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#Hey,Doc!

I 5 documentari candidati agli Oscar 2020 - Recensioni

Le recensioni dei cinque film candidati al premio Oscar per il Miglior documentario 2020

Nella precedente puntata di Hey, Doc!, abbiamo parlato dei 5 corti documentari candidati agli Oscar 2020. Per immergerci ancora di più nell'atmosfera che si respira ancora a Hollywood in questi giorni, oggi parliamo dei 5 documentari che durante la Notte degli Oscar si sono contesi la statuetta per il Miglior Documentario 2020.

 

 

Ma facciamo prima due chiacchiere su questa categoria tanto affascinante quanto, purtroppo, spesso poco in vista.

 

Attenti, vi avviso: la visione dei documentari causa dipendenza!

 

 



Inutile prendersi in giro: quelle appena citate non sono certo le categorie di premi più seguite.

 

Probabilmente le cause principali sono da attribuire a un circolo vizioso in cui l'uovo e la gallina in esame sono distributore e spettatore.

 

È difficile capire chi tra i due abbia contribuito maggiormente alla messa in ombra - o comunque penombra - dei doc.

 

Sicuramente la non eccessiva distribuzione dei documentari non aiuta lo spettatore interessato a guardarli, figuriamoci quello non propenso al genere.

 

Una difficile fruizione, dunque, tende a scoraggiare lo spettatore medio, non lo allena alla visione dei documentari, al loro ritmo tendenzialmente più lento, generando una sempre più bassa richiesta di questo genere: i numeri ai botteghini esemplificano la situazione e, automaticamente, l'offerta nei cinema è sempre minore.

E quest'ultima seguirebbe pericolosamente l'andamento di una spirale al cui centro ci sarebbe la scomparsa totale del Documentario dalla faccia della Terra... se non ci fosse Hey, Doc!


["Cioè, guarda, bene tutto, bella la rubrica eh, ma forse stai esagerando un pochino..."
"Un momento, il capo della rubrica sono io, decido io quando sto esagerando...

Sì: sto esagerando."]

 

 

[Partecipanti alla 15ª edizione degli Academy Awards del 1943]


Il Documentario venne celebrato dall'Academy per la prima volta nel 1943 su di un affollato palco in cui avvenne una tripla premiazione: premio Oscar al Miglior Documentario vinto in ex aequo da La Battaglia delle Midway di John Ford, Kokoda Front Line! di Kenneth George Hall e Preludio alla Guerra di Frank Capra e Anatole Litvak.

 

Volendo divertirci un po' con le percentuali - considerando che dal 1965 i candidati in questa categoria sono sempre stati cinque e che, ad eccezione del 1987 in cui ci fu un ex aequo con doppia premiazione, il vincitore è sempre stato soltanto uno - risulta palese che a vincere è 1/5 dei film in nomination, cioè il 20% di essi.

 

Quando ci fu la tripla premiazione - che non avvenne mai più in nessun'altra edizione fino ad oggi - i candidati erano ben venticinque!


La vittoria dei 3/25 dei documentari significa il successo solo per il 12% dei titoli in nomination.

 

Dunque l'anno in cui il Documentario esordì sul palco degli Academy Awards, anche se a prima vista sarebbe potuto non sembrare, non fu poi così premiato rispetto al gran numero di concorrenti!

 

 

[Da sinistra verso destra: il regista Asif Kapadia e il produttore James Gay-Rees ricevono l'Oscar al Miglior Documentario per Amy]


Negli anni abbiamo visto contendersi quella tanto bramata statutetta da registi del calibro di Joseph Mankiewicz (Eva contro Eva, Cleopatra), Sidney Lumet (Assassinio sull'Orient Express, Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani), Donn Alan Pennebacker (Don't Look Back, Sweet Toronto), Spike Lee (Fa' la Cosa Giusta, BlacKkKlansman).

 

E ancora Wim Wenders (Lo Stato delle Cose, Il Cielo Sopra Berlino), Michael Moore (Fahrenheit 9/11), Werner Herzog (Fitzcarraldo, Meeting Gorbachev), Joshua Oppenheimer (The Act of Killing, The Look of Silence), Agnès Varda (Cleo dalle 5 alle 7).

 

 

[Da sinistra verso destra: il produttore Dan Cogan e il regista Bryan Fogel ricevono l'Oscar al Miglior Documentario per Icarus]

 

Ma, anche se non sulla bocca di tutti, ad aver arricchito il genere documentario troviamo Bruce Weber (Let's Get Lost), Robert Epstein (The Times of Harvey Milk), Alex Gibney (Going Clear: Scientology e la Prigione della Fede), Luc Jacquet (La Marcia dei Pinguini), Laura Poitras (Citizenfour), Gianfranco Rosi (Sacro GRA), Asif Kapadia (Diego Maradona).

