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La tetralogia al femminile di Ingmar Bergman - Cinerama 09

Alle soglie della vita, Persona, Sussurri e grida, Sinfonia d'autunno

Quattro capolavori nella sterminata filmografia di Ingmar Bergman (sì: capolavori), per dissezionare il ruolo della donna, a livello sia individuale che interpersonale, e per gettare luce su alcuni dei temi più rilevanti legati al genere femminile.

 

Esamineremo solo quattro pellicole, rappresentanti quattro situazioni completamente diverse per non dover, ancora una volta, ricorrere a una seconda parte, e resteranno quindi escluse pellicole di altissimo valore.

 

Non compariranno grandissime figure come il quartetto di Donne in attesa, o la Monica di Monica e il desiderio, o la Karin di Come in uno specchio, o le protagoniste di A proposito di tutte queste… signore, o l'altra Karin di L'adultera, o la Marianne di Scene da un matrimonio e Sarabanda.

 

Indagheremo, con dovizia, sulle protagoniste di Alle soglie della vita, del 1958, di Persona, del 1966, di Sussurri e grida, del 1972, e di Sinfonia d'autunno, del 1978.

 

Questa, dunque, sarà una disamina certamente parziale che si avvarrà di pellicole imperniate su cast quasi interamente al femminile, nel tentativo di tratteggiare dei quadri psicologici soggettivi e intersoggettivi, specie con relazioni donna-donna.

 

 

[Harriet Andersson in Monica e il desiderio

 

 

Prima di addentrarci nel vivo della questione sono però doverose alcune premesse.

 

Innanzitutto è bene chiarire che, a mio parere, Ingmar Bergman non può essere definito un autore femminista o filo-femminista ma, senz'ombra di dubbio, nemmeno maschilista o retrogrado.

 

L'ampia produzione del regista e sceneggiatore svedese presenta grandi personaggi sia maschili sia femminili, e non si evidenzia alcuna disparità di trattamento.

 

Il che certamente non è affatto un male visto che - è bene ricordarlo - il femminismo non è affatto l'opposto del maschilismo.

 

Tale scelta sarebbe però inappuntabile se l'uguaglianza di genere fosse una conquista raggiunta ma, purtroppo, così non è e quindi si potrebbe aprire un interrogativo che rimarrà inevitabilmente insoluto.

 

Per essere filo-femminista egli avrebbe dovuto realizzare dei pamphlet cinematografici o accentuare il peso della componente sociopolitica nelle suo opere, rischiando di alterarne l'equilibrio?

 

Oppure basta il semplice (mica tanto) fatto di aver presentato uomini e donne sullo stesso piano?

 

A prescindere da ciò, alcune voci hanno comunque trovato dei punti deboli nella rappresentazione di Ingmar Bergman del genere femminile.

 

La studiosa Joan Mellen, ad esempio, ha criticato la preminenza del "ruolo sessuale" nelle donne bergmaniane, donne che inoltre "sono intrappolate in esistenze vuote e desolate in cui sfioriscono al primo apparire delle rughe sul volto", a differenza delle controparti maschili.

  

Seppur non sia completamente d'accordo trovo che tale appunto, non rivolgibile a tutte le opere di Ingmar Bergman, possa aprire un costruttivo dibattito in merito alla questione, spingendo l'analisi a un livello ancora più profondo, legato a questioni antropologiche.

 

 

[Ingmar Bergman con Bibi Andersson e Liv Ullmann

 

La seconda premessa, invece, è relativa ai grandi modelli teatrali del regista che, tra le altre cose, operò spesso anche dietro le quinte.

 

Il maggior punto di riferimento di Ingmar Bergman è certamente il norvegese Henrik Ibsen, drammaturgo attivo nella seconda metà dell'Ottocento, col quale condivide le radici filosofiche kierkegaardiane.

 

Ibsen, uno dei padri della drammaturgia moderna, si pose in netto anticipo sui tempi per quanto riguarda la rappresentazione della donna, con figure indimenticabili come la Nora di Casa di bambola e la Helene di Spettri.

