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Sulla recitazione: tra Metodi, Sistemi e convinzioni errate - Cinerama 11

Un'analisi dei sistemi recitativi dal Settecento ad oggi

Dal Settecento al Novecento, in Occidente, la recitazione teatrale è stata oggetto - a fasi alterne - di una copiosa riflessione teorica che ha gettato le fondamenta per tecniche poi applicate a un nuovo medium, il Cinema.

 

Cercheremo qui di sintetizzarne i principali snodi concettuali, nel tentativo di illustrare l'evoluzione dei vari sistemi attoriali.

 

Buona parte di questo approfondimento, che toccherà fugacemente il Settecento e poi si concentrerà con attenzione sulla prima metà del Novecento, interesserà il Teatro in quanto Arte genitrice, assieme alla fotografia, del Cinema.

 

I legami tra queste due discipline, inoltre, furono molto stretti nei primissimi anni dopo l'avvento del cinematografo, con un Cinema che, vista la bassa conoscenza del mezzo, era sostanzialmente "Teatro filmato", soprattutto per quanto riguarda la concezione degli spazi.

 

La recitazione teatrale e quella cinematografia, intesa in senso classico, non sono però uguali.

 

Oltre a differenze che sono secondarie solo per un'analisi di questo tipo (come la presenza del pubblico), la tipologia di fruizione e le caratteristiche intrinseche della disciplina (o del medium, e qui segnalo il saggio di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica), due sono gli aspetti fondamentali, almeno per noi.

 

 

[Walter Benjamin] recitazione 

 

 

Il primo è, vagamente, ciò che le specificità della singola disciplina implicano, in modo legato anche agli elementi sopracitati, precisando che considereremo il Cinema sonoro e non quello muto.

 

L'attore di Teatro deve comunicare a una platea non sempre vicina, e per farlo deve coordinare voce, viso e corpo.

Studia la respirazione diaframmatica per farsi sentire senza urlare, senza danneggiare le corde vocali, e amplifica le espressioni facciali e gestuali.

Nella stragrande maggioranza dei casi, però, egli deve cercare di far convivere queste esigenze pratiche con una ricerca di naturalismo e verosimiglianza.

 

L'attore di Cinema, invece, interagisce con la cinepresa e scomparendo certe necessità concrete può concentrarsi solo su sfumature espressive minime, altrimenti difficilmente apprezzabili.

 

Il secondo aspetto riguarda poi, nel dettaglio, ciò che può minare il processo di immedesimazione, processo che analizzeremo approfonditamente in seguito.

 

Considerando due situazioni prototipiche, a teatro l'attore si scontra con il concetto di replica e di prova, ma almeno durante la rappresentazione si inserisce in un flusso lineare di eventi narrativi.

L'interprete cinematografico, al contrario, recita in maniera diegeticamente non consequenziale, il che esplicita ancor di più la natura fittizia dell'operazione.

 

 

[Charlie Chaplin è un ottimo esempio dell'enfasi recitativa del Cinema muto] recitazione

 

Tenendo a mente quanto appena detto, passiamo al versante storico.

 

Se nel Seicento la recitazione era una branca dell'oratoria, nel Settecento l'ansia riformatrice di matrice illuminista cambia le carte in tavola, specie in Francia.

Emergono così due linee opposte, quella dell'emozionalismo e quella dell'anti-emozionalismo, dell'attore "caldo" e dell'attore "freddo", entrambe tese ad una resa verosimile.

 

La prima, caldeggiata da uomini di teatro come Rèmond de Sainte-Albine e Luigi Riccoboni, prescrive che l'interprete debba provare realmente i sentimenti del personaggio, immedesimandosi, in una chiave che poi sarebbe stata ripresa dai romantici.

 

Saint-Albine conia i concetti di "esprit" - una sorta di intelligenza emotiva - e di "feu", l'energia emozionale, che devono concorrere nel rappresentare (e creare) le "sentiment". Il tutto coadiuvato solo in un secondo momento dalle concrete tecniche di recitazione.