 

Non mancano alla lista nomi famosi in ambiti diversi da quelli del Cinema come, ad esempio, quelli dell'artista Banksy (Exit Through the Gift Shop) o dell'esploratore Jacques-Yves Cousteau (Il Mondo del Silenzio, Il Mondo Senza Sole).

 

Quest'anno, i film in lizza per l'Oscar al Miglior documentario 2020 raccontano storie di lavoratori e dei loro diritti calpestati, ci sbattono in faccia crude immagini di guerra civile mostrandoci cosa accade in diverse zone della Siria.

 

Ci fannno scoprire antichi mestieri mettendo in luce la loro bellezza ma anche tutte le difficoltà che si nascondono dietro uno stile di vita anacronistico.

Ci parlano di corruzione e governi che non riescono a liberarsi da politiche repressive a cui sembrano destinati.

 

Osserviamoli un po' più da vicino.

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American Factory

 

Nel 2008 l'importante azienda automobilistica General Motors, che già da qualche anno non se la passava economicamente a meraviglia, chiuse la grossa fabbrica di Moraine, una piccola cittadina vicino Dayon (Ohio), lasciando migliaia di dipendenti senza lavoro.

 

Nel 2014 Cao Dewang, fondatore e presidente dell'azienda cinese Fuyao Glass, una delle più grosse al mondo nella produzione di vetri per auto, decise di acquisire la ex fabbrica della GM per aprire la Fuyao Glass America, riassumento così tantissime persone rimaste disoccupate.

 

 



Cao Dewang come sinonimo di filantropia, l'immagine del benefattore e salvatore di famiglie sul lastrico.


È così che inizia ad essere considerato: colui che ha risollevato le sorti dell'intera economia del luogo.

Ma l'altro lato della medaglia viene presto svelato e non è così luccicante.

 

Già dal nome, la Fuyao Glass America ha voluto ostentare la volontà di fondere una realtà orientale e una occidentale ma il processo di costruzione di questo legame, piano piano, fa salire a galla tutte le differenze tra le due culture.

 

 


 

Esemplificativo lo scambio tra un supervisore americano e uno cinese:

 

Supervisore cinese:

"Avete otto giorni di lavoro al mese, tutte le settimane.
Solo otto ore al giorno, vita comoda.

Loro [i dipendenti della Fuyao in Cina, ndr] hanno uno o due giorni di riposo al mese.
[...] Ho sentito che i lavoratori scherzano e parlano..."

 

Supervisore americano:
"Possiamo usare il nastro adesivo.

Gli tappiamo la bocca così lavoreranno meglio"

 

Mancanza di un sindacato sponsorizzato come pericoloso e ostruzionismo alla sua costituzione, norme di sicurezza carenti, orari di lavoro sempre più intensi e paghe misere: la normalità per i dipendenti cinesi, un abuso e una svalutazione del lavoro per gli americani.

 

Le lotte per rivendicare i propri diritti da lavoratori e ciò che viene fatto dalla dirigenza, più o meno lecitamente, per spegnere queste insurrezioni.

 

 



Diretto da Steven Bognar e Julia Reichert, American Factory è stato presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2019 e in anteprima nazionale al Biografilm Festival 2019.

 

Al momento fa parte del catalogo Netflix su cui potete guardarlo in streaming.

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The Cave

 

Ve la ricordate la scena di Hook - Capitan Uncino in cui i Bimbi Sperduti sono tutti seduti a tavola, pronti a mangiare, ma con i piatti vuoti?

 

E lì iniziano a fare un gioco in cui immaginano di mangiare ciò che avrebbero tanto desiderato.

In un film fantastico una cosa del genere non ci sorprende, anzi, ci fa sorridere.

 

Se però una scena simile si svolge nella realtà e a guardarla siamo noi, occidentali fortunati che in media riescono sempre a procurarsi l'occorrente per i pasti quotidiani, la cosa ci lascia pensare.

"Let's imagine pizza with extra cheese!"

Immagina della pizza con formaggio extra!

 

 

[Festeggiamenti per il compleanno di Amani Ballour all'interno dell'ospedale nelle gallerie sotterranee di Al Ghouta]



Viene detto da un medico in una camera in cui si sta celebrando il compleanno della dottoressa Amani Ballour - la protagonista di The Cave - a base di un po' di pop corn e insalata recuperati per l'occasione.

