, e la sua nobile famiglia: la moglie Maria Stella, la prole e il nipote Tancredi.

Sono loro i Gattopardi, potenti aristocratici siciliani simboli di un mondo ormai in dissoluzione. Come nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è presente la critica all'immobilismo e al trasformismo politico proprio di una certa fetta del popolo italiano: la frase pronuciata da Tancredi sul cambiamento apparente ("Se vogliamo che tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi") è ancora oggi ricordata da letterati e cinefili.

 

Il cast è eccezionale: nei panni del principe burbero e disincantato c’è uno straordinario Burt Lancaster; Alain Delon interpreta Tancredi, giovane di belle speranze e lungimirante; fra le donne, è impossibile non ricordare Claudia Cardinale nelle vesti di Angelica, ragazza dall’abbagliante bellezza.

 

Concorsero alla buona riuscita del film anche le sfarzose scenografie e i costumi curati da Piero Tosi: a tal proposito, la sequenza del ballo che occupa la parte finale del film (circa 45 minuti) ben rappresenta la decadente magnificenza del mondo in cui sono immersi i protagonisti.

Le musiche sono di Nino Rota, che per l'occasione arrangiò un valzer inedito di Giuseppe Verdi.

 

Vero e proprio kolossal che richiese oltre un anno di lavorazione, Il Gattopardo quasi segnò la fine della Titanus, all’epoca già in crisi: la società di produzione fu costretta ad abbandonare temporaneamente il mondo del Cinema, a causa del costo economico che richiese la produzione del film, circa tre miliardi di lire. 

Soldi ben spesi: il pubblico italiano premiò lo sforzo di Visconti e dei suoi collaboratori, tanto che ad oggi il film è uno dei film italiani più visti di sempre, con un incasso di oltre due miliardi.

 

Anche la critica apprezzò: nel 1963 il film fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Un riconoscimento meritato per una delle pellicole italiane più belle di sempre.  

 

[a cura di Marco Batelli]

 

Qui lo trovate in home video.

 

Posizione 4

The woman who left - La donna che se ne è andata (226')

di Lav Diaz, 2016

 

Filippine, anno 1997: Horacia è un ex insegnante di scuola elementare che ha passato gli ultimi 30 anni della sua vita in un carcere femminile.

 

Un giorno, grazie alla confessione di un'altra carcerata, viene rilasciata e scopre che il suo ex compagno Rodrigo aveva comissionato un omicidio per poi incolparla, azione compiuta in preda alla gelosia in quanto l'insegnante filippina aveva scelto un altro uomo da sposare.

 

Lav Diaz, che con questo film ha vinto il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2016, per quasi quattro ore ci mostra in tempi dilatatissimi come Horacia si vendicherà di Rodrigo.

 

Ma quello che rende un gran film The woman who left non è la trama, che si può riassumere come un classico revenge movie, bensì i personaggi che popolano l'opera e il contesto storico in cui è ambientata.

 

Nel compiere ll suo scopo infatti Horacia verrà a contatto con personalità particolari come una prostituta transessuale, un venditote di balut e una matta che ci aiuteranno a capire ancora meglio la situazione socio-politica che le Filippine attraversavano in quegli anni.

 

Sembra quasi che Horacia aiuti i tre reietti per colmare quei 30 anni che il carcere le ha portato via, diventando una sorta di Madre Teresa di Calcutta - morta quell'anno - o di Batman, come è stata affettuosamente soprannominata dal venditore di balut.

 

La messinscena di Lav Diaz è spettacolare, il regista filippino mediante l'uso di lunghi piani sequenza a camera fissa e un bianco e nero fortemente contrastato, immedisima ancor di più lo spettatore in una realtà tanto angosciante quanto affascinante ma allo stesso tempo fa compiere ogni avvenimento utile a mandare avanti il racconto fuori campo.

 

In definitiva The woman who left è un film sicuramente di non facile fruizione ma che dopo quasi quattro ore vi trasmetterà una miriade di emozioni e vi farà conoscere tanti personaggi indimenticabili che sarete contenti di aver passato tutto quel tempo insieme ad Horacia e la sua voglia di vendetta e redenzione.