 

La seconda linea, quella dell'anti-emozionalismo, sostenuta da figure come Antoine-François Riccoboni (figlio di Luigi) e Denis Diderot, prevede invece che la recitazione sia basata principalmente sulla tecnica.

La partecipazione emotiva non è bandita, ma l'eccesso d'immedesimazione è rifiutato in quanto offuscherebbe la tecnica e complicherebbe la ripetizione nelle varie repliche.

È inolte fondamentale la separazione concettuale tra sentimento ed espressione del sentimento, rigettata completamente dagli oppositori.

 

Diderot, nel suo Paradosso sull'attore, in un'ottica pienamente illuminista, sancisce il primato del "raziocinio", unico appiglio per recitare in modo non artificioso, non iperemotivo, e per garantire una certa costanza.

 

L'interprete dotato di "nessuna sensibilità" emozionale deve così osservare il personaggio "dall'esterno", quasi anticipando Bertolt Brecht di un secolo e mezzo, e le "lacrime […] debbono scendere dal suo cervello".

 

 

[Denis Diderot ritratto da Dimitry Levitzky] recitazione

 

Saltando di netto l'Ottocento, habitat del grande attore (di norma "caldo") e povero di influenti teorie recitative, arriviamo a Mosca, nel 1898.

 

Konstantin Stanislavskij, assieme a Vladimir Nemirovič-Dančenko, fonda il Teatro d'Arte, e apre una fase registica ispirata al "realismo esteriore" del Naturalismo, fatto di scenografie, costumi  e alla coralità della colossale Compagnia dei Meininger.

 

In occasione della rappresentazione de Il gabbiano di Anton Čechov, e non prima di un confronto con lo stesso autore, le cose cambiano: il regista russo inizia infatti a interessarsi al comparto attoriale - in modo sia teorico sia pratico - e getta le basi per la costruzione del Sistema/Metodo (chiariremo in seguito questa terminologia).

 

S'inaugura così la fase del "realismo interiore", per cui "l'attore deve vivere e non recitare" tutte le volte che sale sul palco.

 

Sulla scorta del clima storico-culturale dell'epoca, dal 1906 Stanislavskij inizia a tracciare un percorso psicotecnico per portare l'attore all'immedesimazione e fargli quindi compiere un processo di reviviscenza ("perezivanie").

Innanzitutto, l'interprete deve studiare minuziosamente tutto il copione, comprese le altre parti, impossessandosi in modo totale delle "circostanze date", relative a quel contesto fittizio.

 

Con uno slancio immaginativo egli deve poi provare a costruire mentalmente il "sottotesto", la biografia non-scritta del proprio personaggio, sfruttando i pochi indizi dati dal testo.

 

Per ultimo, l'attore deve chiedersi cosa proverebbe se si trovasse concretamente in una certa situazione (il "magico se"), tentando di scovare un'emozione reale (la "perlina") nella propria "memoria emotiva" (in senso ampio e non troppo legato a singoli eventi) che si avvicini il più possibile a quella richiesta.

 

 

[Il Teatro d'Arte a raccolta, con al centro Konstantin StanislavskijAnton Čechov]

 

Questa adesione emotiva si fonde poi con un altro processo per nulla secondario, quello di personificazione, indispensabile per sostenere concretamente l'immedesimazione ed esprimerla.

 

Per poterla trasmettere, l'attore deve, prima di tutto, padroneggiare le classiche tecniche recitative, con particolare attenzione alla voce, alla gestualità e avere un corpo ben allenato, specie muscolarmente.

 

In un secondo momento, si innescherà un'operazione di caratterizzazione esteriore, volta a far coincidere il più possibile l'interprete al personaggio.  

L'assoluta comunione di questi due elementi, inscindibili anche idealmente, genera quindi un Sistema/Metodo basato tanto sull'interiorità quanto sull'esteriorità, a dispetto del significato comune (tendenzialmente errato) dell'espressione Metodo Stanislavskij.

 

Tale approccio, come esplicitato dallo stesso autore, poggia interamente sul fatto che "un personaggio sia talvolta creato psicologicamente" e talvolta "scoperto attraverso un'esplorazione puramente esteriore".