Ci troviamo ad Al Ghouta (Siria), vicino Damasco: questo se dovessimo indicare la posizione su una mappa.

Il documentario in realtà narra gli eventi che si svolgono in una specie di Al Ghouta sotterranea, una serie di gallerie realizzate dai civili per cercare di ripararsi dai bombardamenti.

 

Dal 2013, infatti, il regime siriano non ha dato tregua con i continui lanci di bombe dagli aerei e ha iniziato anche a servirsi di armi chimiche a base di cloro: i civili, non potendo più vivere "in superficie", hanno iniziato a organizzare una città sotterranea in cui hanno allestito anche un ospedale, quello dove lavorano la dottoressa Amani e altri suoi coraggiosi colleghi.

 

 



Centinaia di migliaia si sono trasferiti in profondità cercando la salvezza e ogni giorno continuano ad arrivare feriti gravi, bambini in fin di vita, che necessitano di urgenti cure.

 

E i medici fanno quel che possono pur non avendo abbastanza medicine e cibo per tutti.

È un lavoro straziante, che lentamente e in maniera costante, distrugge le speranze di chi prova con tutte le sue forze a salvare vite in quelle condizioni, di chi dedica tutte le sue giornate agli altri.

 

"Is God really watching?"

 

In una situazione in cui la Morte è quel collega che vedi ogni giorno perché sta nel tuo stesso ufficio, ma che non puoi sopportare, è quasi come se il fatto di essere medico non ti permettesse di scegliere se avere una tua vita o darti, anima e corpo, a quella di chi soffre.

 

The Cave, il cui titolo rimanda alla galleria in cui si trova l'ospedale, ci fa osservare da vicino la vita in corsia, spesso purtroppo sinonimo di feriti che vengono appoggiati sul pavimento per mancanza di spazio.

 

Seguiamo da vicino Amani, medico donna che esercita con coraggio e determinazione la sua professione, nonostante in Siria una donna che lavora non sia vista di buon occhio.

 

Operazioni chirurgiche in spazi angusti e affollati, mancanza di anestetici che vengono sostituiti da musica riprodotta con lo smartphone per alleviare il dolore a chi sta male.

Il terrore di alcuni bambini che si fingono feriti pur di avere la possibilità di stare per un po' al sicuro nelle mani di un medico, lo sguardo perso di altri, sporchi e bendati, che non hanno neanche più le forze per piangere.

 

Madri disperate sul letto di morte dei figli.

 

 



Dopo Last Man in Aleppo, documentario del 2017 riguardante le missioni di soccorso dei Caschi Bianchi ad Aleppo e che ricevette una nomination per l'Oscar al Miglior Documentario, stavolta il regista Feras Fayyad dirige un documentario col fine di mostrare come la guerra civile sia nient'altro che un terribile palcoscenico destinato alla rappresentazione di tragedie e i cui attori sono civili innocenti.

 

The Cave arriva alla Notte degli Oscar con alle spalle la vittoria del People's Choice Award for Documentaries ottenuta al Toronto International Film Festival 2019 dove è stato presentato in anteprima.

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The Edge of Democracy

 

Con il suo riconoscibile stile nel girare documentari, la regista Petra Costa firma un lavoro incentrato sulla situazione politica ed economica che ha interessato il Brasile a partire dagli anni '70 e l'hanno portato ad uscire inizialmente da un buio periodo ventennale di dittatura, l'hanno poi condotto verso la democrazia ma, purtroppo, ai giorni nostri lo stanno vedendo ricadere in una molto più repressiva forma di governo.

 

Il documentario parte presentandoci l'importante figura politica di Luiz Inácio Lula da Silva (chiamato da tutti Lula) che iniziò ad ottenere consensi nel 1979 militando all'interno del sindacato dei lavoratori e arrivando a candidarsi come presidente, più volte, finché nel 2002 non vinse.

 

Questa vittoria, però, non fu frutto dei soli buoni propositi con cui aveva iniziato la sua carriera politica: furono necessari dei compromessi.

 

 

[Luiz Inácio Lula da Silva acclamato dalla folla]

 

Partendo da qui, il doc mostra come per la situazione attuale del Brasile, governato dal presidente Jair Bolsonaro che più volte ha dimostrato di mettere in atto politiche repressive, non ci sia da stupirsi troppo.

 

È stato un lento inanellamento di eventi e azioni di politici che hanno tutti piano piano contribuito a un ritorno alla chiusura del Paese.