 

In virtù di ciò egli fu più volte considerato come un protofemminista, specie dai posteri ma, come per Ingmar Bergman, il discorso è più complesso.

 

Attraverso tecniche teatrali come la tecnica analitica del dialogo, Ibsen indagò infatti sul rapporto tra individuo e società, tra persona e convenzioni sociali (borghesi), avendo come fine "la descrizione di esseri umani", a prescindere dal sesso.

 

Si potrebbe quindi ripetere lo stesso discorso fatto prima, notando come l'analisi della Mellen risulti (parzialmente) calzante anche in questo caso.

 

Ed è così che il "teatro-fotografia" di Ibsen si lega, anche nei suoi aspetti potenzialmente criticabili, a quel Cinema che Bergman riteneva "specchio della vita".

 

 

[Henrik Ibsen


 

Altri genitori putativi del cineasta svedese sono poi stati il connazionale August Strindberg e il russo Anton Čechov, che hanno contribuito a plasmarne lo stile peculiare, sia stilisticamente che contenutisticamente.

 

Tratti indelebili dei due, comuni anche a Ibsen, sono il bassissimo interesse per l'azione concreta, il profondo scandaglio psicologico dei personaggi ed il sempre presente tema dell'incomunicabilità, tutti corredati da un certo pessimismo di fondo.

 

Rimanendo in tema, se in Čechov è evidenziabile una moderna raffigurazione della donna, diverso è però il discorso relativo a Strindberg, che Bergman portò in scena ben 28 volte, tra teatro, radio e televisione.

 

Strindberg, che criticò spesso l'azione di Ibsen in tal senso, venne più volte bollato come "misogino""antifemminista", definizioni che, invero, risultano essere sì parzialmente vere, ma anche piuttosto superficiali.

 

Nel complesso, poi, tali radici teatrali portano, non senza contraddizioni, alla codifica del Kammerspiel, nato nel 1906 con la rappresentazione, ad opera di Max Reinhardt, dello Spettri di Ibsen, non a caso.

 

Con Kammerspiel, in campo cinematografico, intendiamo, citando la Treccani, "un film di intreccio semplice, intimo e psicologico, la cui azione si sviluppa tra pochi personaggi e in pochi e piccoli ambienti", con un sostanziale rispetto delle tre unità pseudo-aristoteliche.

 

A tali canoni, a livello teatrale, rispondono molte delle opere dei tre drammaturghi sopracitati, così come gran parte della produzione di Ingmar Bergman.

 

 

[Anton Čechov]

  

Concluso questo cappello introduttivo, passiamo all'analisi diretta delle quattro pellicole.

 

La prima è Alle soglie della vita, ingiustamente relegata tra le opere minori del regista.

 

Si tratta di una pellicola dalla notevole concisione formale e fattuale, interamente ambientata in un ospedale, nel reparto di ginecologia.

 

Il tema centrale è quello della maternità, e Bergman lo esplora tratteggiando tre differenti personalità, così bene da essere stato definito "incomparabile pittore della donna" da Éric Rohmer.

 

Nella stessa stanza troviamo infatti tre donne, Cecilia, Hjördis e Stina, interpretate da alcune delle grandi muse di Bergman, rispettivamente Ingrid Thulin, Bibi Andersson ed Eva Dahlbeck.

 

Il film si apre mostrandoci l'arrivo in ospedale di Cecilia, accompagnata dal marito Anders, impersonato da Erland Josephson.

 

Subito si percepisce distacco tra i due, e la donna, che rischia di perdere il figlio, chiede al marito se davvero desidera il bambino, rimanendo delusa dalla mancata risposta in merito.

 

Sfortunatamente Cecilia abortirà, venendo poi trasferita nella camera dove alloggiano Hjördis e Stina.

 

La prima, di gran lunga la più giovane delle tre, rende subito chiaro il suo ruolo, con un cinico "si è levata un pensiero", mentre Stina si mostra comprensiva nei confronti della nuova arrivata.