 

Stanislavskij, inoltre, non era a favore di un'immedesimazione assoluta, in quanto convinto che ciò avrebbe comportato danni psicologici specie sul lungo andare.

E il metodo del regista non si sposa nemmeno con un tipo di recitazione istintuale, che porterebbe facilmente ad un'interpretazione enfatica e artificiosa.

 

È assai curioso che, in maniera quasi controintuitiva, Stanislavskij si ponga sostanzialmente in una posizione intermedia tra emozionalismo e il suo opposto. Ma ciò è spiegato dalle particolarità del contesto culturale primonovecentesco, in cui l'interiorità diventa - non senza ingenuità - materia scientifica quasi misurabile.

 

In questo senso, fondamentale fu l'incontro del regista russo con lo psicologo francese Théodule-Armad Ribot, dal quale mutuò il concetto di "memoria affettiva", poi ribattezzato "memoria emotiva".

 

Per correttezza, è bene però sottolineare che il regista russo ribadì più volte come il proprio lavoro non avesse pretese scientifiche, nonostante sia evidente come tale sostrato abbia giocato un ruolo centrale.

 

 

[Théodule-Armad Ribot] recitazione recitazione

 

I punti salienti del pensiero del primo Stanislavskij sono raccolti nel saggio Il lavoro dell'attore su se stesso, che contiene altri concetti di capitale importanza teorica come la suddivisione del testo in sezioni durante le prove e la nozione di tempo-ritmo.

 

Introduce poi le idee di "arte dell'esperienza""arte della rappresentazione", intese come le due più importanti tipologie di recitazione, opposte per quanto concerne l'approccio dell'attore sul palcoscenico. 

Nonostante entrambe si servano dell'immedesimazione, specie per le prove, la prima vede l'attore "vivere" e la seconda - che considera l'adesione emotiva come uno dei tanti compiti dell'interprete (collegandosi a Diderot) - "recitare".

 

Il saggio non fornisce però un approccio sistematico.

 

Stanislavskij non redige una scaletta di operazioni (fisiche o psicologiche) da compiere, come hanno invece fatto successivamente i fautori del Metodo americano, ma traccia delle linee guida, un "approccio" che lui stesso correggerà ed altererà più volte.

 

Il ripensamento più radicale - che suscitò non poco clamore - arriverà nei primi anni '30 e ribalterà completamente il Sistema/Metodo.

 

Negli anni precedenti, due erano stati gli eventi fondamentali che ci serviranno in seguito: la fondazione del Primo Studio del Teatro d'Arte di Mosca nel 1912, assieme a Evgenij Vachtangov, Michail Čechov, Richard BoleslawskiMarija Uspenskaja e all'acclamato tour statunitense della compagnia compiuto nel 1923.

 

 

[La sede del Teatro d'Arte di Mosca] recitazione

 

Ma veniamo ora al ripensamento, quello che produrrà il controverso, in termini accademici, "metodo delle azioni fisiche".

 

Stanislavskij si rende conto che il Sistema/Metodo è parecchio difficile da attuare con successo - specie in vista delle repliche e anche considerata l'assenza di una vera natura sistematica - e ne cambia quindi le premesse concettuali:

 

"L'azione è la vera base della nostra arte, ed è con essa che deve iniziare il nostro lavoro creativo".

 

Il percorso varia così interamente: si parte senza studiare approfonditamente il testo e, visto che il modo migliore per approcciarlo è "agire nelle circostanze date", si improvvisano alcune situazioni, anche senza parole.

 

Il punto focale è creare una precisa sequenza di azione e gesti, una partitura composta da numerosi frammenti che, in seconda battuta, andranno montati tra loro e, in un terzo momento, integrati con le parole.

 

Stanislavskij, che ha come obiettivo ancora una resa naturalista, parte quindi dal corpo per produrre un effetto interiore, che non è affatto posto in secondo piano visto che "il nodo non è nelle azioni fisiche in quanto tali".