 

Come in Elena, doc con cui si è affermata nel mondo del Documentario, la Costa arricchisce il suo lavoro con filmati di repertorio che permettono allo spettatore di farsi una propria idea sui temi trattati.

 

La regista e narratrice, infatti, con la sua voce fuori campo ci aiuta semplicemente a riconoscere i volti che ci appaiono sullo schermo, chiarisce alcune scene e ci dà una mano a inquadrare gli eventi sulla linea temporale. 

Fa tutto questo ma non giudica, non palesemente.

 

Sicuramente ci indirizza ma discretamente, lascia a noi il compito finale di scegliere se qualcosa è bene o male, giusta o sbagliata.

 

Nel documentario i nomi, le date, gli eventi sono tantissimi. 

 

Tanti quanti gli accordi silenziosi, gli atti di corruzione, le lotte all'interno del Brasile generate da tutto ciò ma che, a causa della costante poca chiarezza, hanno spesso spaccato il paese in due finendo per passare da lotte per la verità e la giustizia a motivo di divisione del popolo.

 

 

 

 

"Uno scrittore greco ha detto che la democrazia funziona solo quando i ricchi si sentono minacciati.

In caso contrario l'oligarchia va al potere.

Da padre in figlio, da figlio a nipote, da nipote a pronipote e così via.

Noi siamo una repubblica di famiglie."

 

Dice con amarezza la Costa mostrando una certa rassegnazione per le sorti del suo Brasile che sembra destinato alla corruzione e ad una ciclica politica repressiva.

 

The Edge of Democracy è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2019 ed è attualmente disponibile nel catalogo Netflix.

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Alla mia piccola Sama

 

Quest'anno l'Academy sembra particolarmente interessata alla realtà della guerra in Siria: Alla mia piccola Sama, infatti, vede la città di Aleppo come teatro degli eventi e abbraccia il periodo temporale della Battaglia di Aleppo - partendo da poco prima di essa - uno dei più feroci conflitti che si sono consumati dal 2012 al 2016 durante la guerra civile.

 

Il documentario, dunque, racconta la critica situazione di questa guerra, ma non lo fa direttamente.

 

Waad Al-Kateab, regista e anche protagonista, gira questa opera come dedica d'amore alla piccola Sama, figlia sua e di Hamza Al-Kateab, alla quale sa che un giorno dovrà delle spiegazioni riguardo tutto il dolore in mezzo a cui è cresciuta.

 

 

[Waad Al-Kateab e la sua piccola Sama]

 

Uno dei punti focali del doc è capire come agire nella maniera migliore prendendosi allo stesso tempo le proprie responsabilità e cercando di non tradire i propri principi.


Waad e Hamza, genitori di Sama, hanno il dovere di dare alla propria figlia la migliore infanzia possibile, certo non quella che si può avere in un paese coinvolto in una guerra: la soluzione più plausibile sembrerebbe provare a lasciare la Siria.


D'altro canto Hamza, uno dei pochi medici rimasti ad Aleppo, sente come dovere anche quello di restare nella sua città per aiutare i feriti.

 

 

[Al centro Hamza Al-Kateab con sua figlia Sama, intorno tutti i colleghi]

 

Il doc mette in scena tutta la crudezza della guerra che non fa distinzione di razza, sesso, età.

 

La guerra colpisce e ferisce chiunque e, dopo che l'ha fatto, questi sono finalmente tutti uguali tra loro, anche agli occhi di chi era più cieco: solo ammassi di carne, sangue e polvere a cui subito si aggiungono lacrime.

 

Durante le riprese che la Al-Kateab gira all'interno dell'ospedale, fatte tra un lettino e l'altro, tra una parete che crolla e nuvoloni di polvere che si alzano non facendoci vedere più niente, la regista si interroga - sentendosi quasi colpevole - sulla correttezza del suo operato: la gente intorno muore e si dispera e lei che fa? 

 

 

 

 

Cammina tra loro con una telecamera e ne cattura il dolore.

 

Ma forza e coraggio, del resto è "Alla mia piccola Sama", perché lei possa un giorno capire.

 

Il film ha vinto L'Oeil d'Or al Festival del Cinema di Cannes 2019 ed è stato il documentario che ha ottenuto più nomination nella storia dei BAFTA, venendo nominato in quattro categorie e diventando il documentario più nominato di sempre.