 

 

[Ingrid Thulin e Bibi Andersson in Alle soglie della vitaIngmar Bergman Ingmar Bergman

 

Si inizia così a delineare questo strano trio, con ognuna delle donne che parte da una situazione soggettiva totalmente diversa: Cecilia segnata dall'interruzione della gravidanza, Hjördis in procinto di abortire e Stina impaziente di partorire.

 

Le tre personalità incominceranno poi ad intrecciarsi l'una all'altra, portando a conclusioni impreviste.

Cecilia accusa il colpo, sentendosi in colpa per aver abortito (spontaneamente) e gettandosi nello sconforto, arrivando a definirsi una "buona a niente".

 

La donna, segretaria dall'animo razionale, inizia a rivalutare con spirito critico il rapporto col marito, rendendosi conto di come "quel figlio non era desiderato" da Anders.

 

In uno sfogo, esternerà poi tutta la sua disperazione:

"Forse qua dentro non ci squartano solo il ventre.

Anche l'anima ci tolgono!".

 

La visita dell'uomo non cambierà le cose, ma anzi servirà per mettere finalmente in chiaro le cose.

 

Cecilia dice subito che sa di non essere amata, e rinnega la loro vita di coppia, conscia di come l'essere "sempre stati ragionevoli e convenzionali" abbia irrimediabilmente inquinato il rapporto.

 

Anders, nel rispondere, non fa altro che confermare implicitamente il pensiero della moglie, dimostrandosi un borghesuccio superficiale e conformista:

"Ma ciò che abbiamo costruito, la nostra casa, i mobili, i libri?".

 

Solo al termine della pellicola, Cecilia, a mente fredda, si dirà pronta ad essere perdonata dal marito in uno slancio o tristemente conveniente o ingenuamente fiducioso.

 

 

[Ingrid Thulin è Cecilia] Ingmar Bergman 
 

 

Diversa la parabola di Stina, solare e felicissima per l'imminente parto.

 

Ella si dimostra, come detto, molto umana nei confronti di Cecilia, aiutandola e incoraggiandola, e vivendo il suo soggiorno in ospedale tra sorrisi e speranze.

 

Il rapporto col marito Harry, interpretato da Max von Sydow, appare come l'esatto opposto di quello tra Cecilia e Anders.

 

In questo quadro, solo un fugace momento di preoccupazione anticiperà il tragico epilogo della sua gravidanza, conclusasi con la nascita di un figlio morto.

 

 

[Eva Dahlbeck è Stina] Ingmar Bergman 

 

 

A metà tra l'abbattimento di Cecilia e l'euforia di Stina, nel dipanarsi della trama, si posiziona Hjördis, la vera protagonista.

 

Ella si è recata in clinica convinta di abortire, e si presenta allo spettatore come una donna cinica e sicura di sé, che trova i bambini "disgustosi e repellenti".

Solo il vortice d'emozioni generato dalle altre pazienti eroderà lentamente la sua scorza.

 

La giovane incomincia ad essere combattuta, arrivando a mettersi in discussione in prima persona.

 

L'altezzosa donna delle prime sequenze lascia spazio a una ragazza emotivamente fragile, che rivela di essere "stata presa da un uomo con violenza".

 

Si tratta del collega di lavoro Tage, che già l'aveva costretta ad abortire anni addietro e che rifiuta di discutere sul da farsi.

 

Il malessere di Hjördis, acuito dalla felicità di Stina e dalla tristezza di Cecilia, che si mostra però comprensiva, esplode:

"Avrei preferito non essere mai nata".

 

Il decisivo punto di svolta arriva solo con lo straziante termine della gravidanza di Stina ("è come se lei stessa fosse morta, come se nulla possa prendere vita da lei ormai"), che la convince a tenere il bambino.

 

Il film, come ha sottolineato Antonio Napolitano, si impernia sul "come attraverso la maternità si riesca a vincere la morte", servendosi, a mio avviso, proprio di quel "vero approfondimento psicologico" che Gian Luigi Rondi ha invece negato.

 

 

[Bibi Andersson è Hjördis] Ingmar Bergman

 

Seconda pellicola della nostra quadrilogia è Persona, l'opera più sperimentale del cineasta di Uppsala.