 

In questa chiave - come hanno sottolineato anche diversi conoscitori dell'opera di Stanislavskij - il "metodo della azioni fisiche" non è antitesi del Sistema/Metodo, ma evoluzione coerente che, non sancendo né il primato dell'interiorità né quello dell'esteriorità, inverte l'ordine del processo pedagogico.

 

 

[Konstantin Stanislavskij] recitazione recitazione

 

Le radici profonde di questo ribaltamento sono da rintracciare, almeno in parte, nel rapporto del regista russo con Vsevolod Mejerchol'd, che lavorò come attore per Stanislavskij e passò poi alla regia.

 

Mejerchol'd fu infatti il padre di quell'approccio recitativo che, tendenzialmente, si è soliti contrappore al Sistema/Metodo, ovvero la biomeccanica.

Negli anni '20, il regista russo inizia a ideare quello che non è propriamente un sistema di recitazione, ma un sistema preparatorio di formazione ed allenamento dell'attore.

 

Le ispirazioni concettuali di tale sistema, con la minuscola, sono davvero molto varie.

 

In campo teatrale, è da citare l'influenza della Commedia dell'Arte, del teatro giapponese Kabuki e del teatro cinese di Mei Lanfang, mentre in campo extra-teatrale tanto la riflessologia pavloviana quanto il taylorismo produttivo, nel quadro di una vicinanza generale al costruttivismo russo.

 

Sintetizzando tali premesse, Mejerchol'd concepisce un approccio tecnico-scientifico e si interessa soprattutto al corpo dell'attore, sviluppando un complesso sistema pedagogico strutturato in "principi" e "studi".

 

Si connettono così il processo fisiologico e quello psicologico, e si realizza un approccio psicofisico che non è poi così lontano né dal primo né dall'ultimo Stanislavskij, pur essendo comunque più affine al secondo.

 

Mejerchol'd, in ogni caso, riteneva che l'approccio del suo vecchio regista - nel caso del Sistema/Metodo - fosse sproporzionato sulla componente psicologica, ma ciò è probabilmente da leggere in un'altra chiave connessa al rapporto con il naturalismo interpretativo.

 

 

[Ivan Pavlov]

 

Se Stanislavskij, sia primo sia ultimo, mira ad una resa verosimile sotto tutti i punti di vista, privilegiando un teatro di parola (più nella prima fase), Mejerchol'd sceglie invece di valorizzare primariamente l'aspetto corporeo e talvolta vira verso una resa antinaturalistica.

 

Quasi citando Diderot, egli sostiene che l'interprete non debba essere neutrale, ma debba invece "smascherare il personaggio" in chiave politica (anticipando così Bertold Brecht), non entrando "nella parte da capo a piedi" (cosa che, in realtà, scoraggiava anche Stanislavskij).

 

Diversi punti sono però controversi e non affatto facili da dirimere.

 

Mejerchol'd, come detto, favorisce la corporeità e spesso se ne serve per creare delle rappresentazioni smaccatamente stilizzate, nelle quali - come disse il critico Ippolit Sokolov - l'attore diviene "un automa, un meccanismo, una macchina".

In questo senso l'opposizione a Stanislavskij è netta.

 

Egli non nega però la componente emozionale, visto che l'attore non deve diventare "un mero esecutore di gesti [...] senz'anima", e ciò assume rilevanza particolare quando, nel considerare la biomeccanica, trascendiamo dalla figura singola di Mejerchol'd.

 

La biomeccanica, infatti, pur essendo stata un indubbio modello per diverse esperienze di recitazione votate all'antinaturalismo, si può anche configurare come metodo teso a una resa verosimile.

 

Ricapitolando, se genericamente ha senso opporre Stanislavskij e Mejerchol'd, più per le finalità che per l'approccio in sé, lo stesso non vale per il Sistema/Metodo e la biomeccanica che, oltre a non essere un sistema di recitazione, può essere coniugata in maniere decisamente differenti.

 

 

[Vsevolod Mejerchol'd] recitazione recitazione

 

Vediamo però ora nel concreto quali sono i paradigmi essenziali della biomeccanica, dando per scontata l'importanza di un'ottima condizione fisica e di una forte etica del lavoro.