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Honeyland

 

Hatidže Muratova vive nella località rurale di Bekirlija, nella Macedonia settentrionale, in una casetta di mattoni dentro cui ci sono una stufa a legna, una sedia, un letto su cui vive Nazife - la madre ottantacinquenne dipendente in tutto e per tutto da dalla figlia - e pochissima altra roba.

 

Un gatto, saltuariamente.

Fuori, non un'altra anima.

 

 


 

Hatidže è una delle poche a conoscere e mettere ancora in pratica l'apicoltura tradizionale, una tecnica per cui si lascia che le api producano il miele naturalmente (tra le pietre di un muro, nel tronco di un albero) e non nelle arnie da allevamento intensivo.

 

Nel silenzio della campagna interrotto solo dai versi degli animali o dal rumore del vento, seguiamo la protagonista ad ogni ora del giorno nel suo lavoro attento di raccolta del miele, fatto con criterio, senza esagerare nel prendere dalle api ciò le stesse le donano.

 

"Half for me, half for you."

Metà a me, metà a voi.

 

Dice prendendo dagli alveari una parte del miele e, senza avidità, lasciando il resto a quelle instancabili lavoratrici con le ali.

L'esperienza le ha insegnato che solo così riuscirà ad assicurarsi miele a sufficienza per sostenersi durante tutto l'anno, andando a vendere il suo prodotto genuino al mercato della lontana Skopje.

 

Nel rispetto di quel piccolo ecosistema c'è la chiave per la sua sopravvivenza.

 



Ma cosa accade quando l'atteggiamento dei confronti della Natura diventa avido ed egoista?

 

Quando non le siamo più grati per ciò che ci regala senza chiederci nulla in cambio ma inziamo a pretendere, sempre più, e a strapparle i figli esaurendo le sue forze?

 

È ciò che sperimenterà Hatidže quando una famigia di allevatori nomadi si stabilizzerà vicino casa sua e inizierà a guadagnarsi da vivere anch'essa producendo miele ma, diversamente dalla protagonista, agendo senza il minimo criterio nei confronti dell'ambiente che li ospita.

 

I registi Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov mettono in scena un vero documentario in stile mosca-sul-muro (fly-on-the-wall) in cui lo spettatore (la camera), discreto, praticamente invisibile agli occhi degli attori, segue tutto ciò che accade, spia ogni gesto e ascolta anche le parole sussurrate, le confessioni più intime.

 

Proprio come fosse una mosca che, svolazzando intorno ai protagonisti, ogni tanto si posa sul muro più vicino per osservare gli eventi, godersi lo spettacolo da posizione privilegiata, ma senza disturbare con il suo ronzio.

 

Non c'è una voce fuori campo, non c'è un'intervista.

Non ci sono colonne sonore.

 

L'unico sottofondo è quello naturale, lo stesso che accompagna Hatidže tutti i giorni, da una vita.

 

 



Questo documentario, nato come cortometraggio per promuovere il territorio macedone e le bellezze che circondano la zona del fiume Bregalnica, si è sviluppato diversamente con l'inaspettato evolversi degli eventi: l'arrivo della famiglia nomade e l'inizio dei contrasti con la protagonista hanno dato ai registi lo spunto per condurre il loro lavoro in maniera differente.

 

Nonostante questo cambio di direzione sul risultato finale, sicuramente anche grazie al motivo per cui Honeyland era nato, il doc fa venire voglia di andare a visitare quei luoghi in cui si ha l'impressione di riuscire a stare bene anche senza quel paio di scarpe in più e l'ultimo modello di smartphone.

 

Un plauso va alla fotografia di Fejmi Daut e Samir Ljuma.

 

I toni caldi e morbidi, con quelle tinte che vanno dal giallo all'arancio, arrivando alle varie tonalità di marrone, addolciscono l'intera storia dando un gusto agrodolce anche ai momenti più malinconici.

 

Un cucchiaino di miele nel tè senza zucchero.

 

 



Honeyland è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2019 dove ha fatto incetta di premi: Gran Premio della Giuria: World Cinema Documentary che viene assegnato al miglior documentario straniero, World Cinema Documentary Special Jury Award for Impact for Change e World Cinema Documentary Special Jury Award for Impact for Cinematography.

 

Ai premi Oscar 2020 era nominato sia nella categoria di Miglior Film Internazionale che in quella di Miglior Documentario

 

 



Quali di questi documentari avete già visto e quali siete curiosi di vedere?

 

Fatecelo sapere qui, nella culla morbida di Hey, Doc!, costruita con affetto per tutti gli amanti del documentario!

 

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1 commento

Morena Falcone

4 anni fa

Ma grazie! 😍

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