 

Evitando di considerare la stragrande maggioranza degli elementi del film, come l'enigmatica apertura o il comparto tecnico (specie fotografia e montaggio), affronteremo unicamente il complesso rapporto umano tra le due protagoniste, Alma ed Elisabeth.

 

La prima, a cui presta il volto ancora Bibi Andersson, è un'estroversa infermiera 25enne.

 

La seconda, interpretata da Liv Ullmann, altra musa del regista, è una rinomata attrice teatrale che dopo aver deciso di non proferire più parola, viene ricoverata in una clinica psichiatrica.

 

Ella è sana sia "fisicamente" sia "psichicamente", e il suo mutismo si configura come una precisa scelta che denota, tra le altre cose, il possesso di una "grande forza interiore".

 

A chiarire il suo stato soggettivo ci pensa una dottoressa, dotata di raro acume:

 

"Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento.

Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile.  

 

Nello stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa, e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo...

 

Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia.
   
 

...togliersi la vita [...] sarebbe poco dignitoso.

Meglio rifugiarsi nell'immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c'è bisogno di recitare...  

 

...ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire".

 

 

[Bibi Andersson e Liv Ullmann in Persona]

 

Questa "apatia" elevata a "sistema di vita" diviene, ovviamente, un discorso trasversale ai generi, ma finirà per diventare un tema profondamente femminile quando Elisabeth entrerà a stretto contratto con Alma, con la quale vivrà per qualche tempo in una casa al mare su indicazione della dottoressa.

 

Prima del trasferimento - ancora in ospedale - un gesto ci fornisce qualche indicazione in più sull'attrice, la quale strappa la foto del figlio allegata a una lettera del marito, segnalando un certo rimosso.

Giunte nell'abitazione le due iniziano a legare e Alma si apre molto con discorsi ora arguti ora ingenui.

 

Elisabeth ascolta pazientemente, forse celando una certa altezzosità, e la sua interlocutrice pian piano si allontana dal ruolo d'infermiera, divenendo un'amica.

 

Alma si spinge così sempre più in là nel raccontare la sua vita privata, raccontando un morboso episodio accaduto in spiaggia, nel quale ella si ritrovò a subire i "bestiali istinti" di uno sconosciuto, provando un "piacere crudele".

Rivela poi, in un secondo momento, di come fosse anche rimasta incinta del suo ragazzo, optando per un aborto psicologicamente più doloroso del previsto.

 

Nel narrare tali avvenimenti, questo turbinio di sentimenti contrastanti sembra provarla molto, lasciandola in preda ai sensi di colpa, il che la conduce ad una considerazione fatale:

 

"Si può essere un'altra persona nello stesso momento?!".

 

 

[Bibi Andersson è Alma] Ingmar Bergman 

 

 

Questa totale apertura di Alma, per ovvi motivi non corrisposta, suona come profetica, visto che la donna sembra pian piano svuotarsi della sua personalità originaria, giungendo a identificarsi sempre di più con Elisabeth.

 

Solo la scoperta della slealtà dell'attrice, che in una lettera alla dottoressa spiffera le confidenze dell'infermiera, farà precipitare il rapporto tra le due.

 

Alma, così, accusa Elisabeth:

"Ho sempre creduto che i grandi artisti si interessassero ai comuni mortali".

"Ti sei servita di me…".

 

In un momento d'ira, arriva poi ad alzare le mani e minaccia Elisabeth con dell'acqua bollente.

Quest'ultima, impaurita, parla per la prima (o seconda?) volta, poi sorride, mostrando la sua spocchia e quasi schernendo la donna.

 

Alma, sentendosi presa in giro ("hai sempre la tua risata"), passa al contrattacco, definendo l'attrice "corrotta" e "superba", causandone la rabbia ed il successivo allontanamento.

 

D'ora in avanti la relazione tra le due diventa sempre più confusa, e si forma una malsana sovrapposizione tra la svuotata Alma e la muta Elisabeth, prima in una sequenza onirica e poi nella celebre scena della fusione dei volti.