 

Tutti i movimenti, in una visione economicistica, vengono concepiti come composti da tre elementi: "intenzione", "esecuzione" (dopo una breve fase d'equilibrio) e conseguente "reazione psichica".

 

Il fine, più che compiere un allenamento fisico, è il riuscire a creare una connessione - che col tempo dovrebbe diventare spontanea - tra azione ed intenzione.

 

In tal senso si innestano un gran numero di principi teorici che qui non considereremo, e poi, a seconda delle esigenze, si procede nel costruire una partitura fisica.

 

La componente fondamentale, ma non unica, di questa partitura complessiva è lo "studio", una macro-partitura singola caratterizzata da un tema.

Ogni studio (o "étude") è aperto e chiuso da un "dattilo", un ritmo ternario (piede lungo, breve, breve) a sua volta composto da tre step: fermo, preparazione ed azione.

 

Una volta assorbita la partitura, l'interprete può dedicarsi alla recitazione pura e, procedendo col "pilota automatico" dal punto di vista gestuale, può creare mentalmente un suo immaginario legato alla pièce (detto "obraz"), eventualmente concludendo con l'innesto di emozioni, se l'intento è naturalistico.

 

 

[A Perugia ha sede il Centro Internazionale Studi di Biomeccanica Teatrale] recitazione recitazione

 

Prima di proseguire, vale poi la pena considerare brevemente la figura del francese François Delsarte, che nell'Ottocento introdusse - forse per primo - uno schema interpretativo basato sul concetto di partitura.

 

Egli considera l'interiorità e l'esteriorità come aspetti strettamente correlati e, dopo lunghe ricerche, realizza una sorta di vocabolario fonetico-gestuale (e non solo corporale) rivolto all'attore.

 

Tre sono le fasi del lavoro dell'interprete, che parte dalla "delineazione della partitura", prosegue con la sua "acquisizione" e si conclude con la "immedesimazione".

 

Come ha sottolineato Elena Randi, "a Delsarte spetterebbe dunque l'invenzione di una psicotecnica", un sistema che ha anticipato di diversi decenni l'ultimo Stanislavskij e un certo modo di intendere la biomeccanica, passando però in sordina a causa di motivazioni non di valore.

 

Chiusa questa parentesi, ritorniamo alla scena sovietica, presentando figure che torneranno utili quando cominceremo ad approcciare il mondo del Cinema. Il primo nome è quello di Evgenij Vachtangov, pupillo di Stanislavskij e cofondatore del Primo Studio nel 1912.

 

Il suo è un percorso abbastanza complesso che tocca sia le ricerche del proprio maestro sia quelle di Mejerchol’d.

 

Recuperando una certa attenzione per la forma della rappresentazione, egli riuscì a declinare il Sistema/Metodo in una maniera "più brillante e fantasiosa rispetto a Stanislavskij", come disse Lee Strasberg.

 

 

[Evgenij Vachtangov] recitazione recitazione

 

Il secondo nome è quello di Michail Čechov, nipote dell'assai più noto Anton.

Anch'egli allievo di Stanislavskij e cofondatore del Primo Studio, fuse le concezioni del Sistema/Metodo con quelle del suo altro mentore Vachtangov e del teatro simbolista.

 

Come attore, Čechov sperimentò su di sé l'approccio stanislavskijano ma ebbe un esaurimento nervoso, sviluppando successivamente il concetto psicofisico di "gesto psicologico", espresso nel saggio La tecnica dell'attore.

 

Si tratta di un movimento significativo (predefinito) che riesce a "comprendere ed esprimere la completa psicologia del personaggio": l'attore compie il gesto - che richiama uno stato psicologico - e cerca poi di interiorizzarlo senza immedesimarsi del tutto.

 

Fondamentale, come ha testimoniato l'attrice Mala Powers, è riuscire a rendere qualsiasi cosa "giustificabile psicologicamente", superando i tradizionali limiti della "memoria emotiva" di Stanislavskij.

 

Proprio teorizzato da Delsarte, l'ultimo Stanislavskij e una certa biomeccanica, anche Čechov, a modo suo, mira quindi a suscitare sentimenti a partire da esercizi fisici.