 

[a cura di Emanuele Antolini] 

 

Il film è disponibile su Chili.

 

Posizione 3

Lawrence d'Arabia (227') 

di David Lean, 1962

 

Il 10 dicembre 1962, all’Odeon Leicester Square di Londra, veniva proiettato, alla presenza di Sua Maestà Elisabetta II e del Duca d’Edinburgo, per la prima volta il capolavoro di David Lean, destinato a rimanere nella memoria collettiva come uno dei più grandi colossal che il Cinema abbia mai prodotto.

 

Presentato nel leggendario Super Panavision 70, i quasi otto chilometri di pellicola Technicolor trasportarono come mai prima l’impreparata platea inglese tra le monumentali dune del Deserto del Nefūd e le smisurate distese aride del Deserto del Sinai.

Difficile figurarsi l’impatto estetico che la rappresentazione di un mondo così distante e tuttavia così presente come quello del Medio Oriente nel corso della Prima Guerra Mondiale.

 

Dromedari vistosamente bardati, montati con destrezza da militi arabi in tenuta guerresca, consigli di battaglia notturni alla sola luce di un grande falò, gazebi fastosamente allestiti al riparo dalle ostili tempeste di sabbia.

Il tutto esaltato da una fotografia grandangolare, impudicamente panoramica, così a suo agio nello sfruttare le potenzialità del 70 millimetri da risultare quasi fantastica, surreale.  

 

L’eccezionale reparto tecnico capeggiato da F.A. Young (BSC) è solo la ciliegina sulla torta di un film esploratore, moderno, sperimentale a dispetto di ciò che la tradizione colossal (ai suoi apici in quegli anni) imponeva.  

 

Duecentoventisette minuti che narrano le vicende del tenente Thomas Lawrence (Peter O’Toole), cartografo dell’esercito britannico, uomo di grande cultura umanistica e spiccato interesse verso le popolazioni arabe, che intraprenderà una missione nel delicato contesto geopolitico mediorientale al fine di capire in che modo indebolire il nemico, l’Impero Ottomano.  

 

Un film brillante anche nella capacità di stare alla larga dalla retorica che la cornice in cui è ambientato renderebbe sin troppo gratuita, e che anzi infrange le aspettative del pubblico, portando alla deriva l’eroe con cui pur inizialmente simpatizza.

 

D’altronde, nonostante la significatività collettiva delle vicende narrate, il vero motore dell’opera di Lean sta proprio nel seguire una vicenda umana, quella del Lawrence d’Arabia, nella tortuosa evoluzione che tocca sfere recondite, intime e mai dichiarate… rendendola, di fatto, un dark biopic.  

 

Solo 5 anni dopo il fenomenale Il Ponte sul Fiume Kwai (1957), l’accoppiata Lean-Spiegel riesce a sfornare un’Opera Magna, capace di ridefinire i limiti del linguaggio epico e di restare come imperitura pietra di paragone del genere.

 

[a cura di Francesco Amodeo]

 

Il film è disponibile su Sky Go e Chili.

 

Posizione 2

I Nibelunghi (278') 

di Fritz Lang, 1924

 

“Dedicato al popolo tedesco”

 

Con questa frase si apre I Nibelunghi, grandiosa epopea di uno dei più influenti e citati maestri della Storia del Cinema: Fritz Lang

 

Non si tratta di un incipit casuale, dato che il film è a tutti gli effetti una esaltazione della cultura e dello spirito germanici, grandiosa messa in scena del poema epico La canzone dei Nibelunghi, un racconto caratterizzato da ambientazioni fantasy e medievaleggianti e da temi quali l’orgoglio, la vendetta e l’amore romantico ma condannato. 

 

Nonostante sia stato suddiviso in due parti (Sigfrido e La vendetta di Crimilde) il film ebbe una produzione unica e viene generalmente analizzato come se fosse una sola monolitica opera d’arte, che col recente restauro della Fondazione Friedrich Wilhelm Murnau ha raggiunto l’incredibile durata di 278 minuti.

 

La storia comincia con le gesta di Sigfrido, un germanico Achille che parte per la città di Worms per chiedere al re Gunther la mano della sorella Crimilde, mentre nella seconda metà si racconta il passaggio di Crimilde alla corte degli Unni presso cui cercherà la sua vendetta. 