 

 

[L'esemplare commistione dei volti] Ingmar Bergman 

 

Emblematico è anche l'episodio, riproposto integralmente per due volte, da entrambi i punti di vista, relativo alla fotografia strappata del figlio di Elisabeth.

 

Le parole di Alma, che dimostra di aver ben compreso l'attrice, svelano un pesante rimosso:

"Accadde una sera a una festa, vero?

...qualcuno disse: 'Elisabeth, ora il tuo campionario è quasi completo, come artista e come donna, ma ti manca la maternità'.

 

Tu ridesti perché la cosa ti sembrò ridicola ma poi ti accorgesti che quelle parole ti ossessionavano, l'inquietudine aumentò finché ti decidesti ad avere un figlio.

...però quando rimanesti incinta ne avesti paura.

 

Paura delle responsabilità, paura di legarti a qualcuno, paura di morire, paura del dolore, paura di abbandonare il teatro, paura del tuo corpo deformato.

 

...di nascosto cercasti d'interrompere la tua maternità, ma senza riuscirci.

Quando capisti che era inevitabile, cominciasti a odiare il bambino e a desiderare che egli nascesse morto.

 

...il parto fu difficile […] ma sopravvisse e […] fu preso da un immenso quanto incomprensibile amore per te e tu invece lo respingi disperatamente...

Ti disgusta con quel suo corpo goffo e quelle labbra tumide, e quei suoi occhi umidi e imploranti, […] e hai paura".

 

Dopo questo (doppio) monologo, Alma sembra rinsavire e cercare di riappropriarsi della propria identità:

"Sono l'infermiera Alma.

Non sono Elisabeth Vogler".

 

 

[Liv Ullmann è Elisabeth] Ingmar Bergman

 

Nella sequenza successiva, ella compare poi vestita da infermiera, per la prima volta fuori dalla clinica, e sembra sì risoluta, ma pure emotivamente fragile.

 

Le due, infine, decideranno di separarsi, nel tentativo di tornare alla normalità, sancendo il fallimento della scelta di Elisabeth.

Fallimento anticipato, già ad inizio pellicola, da quell'impossibilità di non reagire di fronte alla vita suggerita dalla dottoressa.

 

Come detto, il film si concentra sul tema generale dell'identità, che sussiste solo in opposizione all'altro (come suggerisce anche visivamente la superba fotografia di Sven Nykvist), e sulla vana ricerca del senso dell'esistenza, con un discorso di matrice kierkegaardiana.

 

Seppure tali valutazioni superino qualsiasi discorso di genere, è pur sempre vero che uno dei cardini di questa "operazione senza anestesia", come l'ha definita Tullio Kezich, è la maternità, ancora associata ai suoi lati più oscuri e anti-vitalistici, che rende quest'opera tanto un trattato sull'essere umano tout-court quanto un compiuto studio sulla psiche femminile.

 

 

[Il direttore della fotografia svedese Sven NykvistIngmar Bergman Ingmar Bergman

 

Meno universale e più focalizzato su "certi segreti del cuore femminile", come ha sottolineato François Truffaut, è Sussurri e grida, prima pellicola a colori che andremo ad analizzare.

 

Essa può essere addirittura definito come l'unico film a colori realizzato da Ingmar Bergman, che ha dichiarato come tutti i suoi film possano "essere pensati in bianco e nero", eccetto questo.

 

Fotografia (con Sven Nykvist premiato dall'Academy), costumi e scenografia creano infatti una fondamentale alternanza tra rosso e bianco, alla quale si aggiungerà poi il nero, che colpisce sia visivamente che emotivamente.

 

Significative, in tal senso, sono le parole di Bernardo Bertolucci:

"È come essere spinti […] brutalmente all'inferno, e poi tirati fuori.

Poi essere di nuovo spinti all’inferno, e poi tirati fuori".

 

La trama si articola sui rapporti tra quattro donne, le tre sorelle Agnese, Anna e Karin, e la badante Anna, che, momentaneamente, convivono nella villa di famiglia a causa della grave malattia della prima delle quattro.