 

 

[Michail Čechov] recitazione recitazione

 

Consideriamo ora un passaggio fondamentale nella creazione di quello che, oggi, chiamiamo (erroneamente) "Metodo Stanislavskij".

 

Nel 1923, dopo il celebratissimo tour compiuto dal Primo Studio negli Stati Uniti, Richard Boleslawski e Marija Uspenskaja decidono di rimanere in America e di fondare a, a New York, l'American Laboratory Theatre.

Iniziano così a diffondere le idee del primo Stanislavskij, sempre in chiave teatrale, ed esse acquiscono parecchia visibilità, attirando giovani studenti come Stella AdlerLee StrasbergHarold Clurman.

 

Nel 1931, poi, ques'ultimi due e Cheryl Crawford fondano il collettivo teatrale Group Theatre, sempre a New York, coinvolgendo personalità come la Adler, Sanford Meisner, Robert Lewis ed Elia Kazan.

 

Il perno centrale, senz'ombra di dubbio, è Lee Strasberg, fulminato sulla via di Damasco dalla tournée di Stanislavskij del 1923, specie dal modo in cui gli interpreti - dal protagonista alle comparse - fossero assolutamente credibili e intensi.

 

Dopo aver ammirato i risultati del Sistema/Metodo, decide di dedicarsi al teatro a tempo pieno e, insoddisfatto della pedagogia statunitense, si iscrive all'American Laboratory Theatre. Inizia quindi ad approfondire lo studio dei lavori di Stanislavskij e Vachtangov, spingendosi ancor più indietro nel tempo, fino a concentrarsi sulle opere di Denis Diderot.

 

Questi complessi quesiti teorici troveranno risposta solo grazie agli insegnamenti di Boleslawski e della Uspenskaja, che lo convinceranno della necessità di un rigido approccio sistematico, applicato per la prima volta nel Group Theatre.

 

Ed è in questa maniera, prima di tutto, che Strasberg si allontana dal primo Stanislavskij.

 

 

[Lee Strasberg, Harold Clurman e Cheryl Crawford] recitazione

 

 

Egli crea un vero Metodo - composto da regole ed esercizi - che si distanzia da quello che dunque, d'ora in poi, chiameremo Sistema Stanislavskij.

 

Ma non solo in questo risiedono le differenze.

Come visto, Strasberg prende sì a modello l'apparato teorico del regista russo ma, integrandolo con lo studio di altri autori, definisce un'ottica autonoma.

 

Uno dei tratti distintivi di tale ottica è la tecnica del "richiamo emotivo", utile nel caso in cui l'interprete non riesca a produrre lo stato sentimentale richiesto dalla parte.

 

L'attore cerca così di intercettare un proprio ricordo reale e, successivamente, ricrea mentalmente la scena fin nei minimi dettagli, tentando di sperimentare nuovamente la stessa emozione.

 

Rispetto a Stanislavskij, si tratta quindi di un diverso tipo di immedesimazione, visto che il regista russo (specie nella sua seconda fase) contemplava il ricorso a precisi ricordi reali solo in caso di estrema necessità.

L'impostazione di Strasberg vede così una netta predominanza del lato psicologico, in contrasto con l'orientamento tanto del primo quanto dell'ultimo Stanislavskij, e un deciso ridimensionamento del comparto fisico.

 

Proprio in tal senso Richard Boleslawski e Robert Lewis criticarono ripetutamente Strasberg, reo, a loro dire, di aver amplificato eccessivamente l'importanza della "memoria emotiva" del Sistema.

 

 

[Il nucleo del Group Theatre] recitazione

 

Un'ulteriore discrepanza tra l'approccio dei due maestri riguarda il comportamento dell'attore in fase di non-lavorazione.

 

Stanislavskij, pur rifiutando l'immedesimazione assoluta, sostiene la necessità di rimanere nella parte anche fuori da teatro, mentre Strasberg - pur predicando l'importanza di "entrare nella vita del personaggio prima dell'alzata del sipario" - bolla la pratica come "estranea al Metodo".