 

Le due parti che compongono il film sono profondamente diverse tra loro dal punto di vista sia stilistico sia scenografico: nella prima viene mostrato lo sfarzo di Worms e le ricchezze architettoniche del popolo dei Burgundi, abbondano i campi lunghi atti a mostrare la magnificenza delle scenografie, si rappresenta l’armonia, l’idealizzazione e l’amore; nella seconda tutto si fa molto più sporco e selvaggio, i palazzi reali diventano capanne, lo stile rigoroso e austero fatto di simmetrie e armonizzazione estetica viene sostituito da un animalesco dinamismo continuo in cui prevalgono i primi piani sul volto sofferente di Crimilde. 

 

Lo spirito di decadenza con cui Fritz Lang descrive la storia dei Nibelunghi portò il film a essere criticato dalla Germania del Terzo Reich, che giudicava la seconda parte troppo cupa e pessimista. 

 

In un periodo in cui si andavano formando i nazionalismi e le aberranti questioni razziali fu facile rivedere nella stirpe dei Burgundi l’orgoglio ariano, contrapposto ai barbari e animaleschi Unni, proiezioni dell’inferiorità razziale che era in procinto di essere teorizzata nel saggetto di Hitler uscito proprio l’anno dopo. 

 

Il fatto che, come nelle migliori tragedie greche o shakespeariane, tutto venga mostrato con un inesorabile e crescente senso di disfatta è quantomeno profetico dei tempi che verranno e probabilmente riflette il pensiero di Lang sul quel particolare periodo storico.

 

Dopo il grande successo del Dottor Mabuse ormai Lang è proiettato ai vertici del cinema europeo, e sarà definitivamente consacrato dal successivo Metropolis

 

I Nibelunghi, per quanto citato più di rado tra i capolavori del regista austriaco e al netto delle valutazioni sociali e politiche che sono poi state fatte, è una magnificente ode alla cultura di un popolo, una rappresentazione estatica delle gesta di eroi e re e delle loro tribolazioni: una di quelle storie che non passano mai di moda.

 

[A cura di Fabrizio Fois]

 

Qui lo trovate in home video.

 

Posizione 1

Satantango (438')

di Bela Tarr, 1994

 

I lunghi piani sequenza, il tempo scandito dalla pioggia, dal vento, dai versi degli animali, dai campi lunghissimi, dalle carrellate laterali, dalla straziante colonna sonora di Mihàly Vig, e dalle eterne camminate. 

 

Bela Tarr manovra lo spazio-tempo, si districa nella materia di base dell'omonimo romanzo di László Krasznahorkai, amico e collega, traduce la letteratura in cinema con la maestria che gli è propria. 

 

I lunghissimi silenzi sostituiscono effluvi di parole. 

 

Satantango: dodici capitoli, sei in avanti, sei indietro, divisi dall'indemoniato tango che dà il titolo a quest'opera fluviale e senza tempo. 

Satantango: pantagruelico ritratto in movimento di un'umanità stremata, imbruttita dalle illusioni e dalle abitudini, dove l'infanzia perisce su se stessa.

 

È la storia di una fattoria collettiva ai tempi della fine del Comunismo, ma è anche metafora del fallimento dell'essere umano. 

Siamo in Ungheria, ma siamo anche in un luogo dello spazio indefinito, in un terreno post-apocalittico.

 

Satantango è un'opera complessa che sfida il voyeurismo e la pazienza dello spettatore.

Centocinquanta inquadrature in sette ore e mezza raccontano una tragedia corale con momenti di grottesco umorismo.

 

La lunghezza non è solo una sfida tecnica, bensì una dichiarazione poetica chiara: la pellicola stessa sfianca lo spettatore, i momenti di vuoto sono funzionali nella traduzione cinematografica del concetto di angoscia esistenziale.

 

Alla fine della visione si avrà la sensazione di aver partecipato a un'esperienza, piuttosto che aver guardato un semplice film.  

 

[A cura di Lorenza Guerra]

 

Qui lo trovate in home video.

 



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