 

La parte iniziale del film - scindibile in quattro segmenti - è relativa alla sofferente Agnese, impersonata da Harriet Andersson che, tra parole e ricordi, ripercorre alcune fasi della sua vita.

 

La sua parabola, nell'economia del film, serve quasi da MacGuffin visto che la sua infermità diventa occasione per riunire le altre due sorelle e osservarne i comportamenti, più dal punto di vista interpersonale che individuale.

 

 

[Il rosso e il bianco di Sussurri e grida

 

La seconda parte si concentra su Maria, interpretata da Liv Ullmann, donna molto simile alla madre, non a caso rappresentata dalla medesima attrice.

 

Proprio come la genitrice, Maria è una donna annoiata e malinconica che mostra i lati peggiori della classe altoborghese a cui appartiene.

 

Sono le parole del medico David, col quale intrattiene una relazione adulterina, a incaricarsi di dipingerne precisamente i tratti.

 

Maria è "superficiale e indolente", porta sempre una "maschera" di "indifferenza" e "sarcasmo", e molto lascia trasparire anche la sua bocca dall'espressione perennemente "insoddisfatta e famelica".

 

Nel privato la donna ignora il tentativo di suicidio del marito, mentre in presenza di Karin e Anna esibisce il suo dolore (vero e presunto) dopo la morte della povera Agnese.

 

La terza parte è poi relativa a Karin - a cui presta il volto Ingrid Thulin - donna rigida e austera che, infatti, esternerà poco la sofferenza per la dipartita della sorella.

Anch'ella, colta ed intelligente, è ingabbiata dalle convenzioni sociali, e cela una profonda tristezza ("è solo un insieme di bugie, tutta la vita").

 

Come Maria, il rapporto col marito Fredrik è freddo e formale, e la sua insoddisfazione (anche sessuale?) la porterà a lesionarsi i genitali con un coccio di vetro, in un crudo flashback.

 

 

[Ingrid Thulin è Karin] Ingmar Bergman

 

Nei due segmenti centrali, più che la caratterizzazione individuale, è però fondamentale il rapporto proprio tra Karin e Maria, non molto vicine l'una all'altra.

  

Maria vorrebbe superare "questa freddezza", ma Karin si mostra impreparata:

"Non voglio che tu sia affettuosa con me.

È una tortura continua, è come un inferno".

 

Solo dopo questa iniziale repulsione tenta di aprirsi, ma si scontra con l'indifferenza, ingiustificata, della sorella.

 

Delusa, Karin vuota finalmente il sacco, comunicando tutto ciò che fino ad ora era rimasto sottaciuto:

"Lo capisci quanto ti odio?

Capisci quanto ti trovo falsa con le tue civetterie e i tuoi benevoli sorrisi, […] con le tue smancerie e le tue false generosità?".

 

Nel resto del film, le due cercheranno di comunque di parlare, ma il rapporto esploderà definitivamente nella sua falsità.

 

 

[Liv Ullmann e Ingrid Thulin in Sussurri e gridaIngmar Bergman Ingmar Bergman

 

Per concludere, la quarta e ultima parte concerne la badante Anna, donna semplice e segnata dalla morte della giovanissima figlia.

 

Ella, in virtù di ciò, indirizza il proprio istinto materno nei confronti di Agnese ("io sono la tua mamma"), alla quale è molto legata, ben più delle sorelle.

 

Quest'ultimo aspetto sarà inequivocabilmente esplicitato sul finale, quando, in una sequenza probabilmente onirica, Agnese sembrerà risorgere, confrontandosi poi, a turno, con tutte e tre le donne.

 

Per prima Karin, che conferma la propria aridità:

"Non voglio avere a che fare con la tua morte, […] non ti voglio bene".

 

Per seconda Maria, che, dopo un fasullo "non ti lascio sola", esce sconvolta dalla camera, abbandonando la rediviva al conforto della sola Anna.

Anna che, dopo il funerale, verrà poi cacciata dalla casa con poco tatto.