 

Per diversi motivi, poi, negli anni, il Metodo strasberghiano divenne molto più indicato per il Cinema.

 

A prescindere dal fatto che Strasberg, a differenza di Stanislavskij, iniziò a considerare concretamente la presenza della cinepresa, il vero cardine risiede nelle già esposte diversità congenite tra le due arti.

 

Un'immedesimazione alla Strasberg, infatti, essendo molto più ancorata alla vita reale dell'attore, risulta tremendamente efficace in occasione di un primo o primissimo piano, almeno in relazione all'attenzione olistica del regista teatrale russo.

 

All'interno del Group Theater, comunque, si distinsero tre differente differenti scuole di pensiero, tutte derivanti, non in egual misura, dal Sistema stanislavskijano.

 

Oltre alla prevalente corrente di Strasberg, d'impronta psicologica, emergono quelle di Stella Adler e di Sanford Meisner.

 

 

[Lee Strasberg] recitazione recitazione

 

Un posto fondamentale, in questo nostro discorso, è riservato all'anno 1934.

La Adler, già allieva di Boleslawski e della Uspenskaja, membra del Group Theatre e moglie di Harold Clurman, si reca a Parigi per incontrare Stanislavskij e approfondire lo studio del vero Sistema.

 

Lì apprende del ripensamento del maestro, del famigerato "metodo delle azioni fisiche", e ciò genera non pochi fermenti nel gruppo.

  

Strasberg rigetta con stizza le (nuove?) idee del creatore del Sistema, e irrigidisce la propria posizione metodologica, alienandosi dalla Adler e da Meisner.

 

Le crescenti tensioni portano al graduale allontanamento di quest'ultimi due e di Clurman, e nel 1937 alle dimissioni da direttori di Strasberg e Cheryl Crawford.

 

Dopo l'esperienza della Adler e di Strasberg nel Dramatic Workshop del tedesco Erwin Piscator (non-stanislavskijano per eccellenza), e dopo lo scioglimento ufficiale del Group Theatre nel 1941, Elia Kazan, Robert Lewis e la Crawford fondano l'Actors Studio nel 1947, ancora a New York.

 

Lewis, che negli anni aveva studiato personalmente con Michail Čechov, riesce a imporre una linea teorica più rispettosa del Sistema di Stanislavskij, ma nel 1951 Lee Strasberg assume la direzione dell'organizzazione, mantenendola per trent'anni.

Sotto di lui l'Actors Studio diventa un'istituzione senza eguali nel campo della recitazione, acquisendo fama e prestigio nel segno del Metodo e arrivando definitivamente a Hollywood.

 

Come ha sintetizzato Pamela Wojcik, "Strasberg ha trasformato una teoria socialista ed egualitaria" come quella di Stanislavskij in una "macchina costruisci-celebrità", soprattutto dal punto di vista cinematografico.

 

 

[La sede dell'Actors Studio a New York] recitazione

  

Considerata per intero la genesi e l’evoluzione del Metodo canonico, focalizziamoci ora su due approcci meno noti come quello di Stella Adler e quello di Sanford Meisner, partendo dalla prima.

 

La Adler, dopo le esperienze del Group Theatre e del Dramatic Workshop, crea autonomamente lo Stella Adler Conservatory nel 1949.

Approfondisce l'aspetto sociologico e, anche confrontandosi con Stanislavskij, concepisce una propria declinazione del Sistema.

 

Tanto per lei quanto per il regista russo, l'attore non può possedere nella propria interiorità una gamma di emozioni (reali) tali da permettere l'immedesimazione in un vasto numero di personaggi ("non voglio che tu sia attaccato alla tua vita, è troppo poco").

 

Assume così rilevanza la dimensione immaginativa, ancorata alle "circostanza date" del testo e innescata dalla fatidica domanda "what if...?", che comunque non annulla la componente mnemonica, ridotta però anche per non produrre effetti psicologici sull'interprete.

 

Oltre a questo elemento - che scoraggia l'immedesimazione totale - la Adler riconosce come il lavoro dell'attore sia per metà interiore e per metà esteriore, cogliendo appieno il senso del primo Sistema.

 

 

[Stella Adler] recitazione recitazione

 

Il secondo approccio è quello di Meisner, che nel 1941, dopo il Group Theatre, sviluppa la propria Meisner Technique.

 

Egli si focalizza sull'elemento comportamentale, sull'interazione tra gli attori, poiché "l'arte è l'espressione dell'esperienza umana", abbandonando completamente il ricorso alla "memoria emotiva" o al "richiamo emotivo".

 

Individua due problemi dell'attore prototipico, l'incapacità di ascoltare, l'eccessivo individualismo, e prescrive un metodo che permette di "vivere veramente in circostanze date immaginarie".

 

Il cardine di tale tecnica, composta da step progressivi, è il cosiddetto "esercizio di ripetizione", che vede due interpreti interagire improvvisando, cercando di "ascoltare e rispondere" e di "stare nel momento".

Le parole perdono significato e - solo in un secondo momento - le emozioni scaturite dallo scambio sentimentale e fisico tra gli attori sono ricondotte al testo.

 

Per comprendere a fondo le premesse della Meisner Technique bastano però le parole del suo fondatore:

  

"Quando si è in contatto con una persona l'emozione sorge spontaneamente, senza sforzoTutto si basa sul fatto che quanto un attore è bravo quello che fa scaturisce dal cuore: non c'è nulla di mentale".

 

 

[Sanford Meisner] recitazione recitazione

 

Prima di concludere, citiamo brevemente due tecniche di recitazione concepite più recentemente.

 

La prima è quella dell'attrice Uta Hagen, ispirata da Stanislavskij, Vachtangov e Harold Clurman e votata al massimo realismo.

 

Nel saggio Rispetto per la recitazione, l'interprete teorizza un approccio molto pratico, introducendo il concetto di "sostituzione" (poi "transfer").

Senza partire da un'idea predeterminata, l'attore deve tentare di connettere le proprie esperienze emotive di vita con quelle del personaggio, in un modo sì molto profondo, ma che non contempla una totale immedesimazione.

 

La seconda tecnica è la Practical Aesthetics, ideata dal regista David Mamet e dall'attore William H. Macy

Essa si basa, fondamentalmente, su una scrupolosissima analisi delle sceneggiature e  sugli insegnamenti del filoso greco Epitteto, di Stanislavskij e di Meisner.

 

La scomposizione della sceneggiatura si articola in quattro livelli consequenziali:

 

quello "letterale", che si limita a considerare in modo neutro il testo;

quello incentrato sulle volontà del personaggio, specie in relazioni agli altri;

quello relativo alla "azione essenziale" che costituisce il nucleo di una certa volontà del personaggio;

quello del "come se", teso a legare una situazione fittizia vissuta dal personaggio ad una situazione reale potenzialmente (!) vivibile dall'attore.

 

Si rifiuta così qualsiasi connessione con la "memoria emotiva" e con fatti concretamente vissuti, rendendo la recitazione dipendente dalla sola volontà dell'attore, padrone del proprio flusso psicologico.

 

 

[Uta Hagen] recitazione recitazione
 

 

Termina qui questa lunga disamina sulle tecniche di recitazione, prima teatrali e poi anche cinematografiche.

Disamina durante la quale ho volontariamente evitato di citare gli altisonanti nomi di parecchi attori hollywoodiani (estremi o no), concentrandomi solo sugli aspetti più puri della teoria della recitazione.

 

Se qualcuno volesse approfondire tali aspetti in altre chiavi, quasi sempre in una prospettiva teatrale, consiglio di approfondire esperienze come quella del Living Theatre e figure come quelle del francese Antonin Artaud, del tedesco Bertolt Brecht, dell'italianissimo Carmelo Bene (anche nella sua parentesi cinematografica) e del polacco Jerzy Grotowski.

 

Ringrazio Alessandro Collina (e in parte anche Gianluca Florio) per la scelta dell'argomento e vi ricordo del sondaggio bisettimanale che si svolge sul gruppo Facebook Cinefactsers!.

 

Cinerama Out. recitazione recitazione

 

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