 

 

[Liv Ullmann è sia Maria sia la madre]

 

 

La pellicola, infine, termina con un'analessi che mostra le quattro - tutte vestite di bianco - che passeggiano felici per il giardino.

 

E sono le parole di Agnese, quella malata e sicuramente la più sfortunata delle tre, a fornirci la vera chiave di lettura dell'opera:

"Sento di dover essere grata alla vita, che mi dà tanto".

 

Il film, come detto, descrive più nel dettaglio le relazioni intersoggettive al femminile e presenta due elementi di chiara derivazione ibseniana.

 

Quello centrale è il tema del rapporto con il passato, ineluttabile e rappresentato concretamente dai molti orologi presenti nella casa, spesso inquadrati e il cui ticchettio riecheggia in ogni momento.

 

Il secondo è la casa delle bambole di Maria, che, oltre al rimando letterale, si potrebbe collegare tanto alla tematica dell'infanzia, cara anche a Čechov, quanto all'esibita falsità della proprietaria.

 

 

[Il quartetto protagonista di Sussurri e gridaIngmar Bergman 

 

Quarto tassello della tetralogia è Sinfonia d'autunno, nel quale Bergman sviscera il delicato rapporto madre-figlia, prendendo spunto dalla propria biografia, dal rapporto tra la moglie Liv Ullmann e la figlia Linn.

 

Ed è proprio l'attrice norvegese a confermarlo:

"Ingmar ha scritto Sinfonia d'autunno pensando a noi.

Io interpreto una quarantenne che incolpa la madre per come è andata la sua vita.

...siamo state molto vicine io e Linn, poi abbiamo avuto qualche difficoltà…".

 

La reale natura di tale relazione, inoltre, è espressa dal titolo originale, colpevolmente alterato dalla traduzione italiana.

 

Lo svedese Höstsonaten non si riferisce infatti a una sinfonia composta per un'orchestra, bensì ad una sonata focalizzata più sui singoli che sulla coralità.

 

L'impietosa analisi di Bergman si serve poi, formalmente, di una concisione mai così estrema, riducendo i movimenti di macchina all'osso.

 

La trama del film poggia interamente sull'incontro tra Charlotte, celebre pianista, e la figlia Eva, interpretate, rispettivamente, da Ingrid Bergman e Liv Ullmann, che finalmente si rivedono dopo ben sette anni.

 

 

[Ingrid Bergman e Liv Ullmann in Sinfonia d'autunnoIngmar Bergman Ingmar Bergman

 

A dispetto delle dovute cortesie iniziali, si percepisce subito una certa freddezza di fondo, legata a un passato che (ibsenianamente) non tarderà a emergere.

 

E complica ulteriormente le cose la presenza della sorella disabile Helena, che Eva accudisce da qualche anno, forse nel tentativo di reindirizzare il proprio istinto materno dopo la prematura scomparsa del figlio, dopo che Charlotte l'aveva confinata in una clinica.

 

Eva è una donna insicura, segnata dal complesso rapporto con la madre, sempre troppo distante ed esigente, se non arrogante.

Soffre il confronto con i successi della genitrice, e ciò riaffiora già in uno dei primissimi scambi tra le due.

 

Eva racconta di una sua esibizione musicale in parrocchia, ben accolta, e subito Charlotte pensa di magnificare il suo "trionfo" al Music Hall di Los Angeles, non senza una punta di boria.

 

L'inclinazione caratteriale di quest'ultima è poi ribadita da un altro piccolo evento, in occasione della cena.

 

Pur essendo appena rimasta vedova, non rinuncia ad un fin troppo elegante vestito rosso, decisamente sopra le righe, con l'esplicito intento di dar "fastidio" alla figlia che, tra l'altro, immaginava proprio una scelta di questo tipo.

 

Dopo il pasto si apre un altro potenziale confronto tra le due, con Eva che suona al piano il Preludio n.2 di Fryderyk Chopin.

 

Charlotte durante l'esecuzione si commuove, ma, al termine, non manca di criticarla e decide d'interpretare il brano anch'essa, affossando ulteriormente la già bassa autostima della figlia.

 

 

[Ingrid Bergman è Charlotte] Ingmar Bergman

 

Nel corso della convivenza, poi, Charlotte ed Eva si confrontano duramente in più occasioni, descrivendo un passato infelice e un rapporto quasi inesistente, e sarà la figlia a pronunciare le parole più taglienti:

"Per te ero un giocattolo con cui ti divertivi quando non avevi niente da fare.

Se facevo i capricci […] mi lasciavi alla nurse".

 

Lentamente vengono a galla tutte le insicurezze di Eva:

"Avevo il terrore di non piacerti […] pensavo proprio di essere orribile".

"Non c'era la più piccola parte di me che non ti piacesse. Il tuo io mi perseguitava".

 

"Sei riuscita ad annientare la mia voglia di vivere".

 

In questa sorta di confessione-fiume, viene tristemente delineato anche il profilo della madre, fasullo, fatto tanto di "gesti studiati" e "belle parole" quanto di una profonda aridità sentimentale.

 

"Io ti volevo tanto bene mamma […] ma non credevo in quello che dicevi.

La cosa più triste era quando tu sorridevi anche se eri arrabbiata".

 

 

[Liv Ullmann è Eva] Ingmar Bergman Ingmar Bergman

 

Ma il vero parossismo si raggiunge solo al termine di questa prima discussione, compiuta nella notte:

"Una madre e una figlia… che sconcertante, terribile combinazione di sentimenti, di confusione, di rovina.

…l'infelicità della madre si trasmette alla figlia.

 

È come se il cordone ombelicale non si fosse mai spezzato.

Mamma, è così? La sconfitta della figlia è il trionfo della madre?".

 

Il giorno seguente, dopo aver solo subito, è Charlotte a prendere la parola, parlando della propria infanzia e riconoscendo solo parte delle proprie colpe:

"Anche io volevo amarti, ma non ci riuscivo".

 

Eva però insiste, decisa a non raccogliere queste deboli scuse:

"Chissà se un giorno ti renderai conto che la tua assoluzione non puoi deciderla da sola.

Devi prenderti la responsabilità delle tue colpe, come tutti gli altri".

 

Charlotte, costretta a fare i conti col proprio passato, chiede inutilmente perdono, decidendo poi di allontanarsi, conscia che probabilmente non rivedrà mai più la figlia.

 

Sul finale, Eva, dopo alcuni pensieri suicidi, scrive una lettera alla genitrice per scusarsi, immaginando l'instaurarsi di una relazione basata sulla "pietà e la comprensione", ultimi appigli rimasti, chiudendo il film che forse più di tutti testimonia l'abilità di sceneggiatore di Bergman.

 

 

[Eva e Charlotte, in uno dei tanti momenti di disperazione] Ingmar Bergman Ingmar Bergman
Ingmar Bergman Ingmar Bergman

 

Questa è dunque la tetralogia al femminile di Ingmar Bergman che, tenendo in mente le premesse iniziali, ha saputo rappresentare indimenticabili personaggi femminili e ha studiato alcuni dei più complessi rapporti umani, da quello filiale a quello fraterno, con un occhio sempre rivolto alla dicotomia vita-morte, qui spesso legata al tema materno.

 

Non ringraziando nessuno, a differenza degli altri contenuti che invece vengono proposti da voi e che quindi vengono chiusi con un ringraziamento all'autore della richiesta, vi ricordo del sondaggio che nel gruppo Facebook Cinefactsers! decreta ogni due settimane l'argomento da trattare in rubrica. 

 

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Cinerama Out.

 

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2 commenti

Mattia Gritti

3 anni fa

Ciao, scrivimi pure su Instagram (mattia_gritti).

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Mattia Gritti

3 anni fa

Come giustamente sottolinei, è una caratteristica propria di tutta la sua filmografia.
Il Silenzio sarebbe stato un altro ottimo esempio, ma per motivi di spazio ho dovuto inevitabilmente contenere il perimetro d'azione.

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